GABRIELE D'ANNUNZIO LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI Alle Pleiadi e ai Fati Gloria al Latin che disse: «Navigare è necessario; non è necessario vivere». A lui sia gloria in tutto il Mare! O Mare, accenderò sul solitario monte che addenta e artiglia te (leone sculto da qual Ciclope statuario?) un salso rogo estrutto col timone e la polèna della nave rotta, che ha la tortile forma del Tritone. Il ricurvo timon per cui condotta fu la nave nell'ultima procella con la barra tra l'una e l'altra scotta, la divina figura onde fu bella contra il flutto la prua sotto il baleno della nube che vinto avea la Stella, ardere voglio avverso il Mar Tirreno, l'ornamento superbo e il rude ordegno, le Pleiadi invocando al ciel sereno. Crepiterà nel fuoco il salso legno, su la cervice del leon proteso; e taluno vedrà di lungi il segno insolito e dirà: «Qual mano acceso ha il rogo audace? Quale iddio su l'erte rupi nel cuore della fiamma è atteso?». Non un iddio ma il figlio di Laerte qual dallo scoglio il peregrin d'Inferno con le pupille di martìri esperte vide tristo crollarsi per l'interno della fiamma cornuta che si feo voce d'eroe santissima in eterno. «Né dolcezza di figlio...» O Galileo, men vali tu che nel dantesco fuoco il piloto re d'Itaca Odisseo. Troppo il tuo verbo al paragone è fioco e debile il tuo gesto. Eccita i forti quei che forò la gola al molle proco. L'àncora che s'affonda ne' tuoi porti non giova a noi. Disdegna la salute chi mette sé nel turbo delle sorti. Ei naviga alle terre sconosciute, spirito insonne. Morde, àncora sola, i gorghi del suo cor la sua virtute. Di latin sangue sorse la parola degna del Re pelasgo; e il sacro Dante le diede più grand'ala, onde più vola. Re del Mediterraneo, parlante nel maggior corno della fiamma antica, parlami in questo rogo fiammeggiante! Questo vigile fuoco ti nutrica il mio vóto, e il timone e la polèna del vascel cui Fortuna fa nimica, o tu che col tuo cor la tua carena contra i perigli spignere fosti uso dietro l'anima tua fatta Sirena, infin che il Mar fu sopra te richiuso! L'annunzio Udite, udite, o figli della terra, udite il grande annunzio ch'io vi reco sopra il vento palpitante con la mia bocca forte! Udite, o agricoltori, alzati nei diritti solchi, e voi che contro la possa dei giovenchi, o bifolchi, tendete le corde ritorte come quelle del suono tese nelle antiche lire, e voi, femmine possenti in oprare e partorite, alzate su le porte, e voi nella luce floridi, e voi nell'ombra curvi, fanciulli loquaci, vecchi taciturni, o vita, o morte, uditemi! Udite l'annunziatore di lontano che reca l'annunzio del prodigio meridiano onde fu pieno tutto quanto il cielo nell'ora ardente! V'empirò di meraviglia; v'infiammerò di gioia; vi trarrò dalle ciglia il riso e il pianto. Salirà dai profondi cuori un grido immenso come quel che improvviso tonò nel silenzio del giorno santo. Ornate di purpuree bende il giogo oneroso, delle più fresche erbe gli alari che il fuoco ha róso nel fervido camino; sospendete alla trave arida la ghirlanda aulente, coronate la fronte del toro, il vaso lucente, la pietra del confino. La bellezza del mondo sopita si ridesta. Il mio canto vi chiama a una divina festa. Nelle vostre rene rudi, ecco, il mio canto versa un sangue divino. Udite, udite, o figli del Mare, udite il grande annunzio ch'io vi reco sopra il vento giubilante con la mia bocca sonora, nudi nell'ombra cerula delle vele mentre vibra come nella selva il curvo legno per ogni fibra da poppa a prora e il pino dischiomato che per l'alto sal viaggia pur anco geme in lunghe lacrime la selvaggia gomma onde il cuor gli odora, uditemi! Io vi dirò quel che da voi s'attende, le vostre sorti auguste, la deità che in voi splende e il Mar che è divino ancóra. Gittate le reti su i giardini del Mare ove rose voraci s'aprono tra il fluttuare dell'erbe confuse; cogliete il ramo vivo nella selva dei coralli ove fremono eretti gli ippocampi, cavalli esigui, e le meduse trapassano in torme leni come in aere nube; cogliete i fiori equorei, molli come le piume, dolci come le ciglia chiuse; fioritene ogni albero, fioritene ogni antenna, il timoniere alla barra, il gabbiere alla penna, e il piloto che sa i cieli, e i bracci dell'àncora tenace che sa gli abissi, e le escubie, occhi della nave aperti e fissi verso i lontani veli ove s'asconde l'isola felice o la tempesta! Il mio canto vi chiama a una divina festa. La bellezza del mondo sopita si ridesta come ai dì sereni. Mentì, mentì la voce dinanzi alle dentate Echìnadi tonante nella calma d'estate verso la nave. Il giorno spegneasi entro quell'acque, fumido; come una pira ardea Paxo; Achelòo, pensoso di Deianira e del divelto corno dalla forza d'Eràcle nell'iterata lotta, respirava per la sua vasta bocca nel mare e sola la sua brama era intorno. O padre fecondatore dei piani, re violento, atroce sposo, testimonio eterno sei tu. Mentì la voce che gridò: «Pan è morto!». Ma pieno era il giorno, ma era a sommo del cerchio il Sole, il maestro dell'opre eccellenti, lo specchio infaticabile degli umani, l'amico delle fonti, la chiara faccia, il puro occhio che vede tutte le cose (udite, udite!); e tutto il silenzio dei piani l'adorava offerendo al suo fuoco le messi altrici delle stirpi, i mietitori genuflessi dalle consacrate mani, e le falci terribili, e i vasi d'argilla proni onde l'acqua trasuda, simili alle fronti madide nella fatica, tramandati dai padri nella forma immortale, e i rossi carri aspettanti il peso cereale fermi presso la bica, e le chiome delle femmine seguaci, e le criniere dei cavalli furibondi sotto la sferza crudele e la schiuma di quel furore, e le preghiere grandi su l'opra antica. Pieno era il giorno, o figli, era il Sole imminente; e tutto il silenzio dei mari l'adorava offerendo al suo fuoco l'aroma del sale purificante, la felicità dell'onda, della rupe immobile, dell'alga vagabonda, della ferrea prora, il promontorio fulvo come leone in agguato con proteso l'artiglio, il golfo dominato dalla città che dolora nelle sue mura ansiosa, e i vitrei meandri delle correnti, e i gemmei limitari degli antri che solo il vento esplora. Tutto era silenzio, luce, forza, desìo. L'attesa del prodigio gonfiava questo mio cuore come il cuor del mondo. Era questa carne mortale impaziente di risplendere, come se d'un sangue fulgente l'astro ne rigasse il pondo. La sostanza del Sole era la mia sostanza. Erano in me i cieli infiniti, l'abondanza dei piani, il Mar profondo. E dal culmine dei cieli alle radici del Mare balenò, risonò la parola solare: «Il gran Pan non è morto!». Tremarono le mie vene, i miei capelli, e le selve, le messi, le acque, le rupi, i fuochi, i fiori, le belve. «Il gran Pan non è morto!» Tutte le creature tremarono come una sola foglia, come una sola goccia, come una sola favilla, sotto il lampo e il tuono della parola. «Il gran Pan non è morto!» E il terrore sacro si propagò ai confini dell'Universo. Ma gli uomini non tremarono, chini sotto le consuete onte. Tutte le creature udirono la voce vivente; ma non gli uomini cui l'ombra d'una croce umiliò la fronte. Ed io, che l'udii solo, stetti con le tremanti creature muto. E il dio mi disse: «O tu che canti, io son l'Eterna Fonte. Canta le mie laudi eterne». Parvemi ch'io morissi e ch'io rinascessi. O Morte, o Vita, o Eternità! E dissi: «Canterò, Signore». Dissi: «Canterò i tuoi mille nomi e le tue membra innumerevoli, perocché la fiamma e la semenza, l'alveare ed il gregge, l'oceano e la luna, la montagna ed il pomo son le tue membra, Signore; e l'opera dell'uomo è retta dalla tua legge. Canterò l'uomo che ara, che naviga, che combatte, che trae dalla rupe il ferro, dalla mammella il latte, il suono dalle avene. Canterò la grandezza dei mari e degli eroi, la guerra delle stirpi, la pazienza dei buoi, l'antichità del giogo, l'atto magnifico di colui che intride la farina e di colui che versa nel vaso l'olio d'oliva e di colui che accende il fuoco; perocché i cuori umani, come per un lungo esiglio, hanno obliato queste tue glorie, Signore, e che il giglio dei campi è un gaudio eterno». E il dio mi disse: «O figlio, canta anche il tuo alloro». LIBRO PRIMO MAIA Laus vitae I. O Vita, o Vita, dono terribile del dio, come una spada fedele, come una ruggente face, come la gorgóna, come la centàurea veste; o Vita, o Vita, dono d'oblìo, offerta agreste, come un'acqua chiara, come una corona, come un fiale, come il miele che la bocca separa dalla cera tenace; o Vita, o Vita, dono dell'Immortale alla mia sete crudele, alla mia fame vorace, alla mia sete e alla mia fame d'un giorno, non dirò io tutta la tua bellezza? Chi t'amò su la terra con questo furore? Chi ti attese in ogni attimo con ansie mai paghe? Chi riconobbe le tue ore sorelle de' suoi sogni? Chi più larghe piaghe s'ebbe nella tua guerra? E chi ferì con daghe di più sottili tempre? Chi di te gioì sempre come s'ei fosse per dipartirsi? Ah, tutti i suoi tirsi il mio desiderio scosse verso di te, o Vita dai mille e mille vólti, a ogni tua apparita, come un Tìaso di rosse Tìadi in boschi folti, tutti i suoi tirsi! Nessuna cosa mi fu aliena; nessuna mi sarà mai, mentre comprendo, mondo Laudata sii, Diversità delle creature, sirena del mondo! Talor non elessi perché parvemi che eleggendo io t'escludessi, o Diversità, meraviglia sempiterna, e che la rosa bianca e la vermiglia fosser dovute entrambe alla mia brama, e tutte le pasture co' lor sapori, tutte le cose pure e impure ai miei amori; però ch'io son colui che t'ama, o Diversità, sirena del mondo, io son colui che t'ama. Vigile a ogni soffio, intenta a ogni baleno, sempre in ascolto, sempre in attesa, pronta a ghermire, pronta a donare, pregna di veleno o di balsamo, tòrta nelle sue spire possenti o tesa come un arco, dietro la porta angusta o sul limitare dell'immensa foresta, ovunque, giorno e notte, al sereno e alla tempesta, in ogni luogo, in ogni evento, la mia anima visse come diecimila! È curva la Mira che fila, poi che d'oro e di ferro pesa lo stame come quel d'Ulisse. Tutto fu ambìto e tutto fu tentato. Ah perché non è infinito come il desiderio, il potere umano? Ogni gesto armonioso e rude mi fu d'esempio; ogni arte mi piacque, mi sedusse ogni dottrina, m'attrasse ogni lavoro. Invidiai l'uomo che erige un tempio e l'uomo che aggioga un toro, e colui che trae dall'antica forza dell'acque le forze novelle, e colui che distingue i corsi delle stelle, e colui che nei muti segni ode sonar le lingue dei regni perduti. Tutto fu ambìto e tutto fu tentato. Quel che non fu fatto io lo sognai; e tanto era l'ardore che il sogno eguagliò l'atto. Laudato sii, potere del sogno ond'io m'incorono imperialmente sopra le mie sorti e ascendo il trono della mia speranza, io che nacqui in una stanza di porpora e per nutrice ebbi una grande e taciturna donna discesa da una rupe roggia! Laudato sii intanto, o tu che apri il mio petto troppo angusto pel respiro della mia anima! E avrai da me un altro canto. II. Io nacqui ogni mattina. Ogni mio risveglio fu come un'improvvisa nascita nella luce: attoniti i miei occhi miravano la luce e il mondo. Chiedea l'ignaro: «Perché ti meravigli?». Attonito io rimirava la luce e il mondo. Quanti furono i miei giacigli! Giacqui su la bica flava udendo sotto il mio peso stridere l'aride ariste. Giacqui su i fragranti fieni, su le sabbie calde, su i carri, su i navigli, nelle logge di marmo, sotto le pergole, sotto le tende, sotto le querci. Dove giacqui, rinacqui. Mi persuase i sonni il canto della trebbia, il canto dei marinai, il canto delle sartie al vento, l'odore della pece, l'odore degli otri, l'odore dei rosai, il gemitìo del siero giù dai vimini sospesi nella cascina, la vece delle spole nei telai notturna, il ruggir cupo dei forni accesi, il favellar leggero dell'acque pei botri, il battere della maciulla nell'aia. E parvemi talora su quei familiari suoni farsi un alto silenzio e riudire il lontano canto della mia culla. Mi destò il Sole raggiandomi la faccia. Vidi per le trame delle mie palpebre il fulgore del mio sangue. Il mozzo pendulo dal cordame gittò a me supino il suo grido, il suo grido annunziatore; e rise il lieve lido come un labbro su la bonaccia. Le secchie all'alba nel pozzo traboccanti d'acqua ghiaccia con lor croscio argentino suscitaron nel mio vigore nudo il brivido salubre del lavacro mattutino. Le allodole gloriose in alto in alto in alto dalla rocca dell'Azzurro mi chiamarono al grande assalto. I poledri violenti su la prateria molle, irsuti il pel selvaggio, coperti di rugiade come i bruchi villosi in fondo alle corolle, m'annitrirono su i vènti che parean recarmi il sentore degli ippòmani favolosi forte come un beveraggio. Cantò: «Ben venga maggio!» dal colle di ginestre chiaro la teoria coronata di canestre votive, e per le contrade e per l'anima mia trionfò Prosèrpina in veste tosca obliando Ade. Quante voci, quanti richiami, quanti inviti nell'aurore belle! Ma ebbi altri risvegli. Ebbi un letto vasto, sacro all'amor cieco e al perspicace odio; vasto sì che giacersi potessero con meco e con la mia donna la forza e la grazia, la crudeltà e la froda, la voluttà e la morte. Tra l'una e l'altra colonna pendeva una cortina grave che copria d'ombra il rito infecondo e la carne sazia, quando la concubina seduta su la proda mi guatava in silenzio con i suoi occhi instrutti nella cui notte ingombra io vedea passar gli antichi mostri e gli eterni lutti. Io t'abbandonai, O mia carne, t'abbandonai come un re imberbe abbandona il suo reame alla guerriera che s'avanza in armi tremenda e bella, ond'ei teme e spera. Ella s'avanza vittoriosa, tra moltitudini in festa che di tutti i lor beni fan conviti al suo passare. Attonito trasale il re dolce, e la sua speranza ride al suo timore; ché non sapea di tanta gioia e di tanta fame ricchi i suoi schiavi, non sé tanto possente né di tanto feroci spini pieno il suo dolce cuore. Io ti saziai, o mia carne, ti saziai come l'alluvione sazia la terra che più non la riceve ed è sommersa. Fiumi perigliosi precipitarono ruggendo sopra di te perduta. Fosti talora come uva premuta da fiammei piedi; talora come neve segnata di vestigia cruente, d'impronte oscure; talora come inerte gleba; e parvemi ch'io sentissi in te serpere ignote radici e udissi lunge stridere su la cote forse una scure. Furonvi donne serene con chiari occhi, infinite nel lor silenzio come le contrade piane ove scorre un fiume; furonvi donne per lume d'oro emule dell'estate e dell'incendio, simili a biade lussurianti che non toccò la falce ma che divora il fuoco degli astri sotto un cielo immite; furonvi donne sì lievi che una parola le fece schiave come una coppa riversa tiene prigione un'ape; furonvi altre con mani smorte che spensero ogni pensier forte senza romore; altre con mani esigue e pieghevoli, il cui gioco lento parea s'insinuasse a dividere le vene quasi fili di matasse tinte in oltremarino; altre, pallide e lasse, devastate dai baci, riarse d'amore sino alle midolle, perdute il cocente viso entro le chiome, con le nari come inquiete alette, con le labbra come parole dette, con le palpebre come le violette. E vi furono altre ancóra; e meravigliosamente io le conobbi. Conobbi il corpo ignudo alla voce, al riso, al passo, al profumo. Il suono d'un passo sconosciuto mi fece ansioso quasi melodìa che s'oda giungere nella remota stanza per chiuse porte a quando a quando, e il cuore anela. Risa belle, io già dissi il vostro numero, io vi lodai diverse come le sorgenti della terra, come le piogge nelle stagioni! Io dissi la vostra essenza invisibile, profumi, le vostre mute effusioni che pur vincono i torrenti nella rapina! Ma la voce avrà da me un canto più glorioso. Furonvi città soavi su colli ermi, concluse nel lor silenzio come chi adora; furonvi palagi snelli su logge aperte ad accoglier l'aria come chi respira, sacri alle Muse; furonvi orti irrigui, paradisi recinti come labirinti con una porta sola e mille ambagi, ove l'aura piega ogni stelo e s'invola come chi fa ghirlande e non le lega; vi furono bevande, frutti, musiche pe' nostri agi; e le melancolie. III. O notte d'estate fra l'altre memoranda per la bellezza indicibile onde rifulse nell'ombra la mia persona mortale, quasi fosse in lei espressa l'effigie divina del Desiderio, sotto i muti baleni che facean del cielo estremo una fucina ardente! Nessuno comprenderà mai perché nel semplice atto umano io mi sentissi così bello per tutto l'esser mio: l'eguale dei Giovini trasfigurati nei miti eterni della grande Ellade. Per un'ora fui l'eguale dei trasfigurati Giovini alle soglie dei boschi e sul margine delle fonti: nell'ombra calda e sotto i muti lampi bello indicibilmente. La luna era trascorsa; dietro le opache cime vanito era il suo breve incanto. L'orrore medusèo parve impietrare la faccia sublime della notte. Non canto, non grido s'udiva. Rare gemevan l'aure. Boote guardava l'Orsa; e lacrimava il coro delle Pleiadi belle ai ginocchi del Toro; ed Orione in corsa veniva armato d'oro su le tristi sorelle; ed Erigone pura, in disparte e con elle, versava anche il suo pianto. Così viveva la gran notte, qual la mirò dai monti Orfeo. Viveva d'una vita altissima taciturna e sacra, come quando l'apollinea prole invocò: «M'odi, o iddia, desiderabile, di negro peplo vestita, cinta di astri, inspiratrice degli inni, madre dei sogni, urania e terrestre, generatrice di tutte le cose, ricchissima, oblìo delle cure, persuasiva, m'odi!». Eran nel mio petto gli inni. Ma intenti i miei occhi erano all'orizzonte ultimo che fervea come se vi sfavillasse ignìto e vivido su la vulcania incude un cuor di titano con un palpito immenso. «O cuore titanico» dissi «formidabile, palpitante al confine del cielo, te anche arde e torce il desiderio onde anelo come s'io morissi? Per quale amante? Per quale dominio? Per quale morte? Che vuoi? che vuoi? Ovunque il tuo affanno apre solchi d'arsura che all'alba le rugiade non addolciranno. Ah che anch'io questa notte saprei morir come gli eroi, uccidere un re nel suo letto o tra le spade, sciogliere una cintura forte come quella che alla Terra cingono gli antichi mari!» Immobile su la soglia io guatava con occhi arsi, sentendo in me parole alzarsi confuse, come chi delira. Dietro di me la casa umana, spenta e di cure ingombra, ove dormivano i servi, gemeva a quando a quando vana come una lira senza nervi. E parve a un tratto, lontana con la sua doglia senza ritorno, lasciarmi nella solitudine solo. Il mio palpito stesso e la rapidità dei lampi si confusero allora; furono una forza concorde che lottò con la più alta ombra, toccò Galassia e i campi, agitò il sonno dell'Aurora, svegliò tutte le corde. E io dissi: «O mondo, sei mio! Ti coglierò come un pomo, ti spremerò alla mia sete, alla mia sete perenne». E d'essere un uomo più non mi sovvenne, poi che il mio cuor palpitava su la terra e nel cielo con un palpito sì grande. E io dissi: «O figlie d'Atlante, Atlantidi, corona ardente delle Pleiadi, o Taigete, o Elettra, o Celeno, Merope fosca, e tu, Maia dall'affocata faccia, Asterope, Alcyone, scendete ai miei giardini!». E così dicea vanamente per tendere le braccia, per volontà di chiamare, per amor dei nomi divini. Il silenzio era vivo come un'anima sparsa che ascolti e attenda senza respiro. Un'ala si mosse, una foglia cadde, un calice si schiuse, traboccò una fonte, una lingua lambì l'acqua, un'orma calcò l'erba, un balzo ruppe uno stelo, un foco vano rigò l'aria, un odor si diffuse umido nella caldura. Tutti i miei sensi vigilavano, nell'attesa della gioia oscura. Una bellezza indicibile io sentìa spandersi per le mie membra, come chi trasfigura. «Che vuoi? che vuoi?» Immobile stetti come i simulacri esangui; poiché ogni cosa attraeva il mio gesto ma il mondo parea vanire. «Che vuoi? che vuoi?» Dalle mie stesse vene pareami essere attorta l'anima come da mille angui con torride e gelide spire, «Che vuoi? che vuoi?» E un lampo discoperse la vite meravigliosa, gravida di grandi grappoli, frondosa di fosche fronde, con le radici immerse nelle virtù profonde. «Morire o gioire! Gioire o morire!» Ah, poter di côrre dal ciel più lontano un pugno d'astri pareami fosse nella mia mano fatta onnipossente dal cor che in me fervea! E il grappolo più grande colsi avidamente, che pesava d'ambrosia come la mammella ineffabile d'una dea data all'adolescente per gioire e morir quivi. Gli acini eran vivi d'inesausto calore alle mie dita di gelo. Sentii ne' precordii l'odore del pampino lacerato come d'un velo arcano che si fendesse. O Vita, quel parvemi il primo e l'ultimo tuo dono, e che i miei giovini denti mai polpa d'opimo frutto avesser morso né mai bevuto agreste sorso le mie labbra sanguigne. L'odore di tutte le vigne sentii ne' precordii capaci e di tutti i mosti il sapore, ebbi le vendemmie spumanti di tutti gli autunni feraci nel cuore, e le feste i canti l'urto dei piè danzanti il suono dei flauti frigi, e Lesbo rossa di faci pel natale del vino e l'onda corale e il passo del lidio coturno, o Vita, quando la mia bocca vergine di baci diedi al tuo grappolo notturno. Allora, come una statua dalla voluttà della Notte espressa, una forma silenziosa biancheggiò nell'ombra terribile; e trasalii. Una luce fatua sorse come una colonna tremante nell'ombra soffocata; e trasalii. Non dissi: «O donna, chi sei tu?». Non chiesi: «D'onde venuta, di quali iddii messaggera?». Ma la conobbi subitamente, muta ed eloquente. Per sentieri profondi tratta me l'avea sola dall'armonia dei mondi il Desiderio. Non dissi: «Parla!». Ma mi volsi a ghermire il suo corpo discinto, che fresco sentii quasi fosse balzato da polle rupestri. Né per baciarla la bocca detersi dal succo del grappolo molle; ché il divino Istinto mi volle dei due beni diversi comporre una gioia infinita. O Vita, o Vita! O notte d'estate fra l'altre memoranda, in cui la mia carne compì l'umano atto fugace sotto la specie dell'Eterno! O notte in cui viver mi parve figurato nel violento mito che divennemi un segno sacro per le vie della terra ove tolsi tutti i miei beni! IV. E come l'esule torna alla cuna dei padri su la nave leggera: il suo cor ferve innovato nell'onda prodiera, la sua tristezza dilegua nella scìa lunga virente: io così sciolsi la vela, coi compagni molto a me fidi, in un'alba d'estate ventosa, dall'àpula riva ove ancor vidi ai cieli erta una romana colonna; io così navigai alfin verso l'Ellade sculta dal dio nella luce sublime e nel mare profondo qual simulacro che fa visibili all'uomo le leggi della Forza perfetta. E incontrammo un Eroe. Incontrammo colui che i Latini chiamano Ulisse, nelle acque di Leucade, sotto le rogge e bianche rupi che incombono al gorgo vorace, presso l'isola macra come corpo di rudi ossa incrollabili estrutto e sol d'argentea cintura precinto. Lui vedemmo su la nave incavata. E reggeva ei nel pugno la scotta spiando i volubili vènti, silenzioso; e il pìleo tèstile dei marinai coprivagli il capo canuto, la tunica breve il ginocchio ferreo, la palpebra alquanto l'occhio aguzzo; e vigile in ogni muscolo era l'infaticata possa del magnanimo cuore. E non i tripodi massicci, non i lebeti rotondi sotto i banchi del legno luceano, i bei doni d'Alcinoo re dei Feaci, né la veste né il manto distesi ove colcarsi e dormir potesse l'Eroe; ma solo ei tolto s'avea l'arco dell'allegra vendetta, l'arco di vaste corna e di nervo duro che teso stridette come la rondine nunzia del dì, quando ei scelse il quadrello a fieder la strozza del proco. Sol con quell'arco e con la nera sua nave, lungi dalla casa d'alto colmigno sonora d'industri telai, proseguiva il suo necessario travaglio contra l'implacabile Mare. «O Laertiade» gridammo, e il cuor ci balzava nel petto come ai Coribanti dell'Ida per una virtù furibonda e il fegato acerrimo ardeva «o Re degli Uomini, eversore di mura, piloto di tutte le sirti, ove navighi? A quali meravigliosi perigli conduci il legno tuo nero? Liberi uomini siamo e come tu la tua scotta noi la vita nostra nel pugno tegnamo, pronti a lasciarla in bando o a tenderla ancóra. Ma, se un re volessimo avere, te solo vorremmo per re, te che sai mille vie. Prendici nella tua nave tuoi fedeli insino alla morte!» Non pur degnò volgere il capo. Come a schiamazzo di vani fanciulli, non volse egli il capo canuto; e l'aletta vermiglia del pìleo gli palpitava al vento su l'arida gota che il tempo e il dolore solcato aveano di solchi venerandi. «Odimi» io gridai sul clamor dei cari compagni «odimi, o Re di tempeste! Tra costoro io sono il più forte. Mettimi alla prova. E, se tendo l'arco tuo grande, qual tuo pari prendimi teco. Ma, s'io nol tendo, ignudo tu configgimi alla tua prua.» Si volse egli men disdegnoso a quel giovine orgoglio chiarosonante nel vento; e il fólgore degli occhi suoi mi ferì per mezzo alla fronte. Poi tese la scotta allo sforzo del vento; e la vela regale lontanar pel Ionio raggiante guardammo in silenzio adunati. Ma il cuor mio dai cari compagni partito era per sempre; ed eglino ergevano il capo quasi dubitando che un giogo fosse per scender su loro intollerabile. E io tacqui in disparte, e fui solo; per sempre fui solo sul Mare. E in me solo credetti. Uomo, io non credetti ad altra virtù se non a quella inesorabile d'un cuore possente. E a me solo fedele io fui, al mio solo disegno. O pensieri, scintille dell'Atto, faville del ferro percosso, beltà dell'incude! E contemplai, di contro a Same dai foschi cipressi, Itaca petrosa, il Nèrito aspro nudato, la patria angusta di quella incoercibile Forza. E veder parvemi il tetto securo, la soglia polita, le stanze purgate dai morbi con fumido solfo, le fanti dai cinti vermigli intente a forbir seggi e deschi con le spugne lor cavernose o a torcere i lor fusi versatili o a scardassare le lane, e la tarda nutrice Euriclèa che valse già venti tauri, e l'economa Eurinòme, e Femio il cantore, e nell'orto cinto di pruni Laerte curvo a rincalzare l'arbusto. Or la figlia d'Icario guatava la torma dell'oche clamose beccare dal truogo il biondo fromento, e niuna aquila calata dal monte franger la cervice alle imbelli come nel sogno antico. Ma il talamo vasto, tutto di legno d'olivo lavorato di man dello sposo, confitto con chiovi d'argento saldamente al ceppo natìo che abbarbicato era con ferme stirpi alla durezza terrestre, il talamo antico d'Ulisse anco una volta deserto si stava, e per sempre, sotto la pelle bovina cui rodean le vigili tarme. «Deh, un qualche iddio mi rapisca, O mi fieda Cintia d'un telo!» Rammaricavasi acerba la moglie incorrotta. E la casa di strepitosi chieditori sonante e di danze e conviti ripensava ella nel tristo suo petto. E improvviso a rancore pestifero cedea la più che ventenne costanza! Fatta era l'alta reina simile a femmina ancella, poiché queste dicea parole: «Deh, avess'io scelto a marito il più ricco e valente dei Proci, accolto avessi il figlio di Polibo Eurìmaco o il figlio d'Eupite Antinòo, e seco passata io fossi ad altra dimora, più tosto che attendere l'uomo cui solo è talamo grato la tolda a sciogliervi il cinto dell'onda!». E il savio Ulissìde Telemaco dal suo seggio coperto di velli manosi governava i porcari. E il pallido adipe, onde un disco recato avea Melanzio ai Proci con la panca e la pelle e la brace perché si scaldasse e ugnesse e ammollisse il nervo dell'arco nel dì della strage, l'adipe grave su l'epa cresceva e pe' lombi e nel collo del savio Ulissìde. E partiva il suo letto di belle coltrici adorno con una florida fante ei che, ospite imberbe, mirato avea splendere Elena a Sparta e ricevuto il bel peplo da Elena e bevuto il nepente di Elena alla mensa ospitale. «Contra i nembi, contra i fari, contra gli iddii sempiterni, contra tutte le Forze che hanno e non hanno pupilla, che hanno e non hanno parola, combattere giovami sempre con la fronte e col pugno con l'asta e col remo col governale e col dardo per crescere e spandere immensa l'anima mia d'uom perituro su gli uomini che ne sien arsi d'ardore nell'opre dei tempi. Sol una è la palma ch'io voglio da te, o vergine Nike: l'Universo! Non altra. Sol quella ricever potrebbe da te Odisseo che a sé prega la morte nell'atto.» Tali volgea pensieri il Re sul ponto oscurato. O Itaca dura di rupi, l'ombra che tu protendesti nell'occaso del Sole tal fu per l'anima mia qual pel figlio della dogliosa nereide lo stigio lavacro! Caduto era ogni soffio. Nelle anse di Same sonore placavasi il rombo come nelle ritorte bùccine quando il dio cessa d'enfiarle col labbro salino. Simili a sarisse di bronzo nel macigno confitte i lacrimabili cipressi, interrotto il gemito amaro, parevano pronti a ferire. Scorgeasi la glauca Zacinto lungi, e il Cillene, e la costa crassa cui nutre di molta rapina il selvaggio Achelòo. Salir vidi un placido fumo allora, di tra gli oleastri che coronan col segno del buon lottator la Petrosa; e dolsemi il cor dentro al petto, ché pel sangue mi corse pensier della madre lontana, pensier delle dolci sorelle e del mio focolare. E m'apparve il bel fiume ove nato fui di stirpe sabella, Aterno di rossa corrente cui cavalca il ponte construtto di carene di travi d'ormeggi, spalmato di pece, in vista al monte nevoso che ha forma d'ubero pieno. E la tomba m'apparve sul poggio chiomante di pini, ove il padre riposa le sue grandi ossa ond'io m'ebbi tempra sì dura. E dissi nell'ombra: «O sorelle, tre come le porte del tempio, tre come il trifoglio dei paschi, tre come le Càriti leni, la prima dai floridi ricci salubre qual cespo di menta in docile rio, la seconda a me simigliante nel vólto ma quasi d'un velo soffusa argenteo sì ch'io mi creda specchiarmi in sul fare dell'alba a un fonte di acque serene, la terza dagli occhi bovini robusta qual fu giovinetta la figlia di Rea, della madre sostegno ridente, o mie dolci sorelle, non io vi obliai e di me voi favellate nel vespero forse, dal tetto arguto di nidi guardando verso l'Adriatico Mare. Pur, se taluna di voi improvviso mirasse l'aspetto della mia Libertà, d'orror tremerebbe e di spavento, perduto credendo il fratello suo caro, per sempre perduto; né più oserebbe toccarmi né dirmi parola di pace. E bagnerebbe di pianto le incolpabili mani materne, alla misera donna pregando l'oblìo del suo nato. E lo stranier che merca e froda al publico sole, il falso mendico che ostenta nel trivio l'ulcera immonda, il marinaio rissoso che batte il fanciullo e il vegliardo parrebbero a quella men empii del caro fratello perduto! Gèniti d'un grembo, d'un sangue, d'un atto d'amore noi siamo, sorelle. E, se penso le vene su la vostra tempia non cinta più cerule e tenui dell'ombre cui le frondi pie dell'ulivo fan sul vello dell'agna che pasce da presso, io sorrido d'una tremante dolcezza e le medesime vene guardo ne' miei pallidi polsi, che battono sì violente di desiderio implacato. E le mie virtù, i miei vizii, i miei delitti, i miei gaudii letiferi, i miei operosi tormenti, le occulte mie glorie, i sogni indicibili, tutto il fiume rapace del mio essere tingemi i polsi di quel vostro azzurro sì lieve! O consanguinei fiori, o pure ghirlande sospese alla fronte del focolare, s'io torni ove nacqui, in tema starò sorridente dinanzi alla vostra allegrezza come il viandante che sosta e parco è di chiare parole ché agli ospiti cela il suo stato. Ma tu, o madre mia forte, che mi generasti con tante grida nel mese fecondo che da Marte si noma, entrando il Sole nel segno dell'Ariete durocozzante, mentre passavan sul nostro tetto col volubile nembo i pòllini di primavera, tu subitamente svelato m'accoglierai tutto qual sono nella luce del tuo dolore. Qual sono, per te sarò sacro, per te gloriosa in patire e resistere, o madre! E tu, che immota rimani a costringer nelle tue braccia come in ferrea zona la casa fenduta dai fulmini, il soffio dell'immenso mondo in me sentirai vorticoso, senza terrore, e tutto saprai, pur quello che ignoto mi sta nel profondo, pur quello che sta nel Futuro, inspirata di conoscenza celeste. E mi dirai: «O figlio, t'ho fatto di vita sì breve e d'insaziabile cuore! Giusto è che tanto t'affretti a cercare a lottare a volere, lontan dalla madre che farti non seppe immortale». Gloria al tuo capo, o madre! Sii tu testimone sublime di mia verità sotto il cielo. O Solitaria, o Dolorosa, o Paziente, non sono io forse il tuo grido? Il tuo inconsapevole grido che, riconosciuto, si spande su gli uomini e reca ai più puri la tua speranza divina. O madre, sia gloria al tuo capo!». Queste la mia tristezza diceva parole, nell'ombra d'Itaca aspra di rupi. E parve dal mare profondo salirmi al petto una forza silente, in cui palpitavan le amiche Pleiadi, quando a notte supino, col vólto alle stelle, giacqui presso l'Occhio di prua. V. Dal golfo corintio, dal cuore dell'Ellade il vento soffiò contra l'Occhio di prua, cangiò gli oleastri d'Itaca, piegò i cipressi di Same, fe' simile il mare all'irta di fiocchi egida cui Pallade scuote. Ed era il meriggio, l'ora di Pan, l'ora grande. Il Sole era al colmo dei cieli ignudo; e tutto era chiaro d'intorno, presso e lontano; e l'anima mia come l'orbe dell'incorruttibile Etra tutta era di cristallo e d'oro sospesa in su l'acque. E il grido sonò: «Sciogli! Allarga! Su le scotte di randa! Borda randa! Su le drizze di fiocco! Issa fiocco!». E il legno garriva. Il legno gemeva cricchiava rombava; la verga bicorne strideva alla trozza: la forte ralinga batteva l'aere qual furia pennata di libertà sotto pugni di ghermitori tenaci; sinché contra l'albero a pioppo ghindata fu tra fondo e testiera, ordita la scotta al paranco. E l'àurica vela fu gonfia d'un alito immenso, più bella di tutte le cose d'intorno apparite, più di noi che l'aprimmo libera, più pura e innocente del cielo, una vergine forza, un desiderio pudìco, un arco acceso d'amore pel suo segno, un candido spirto tra il duplice Azzurro tutt'ala! Egidarmata Atena, ben tu ci volesti avverso il vento perché nell'approdo alla tua terra natale io memore fossi che sol nella lotta è la gioia. Parea che l'aspra tua verginità palpitasse presente nell'ombra della gran randa solare e che tu vigilassi co' tuoi occhi cesii l'alterna opra dei naviganti e tu le imprimessi in silenzio la tua misura divina. Obliqua la nave, inclinata sul fianco, in un solco di spume fervide, prueggiava giugnendo l'altura del vento avverso qual carro la cima di ripido monte. «Orza! Poggia!» E la verga biforca passava rombando fischiando sopra le nostre fronti chine; e tutta la ben costrutta compagine sotto lo sforzo risonava come una cetra. percossa; e l'opposto bordo attignea quasi l'acqua come avido labbro che sia per bevere il sale. Era l'opra agevole e lieve qual gioco. Aperto era il novo cammino alla rapida prua, come nel coro segue l'epòdo alla duplice strofe. Itaca Same Zacinto s'inazzurravano a poppa, cangiate in elisia corona; Oxia pareva un'ara ancor rosea della ecatombe, l'Àraxo un trofeo di Titani. Oh perìstrofe gioiosa verso la pampìnea Patre! Ora meridiana d'inimitabile vita! Levità della carne, freschezza dell'anima nova, rinascimento argentino! Non rugiada al solstizio su prato di salvie e di timi fu mai sì gemmante come l'anima mia che il Sole beveva inesausta. «O dio Sole, tu la bevi ed ella rinasce, tu l'ardi ed ella s'irrora. Antico tu sei, ella è sempre recente. Tu due e due volte trasmuti la faccia del mondo, ma la stagione che in lei cresce è diversa: non estate non primavera, ma una felicità più novella.» L'aroma dei canti futuri parea nel respiro alitarmi. E io dissi: «O Ineffabile, o Ignoto, il nome per te troveranno i miei canti futuri, il nome e la lode per sempre!». E la nave era parte di me, la vela erami ala su l'òmero, la prua era la cima del cuore sagliente, il lungo proteso bompresso era il segno della fecondante potenza. E come a un amplesso d'amore io tendeva al lito ricurvo, portato dal cielo e dal mare. O Ellade, e io credetti che dal tuo grembo di marmo avuto avrei finalmente il figlio che invoco immortale! Torrido soffio affocante qual fiato di mille fornaci su l'acqua del porto oleosa e corrotta; lezzo di tetre cloache, di putridi frutti, di torbidi fumi, di fecce, di sevi, di spezie, di vini, d'acri fermenti, d'umani sudori; terribili pietre consunte dal traffico immondo, riarse da Sirio, insozzate dall'escremento dell'ebre ciurme, dei cavalli, dei buoi stupiti ancor barcollanti in lungo rullìo di tempesta; tristi anelli di nero ferro, ormeggi più tristi che vincoli di prigionieri; man tese di mendicanti, riso ambiguo di prossenèti, e frode e fame in agguato: tale m'apparve all'approdo l'antica città degli Achei artefice di diademi e di vestimenta soavi. Per le vie bianche, sotto nembi di polve una bara misera fra roche preghiere recava il cadavere esangue dal vólto scoperto simile al giallore del croco. Alzato il teologo macro su la piazza pulverulenta a lenoni e vinai disvelava con stridula voce il mistero del dio senza muscoli. E i preti scaltri, nelle tuniche sparse d'untume nauseabondi, al loquace inesperto sorridean d'un perfido riso pettinando con l'unghie ricurve le luride barbe. Diana Lafria, scomparso era il tuo tempio agile a specchio del golfo. Correa per ladre mani pecunia dolosa, più vile del cencio e del timo. Oh effigie di gloria nel chiaro metallo battuto, quadriga trionfale, deità astata, spica opima, prora invitta, terrestre e marina potenza nel fermo rilievo inconsunto, propagata bellezza di acropoli vittoriose! Non gli Apolloniasti su le triere dipinte, né i mercatanti di Tiro nel segno d'Eràcle, né i Coi, né i Rodii, né gli Ateniesi di belle parole eran quivi; ma frode e fame in agguato. E nella notte illune, quando s'accesero i fari e il libico soffio si spense e i siderei fochi incoronarono i monti e s'udi lontana la voce del mare di là dai macigni dei moli, noi tristi ridendo e cantando seguimmo il prossenèta per cupi angiporti graveolenti in cerca di meretrici. E disse un de' cari compagni, mentre un gabbier fulvo e nerbuto receva il suo vin resinato alla soglia del lupanare tra afa d'amaro sudore: «La résina geme dai pini dell'Ida, ove Paris pascendo i buoi sogna Elena di Sparta che ancóra ei non vide, promessa!». I marinai dal collo ignudo, gli stradiotti bracati, i battellieri dal braccio di bronzo e dal dorso incurvo, le flosce bagasce dalle guance rosse di fuco vile, i bardassoni più molli delle femmine esperti in muovere l'anca, la schiuma del porto, la melma del trivio, i nativi e i metèci e gli stranieri approdati da un'ora, accesi di foia, tumultuavano al lume fumido delle lucerne grasse, tracannavano il vino malvagio e la mastica arzente, mercavano copula e lue per mezza dramma. E gli sguardi come i getti della saliva lucean sul carnaio in fermento. Quivi, al dir del buon prossenèta, giunta era una donna di Pirgo formosa, nel fiore degli anni. Ma non degnava ella beare di sua forma l'ebra ciurmaglia nella fumosa taverna aspra d'urli rauchi e di pugni percossi. In penetrale remoto, su candido letto, ella attendea lo straniero opulento, il navarca magnanimo, o l'alto signore dei latifondi patrensi. Salimmo allora la scala di putrido legno, varcammo la soglia segreta; e la donna di Pirgo ci apparve nell'ombra del letto, piccola e pingue, simile a gravida capra dalle molte mammelle olente dell'irco suo sposo. Niuno di noi appressarsi ardiva alla femmina elèa. Ma uno dei cari compagni le parlò con attico accento: «O femmina elèa, non nel Minyeio d'Omero, nell'ingiocondo Anigro che scorre tra il Minthe e il Lapitha, bagnasti il fior di tue membra?». Ridemmo in giovine coro. Ella gustar l'attico sale non seppe, e scagliò contra noi l'ingiuria e i sandali. Allora ci ritraemmo, con nari occluse giù per la scala di putrido legno. Repente brancolò nell'acre tenebra ver noi una mano ignota. Qual voce d'antico sepolcro imprecava per fame novella? Ristemmo, perplessi. Al breve bagliore scorsero i nostri occhi mortali l'eterna tartarea faccia d'Atropo che taglia lo stame, dell'inevitabile Mira? Sparvero l'inganno dell'ora presente, l'angustia del luogo, il turpe clamore degli ebri; e tutti i secoli muti che avean travagliato quel vólto, incanutito quel crine, sfatto quella bocca vorace, smunto quel seno infecondo, curvato quel dorso di belva, scarnito quell'avida branca, sepolto nell'orbita cava quell'occhio ancor semivivo senza cigli ingombro di sanie e lacrimoso di sangue, i millennii d'onta e di lutto oppressero il cuor mio vivente. E l'anima mia nel mio cuore tremò d'infinita tristezza, come innanzi all'aspetto senile d'una già cognita gente, di sùbito apparsomi in fondo al funebre specchio dei tempi. Ma risero i cari compagni. E nell'artiglio proteso dalla famelica lèna io posi ridendo una dramma. Mormorò ella parole buie tra le vacue gengive con la sua voce di tomba. La grande sua bianca criniera si dileguò nella notte. E noi scendemmo la scala di putrido legno. Cedette un de' gradi all'urto del piede, s'infranse con gemito. Oh dolce, dalla soglia del lupanare, mirar le vergini stelle! E disse un de' cari compagni tornando alla nave ancorata: «Aedo, tu désti la dramma a Elena figlia del Cigno, che fatta è serva millenne d'una meretrice di Pirgo». Vidi il pastor frigio su l'Ida pascere col flauto l'armento all'ombra dei pini chiomosi, innanzi che in talamo eburno ei s'avesse Elena di Sparta. E disse il compagno: «L'estremo Eroe cui ella soggiacque nomavasi, come l'idèo rapitor suo primo, Alessandro. Su quella zona terrestre che si protende arenosa tra il Mediterraneo Mare e il Mareotide Lago, il giovine Eroe la premette; e fu la lor prole Alessandria». Alessandria! Alessandria! La forza la gioia la gloria del trionfatore d'imperi e il van balbettìo faticoso del calvo grammatico! Io dissi meco: «Se ancóra l'impronta dei lombi divini rimane laggiù nella sabbia palustre, io andrò andrò adorante». Parlava la voce del sogno. «Votò l'Eroe la sua vasta coppa. Meditò taciturno. Votare la coppa ei soleva dopo sovrumane fatiche. Da lui stanco il vino traeva una onniveggente potenza. Ei vide le Forze immortali salir dalla terra e dal ponto. Tra il Mediterraneo e il Lago segnò taciturno le sorti della Città nascitura. I Continenti oscurati eran sotto l'ombra degli alti pensieri. Ei vedea la ricchezza dei regni versarsi infinita su l'Arcipelago azzurro, dalla Città nascitura come da corno inesausto. E vennegli Elena per l'acque dai lidi argivi incurvati secondo la forma del labbro ledèo; sorridendo gli venne Elena di Sparta che Achille bramò; venne a lui col nepente la bianca Tindaride; venne recando nel cinto il profumo dell'Ellade caro al signore dell'Asia. E il Macedone scosse la figlia di Zeus nudata su le fondamenta fatali. E fu quegli l'estremo Eroe cui ella soggiacque. Poi fu polluta per notti e notti, tra il sangue e l'incendio, dai centurioni di Roma, premuta fu sotto le squamme delle loriche pesanti. Punsero l'ispide barbe la sua mammella rotonda che dava la forma alle coppe d'avorio pei conviti dei re. Nel suo ventre convulso ruggire s'udì la lussuria come rombo in conca marina. Da sola ella fu la suburra aperta all'esercito in foia. Fu manomessa dai servi, dai ladroni, dagli omicidi, dai profanatori di tombe, dai mercenarii fuggiaschi. Calpesta in polvere e in fango, lambì con la lingua lasciva le calcagna dei violenti. Soffiò dovunque il suo fiato come insanabile peste. Accrebbe i nomi del vizio. Fece innumerevoli i nomi e i modi, maestra di spintrie pei Cesari enfii di murene e roscidi di purulenza. Vecchia d'indicibil vecchiezza, tentò se le mille sue rughe servir potessero a qualche più mostruosa lascivia; ma, come in solchi di sabbia sol cresce la crambe marina, crebbevi sol la vergogna. E fu di postriboli cencio, nettò dai vòmiti i letti, gittò nel rigagno del vico le rosse urine e lo sterco, spezzò il suo ultimo dente per rodere gli ossi ed i tozzi contesi alla cagna scabbiosa. Or tu la vedesti alla porta di quella femmina elèa, crinita di grande canizie. Fu sua sapienza la frode, sudore di opere infami ne' secoli fu suo lavacro; e tuttavia biancheggiare or noi la vedemmo nell'ombra! Come neve su volutabro sta su lei la grande canizie: attonito l'occhio la mira. Ahi fior di bianchezza sublime che alle Scee mirarono i Vegli! Aedo, tu désti la dramma a Elena figlia del Cigno.» Così, questo sogno sognando nell'amarissimo cuore, tornammo alla nave ancorata. E poi ci colcammo sul ponte, il sonno invocammo dall'Orse. Tal fu la notte di Patre. VI. Il fiato degli uomini vili fuggimmo, l'odore e il clamore degli Efimeri imbelli che quivi apparivano come la lebbra sul sen di Afrodite, la stupidità su la fronte di Pallade, negli occhi di Febo la sanie cruenta. O vigne immense eguali, pascoli d'api, coi verdi pampini illanguiditi dall'aridità presso il mare ceruleo dove Zacinto ignuda natava in silenzio come la sirena delusa che virtù non ebbe d'attrarre ai carmi la nave d'Ulisse! O grappoli sparsi in su l'aie quadrate per cuocersi al sole, densi e violacei come il crine sul collo di Saffo! Cipresso, e parvemi allora soltanto conoscer la tua meditabonda bellezza, commisto al palmite ricco, sul fianco dei colli silenti, su le correnti dell'acque, in contro al zaffiro sublime dei monti creati alle soglie dell'aria dal flauto di Pan! Oleandro, e allora t'elessi in riva ai ruscelli fiorito per inghirlandar la mia Musa che ama danzare e lottare, che tratta l'incudine e il sistro, che onora la grazia e la forza, che loda il pastore e l'eroe; t'elessi, oleandro, ti colsi per redimir le mie tempie di rose e d'alloro in un ramo. Non mai parso m'eri sì bello! E un altro da me canto avrai. Peregrinammo da Patre alla città santa d'Olimpia, al tempio di Zeus Cronide con chiusa l'offerta nel cuore. E tacita era la via; e il Sole inclinavasi all'onda occidua, con riaccesa divinità, Elio nomato per noi, Elio d'Eurifaessa. Ed èramo senza parola, tacenti, ma d'una celeste melodìa pieni il petto mortale. E talora dai monti aerei venivan messaggi per l'aere; e noi rendevamo l'orecchio, attoniti, ai suoni di Pan. Disse un de' cari compagni: «Nel plenilunio che segue il solstizio d'estate la Festa ha principio». S'udiva dietro a noi fragore di carri. E d'improvviso tutta la valle echeggiò di fragore come d'un émpito d'acque irrompenti da cataratte aperte su l'Elide. E il grido umano e il nitrito anelante squillavano sopra il fragore. «Per vincere vincere vincere!» E ci volgemmo. E vedemmo tra nembi di splendida polve una moltitudine immensa d'uomini, di cavalli, di carri condotta da mille Vittorie che armavano il cielo d'un fremito aquìleo, nube di penne di pepli di chiome impetuosa volante in aura di giovinezza. «Per vincere vincere vincere!» E tutto il Peloponneso tremò come foglia di gelso. Era su la via santa la forza dell'Ellade, mossa da un ramo d'ulivo selvaggio! Era il fior della stirpe quadruplice, la concorde e discorde anima ellèna protesa verso il serto leggiere d'ulivo selvaggio! Ionii e Dorii, Eolii ed Achei, il sangue d'Atene di Sparta di Tebe d'Elice d'Ege; le genti insulari di Nasso di Sèrifo d'Andro, di tutte le Cicladi; e i potenti di terra lontana, i tiranni sicelii, i re di Cirene, i grandi oligarchi delle città di Tessaglia e quei di Metaponto di Velia di Sibari di Posidonia ambivan l'ulivo selvaggio! E gli alti carri dipinti recavan le offerte votive: le decime tolte al bottino, le arche di cedro e d'avorio, le tavole i tripodi i vasi le lampade d'oro e d'argento, i tori e i cavalli di bronzo, i rudi colossi di pietra avvolti in lini trapunti, e le spugne il nitro la cera la pece gli aròmati gli olii. E tutti, città, re, strateghi, atleti, sacravan le offerte per vincere o per aver vinto nello stadio o in pugna campale. Gli Eretrii i Sicionii i Messenii grondavano ancóra di sangue. Le prede raccolte a Platèa eran fuse in un simulacro. La strage l'onta il servaggio facean trionfali i metalli. O Temistocle insonne, del gran Laertiade alunno, spada battuta a freddo, noi ti vedemmo sul carro che Atene ti diede, ben saldo come su trireme rostrata; e in te l'acuto sorriso era qual tempra nel ferro. E te, Pericle, anche vedemmo, o artefice della saggezza, te nato d'occulta sirena e di colui che a Micale fu vincitore nel nome d'Ebe giovinetta ridente; te anche vedemmo, che avevi nel gesto nel passo nel verbo nella cesarie ornata l'ordine divino onde fulge la pura colonna nei Propilèi di Mnesìcle, nel Partenone d'Ictìno. Ma Alcibiade, lo snello pantère versicolore che Diòniso amico èccita col batter del piede, l'auriga che al carro dall'asse d'oro agitava i cavalli più rapidi, chiamammo per nome. Grandissime offerte ei seco recava, ricchezze insigni, per dare per dar grandemente. Io gli chiesi: «E alla Vita che tanto ti diede, or tu che darai?». «Darò la mia statua scolpita dalle mie mani.» «E qual gioia ti parve più fiera?» «La gioia d'abbattere il limite alzato.» «Qual fu il tuo buon dèmone?» «Il rischio, il rischio dagli occhi irretorti.» «La buona virtù?» «Il piè leggero, Ospite, il mio piè leggero!» E gli strateghi i navarchi gli arconti passavano in carri dall'aureo timone, e i cantori i sapienti gli alunni di Clio gli artefici esperti di tutte le forme, coloro che foggiavan la sorte d'un popolo vivo, coloro che animavan l'umida argilla col pollice nudo, coloro che trasfiguravan gli aspetti dell'Essere con l'eloquenza. E vedemmo Erodòto dagli occhi d'intento fanciullo, che seco recava al consesso dell'Ellade i rotoli gravi di gloria come i fiari son pregni di miele. Vedemmo Ippia e Gorgia, vedemmo Demòstene Isòcrate Lisia; invocammo Pindaro invano. Ma splendean come astri nell'etra, come le Pleiadi e l'Orsa, nella moltitudine immensa quattordici atleti. Il fulgore dei sette e sette epinicii ardea nell'eroico sangue. Perpetuavasi il ritmo dell'olimpica Ode nei polsi del pùgile. L'ala della triade sagliente armava i mallèoli certi al corritore del lungo stadio. Ecco il bello Efarmosto d'Opunte, Ergotèle d'Imera, Psaumida di Camarina. Ecco Agesia Siracusano della profetica gente iamide, di Sòstrate prole. Ecco Alcimedonte egineta, d'Egina dai grandi navigli, della blepsiade gente. E d'improvviso apparve fiammeo di porpora coa, pari a inestinguibile vampa, nella moltitudine solo, più solo dell'aquila a sommo del monte, il monarca degli Inni. «Aquila, aquila» io dissi «onde torni sì radiante? M'odi! Rispondi! Per gli astri, pei vulcani, pei lampi, per le meteore, per tutto ciò che arde, per la sete del Deserto e il sale del Mare, odimi, volgiti all'ansia pedestre. Ch'io senta il tuo sguardo e il tuo grido fendermi il petto! Aquila, onde vieni?» «Dal Sole. Battei l'ali su la cervice del suo corsiere più bianco per affrettar la sua corsa all'ultimo Vertice azzurro.» VII. Non templi non are non tombe non statue votive, non greggi di vittime, non teorie solenni lungh'esso il Pecile, né il coro dei bronzei fanciulli sacrato al Dio da Messana né l'opra di Càlami offerta da Agrigento, né il toro degli Eretrii, né la Vittoria di Naupatto ammirammo giungendo ai piedi del Cronio pinifero; ma una bellezza virginea come un canto partènio, diffusa nella placida sera, c'indusse una sùbita pace nel cuore, e il tumulto si tacque. E sol riudimmo vegnente dai gioghi d'Arcadia il messaggio di Pan che conduce ne' tempi il Ritorno eternale. Arcadi monti, alpe d'Acaia, messenie cime, o chiostra della valle sacra, vivere mi sembraste voi contenendo la voce della placida sera, vivere come i seni delle vergini intatte che cantano il canto partènio! Un melodioso respiro parea muovere i grandi lineamenti all'intorno e, come per una bocca dischiusa, il visibile suono volgersi al ciparissio golfo in figura di fiume declive e l'Alfeo violento inebriato d'amore con Aretusa giacersi quivi in sul medesimo letto obliando il corso rapace. Eternità del Canto! Concava tutta la valle come la testudine d'Erme, d'innumerabili corde fatta immensa, cantava ancóra il callinico inno ai Giovini vittoriosi. La lotta dell'invide stirpi placavasi nella bellezza. Nell'armonia numerosa posava la rapida forza. L'orma dei cursori avea la forma del plettro. Il disco lanciato cangiavasi in ala robusta. Il pentatlo e il pancrazio erano i fulcri dell'Ode, come il tripode solido regge lo spirto prenuncio dei fati. «O Ellade» io dissi «il tuo Coro è più delle stelle perenne!» E, poi che al Cronio la notte gemmò di stelle la fronte, solo discesi là dove il Clàdeo breve si mesce all'Alfeo tortuoso, verso le pietre infrante che mute dormivan sul suolo augusto, simili a torme di atleti dalle bianche clamidi nella vigilia dei Giuochi sotto il plenilunio d'ecatombeone giacenti. Quasi un baglior d'occhi insonni parea palpitar nelle moli dissepolte; e d'orrore tremavami l'anima in petto, andando, ché toccar temea col piede incauto la vita eroica meditante al conspetto degli astri lo sforzo per l'alba ventura. Tra le mozze colonne del tempio di Era m'apparve la tavola d'oro e d'avorio opra del sottile Colòte, ove gli Ellanodici ponean le corone d'ulivo selvaggio. Alle nari mi giunse l'odor delle calde ceneri sacrificali che faceano un tumulo ingente. Vestito di lino era il mio silenzio. Giammai nei perigli l'anima mia s'era armata di sì vigile ardire come in quell'ora di sogni tra quelle notturne ruine; ma quasi un marmoreo rigore parea m'occupasse la carne mortale. Guardai le mie mani ignude e di pallido marmo le conobbi al lume del cielo. E l'ambiguità della morte e della vita, fra i templi abbattuti, fra i dubii aliti, fra i sogni creati e distrutti, fra le parvenze intermesse, mi fece immobile innanzi alle accolte ceneri delle ecatombi che insanguinato aveano l'ara di Zeus nelle remore olimpiadi e nudrito il suo inesplebile fuoco. «O Zeus, Tiranno più grande, sei dunque caduto per sempre? Te sire di tutte le voci terribili il grido iterato dalla scitica rupe sconvolse? Lo scaltro ti vinse, che il muscolo e l'adipe ascosi avea nella pelle del toro per sottrarre l'ostia al Potente? Gli Efimeri onorano il càuto Ribelle, obliosi del tuo Ordine puro che solo generò l'Universo! La piaga che sanguina e pute nell'egro fegato, sotto il rostro del vùlture adunco, ai lamentevoli figli del Rimorso e della Paura la piaga la piaga stridente ahi più venerabile sembra che la solitaria tua fronte onde balzò l'unica nata Pallade Atena dagli occhi chiari vergine prode artefice meditabonda patrona dei vertici forti nemica del cieco tumulto lucida regolatrice del combattimento ordinato che reca al sicuro trionfo! L'odor della carne corrotta, del sudore anèlo, della febbre, dell'agonia, della putredine ha vinto l'ambrosia della tua chioma su' tuoi grandi pensieri ondeggiante, o Generatore incorruttibile. E i servi, i liberati servi inclini al sentier consueto del fango, che ne' lor cuori ignavi agognan pur sempre il servaggio, scagliano contro a te la saliva e l'ingiuria. E il lor fiato perverso appesta fin l'aer montano intorno alla scitica rupe onde il tuo Nemico furace nauseato vomisce su loro. E l'Oceano lava la graveolente lordura. O Zeus, padre del Giorno sereno, quanto più bello del vincolato ululante Giapètide parveti il monte silenzioso, di vaste vertebre, fresco di polle invisibili, aulente d'inespugnabili fiori! Numerava il piagato con rauca voce i tuoi molti delitti; e tu sorridevi, nella tua superbia, più puro dell'aerea rugiada però che ciascun tuo desìo si mirasse perfetto nell'atto e ciascuna tua stilla di sangue fosse un'eterna volontà protesa a un supremo Ordine e sol d'armonia si nudrisse la creatrice tua gioia, d'aurora in aurora. Zeus, se più bella ti parve dell'Uom vincolato la rupe alta silente nell'etra, più bella dell'Uom crocifisso è la croce, segno del Fuoco primiero ch'espressero gli Arii dal ramo duplice attrito. Deposto il cadavere molle fu di sul segno infamato; ma i cinerei servi moltiplicarono il tristo simulacro in tutte le vie della Terra ove i carri falcìferi della Potenza profondato aveano le rote sonore e le falci corusche nel carname dei vinti. O Zeus, o Zeus, t'invoco. Risvégliati, afferra il domani! La fiamma urania ti sia vomere a solcare la Notte. Travaglia travaglia la Notte, o Re folgorante! Sovverti la tenebra! Fendi il pallore! Tu solo mondare la Terra dal cumulato escremento puoi, come la noce dal mallo se per la tua grandezza è come la stilla di latte espressa dal fico immaturo Galassia che immensa biancheggia. O Zeus, Tiranno più grande, tu carico di delitti e d'oltraggi, ingombro di prede, tu solo sei l'alta Innocenza. Risolleva l'Olimpo e poi risorridi alla Terra. E, come a sua donna l'amato offre una cintura più bella, rinnova per lei l'orizzonte cui volgere io possa la prora scolpita cantando il mio canto!» Così pregai nel mio cuore notturno, fra i dischi delle colonne atterrate che un dì avean chiuso il portento fidiaco. «FIDIA FIGLIUOLO DI CARMIDE ATENIESE MI FECE.» E, come il tremante artefice innanzi al compiuto simulacro, attesi nel tuono il consentimento divino. Ma silenzioso fu il cenno del dio che vivea nel mio petto e nella olimpica notte. E della notte remota sovvennemi, del giovinetto deliro che s'ebbe i due doni da Libero e da Citerea, il tumido grappolo e il seno femineo, quando laggiù su l'incude celeste sfavillava il cuor del titano. E dissi: «O Zeus, tu anche tu anche mandami un segno su le vie della Terra. Per togliere tutti i miei beni, per cogliere tutti i miei pomi, improbe fatiche sopporto, mostri multiformi combatto che mi precludono i varchi, ma più terribili quelli, ahi, ch'entro me di repente insorgono dalle profonde oscurità dove torpe il fango delle geniture!». E, movendo i passi per l'Alti, scorgere parvemi l'ombra dell'indovino di Zeus, il responso udire improvviso «Combattere e vincere i mostri non ti varrà su la Terra se trasfigurarli non sai, Aedo, in fanciulli divini». E i campani d'un gregge sonavan tra i marmi abbattuti. Subitamente si tacque in me l'audace tumulto, come se la preghiera accolta mi fosse e compiuto il desiderio e mutato già l'orizzonte in cintura più bella e mondata la Terra e disvelata la faccia di Pan che conduce nei tempi il Ritorno eternale. E un fanciullo pastore m'apparve, il pastore del gregge: simile a riflesso di stella in tremule acque m'apparve il puerile sorriso. Al lume dei cieli biancheggiar vidi i suoi denti puri nel saluto venusto: sentii la rugiada cadere. Volto avea Boote l'obliquo timon del plaustro fra i Trioni. Sì lucida era la notte che gli arbori su le colline leggere di là dall'Alfeo segnavano l'ombre visibili. Tanto era dolce il lineamento dei gioghi che parea, come il fiume, continuamente fluire. Giaceva sul dorico tempio il gregge lanoso; gli umili velli ed i marmi augusti in tepore spirante parean convivere. Tutto era plenitudine e pace: non morte, non ruina: armonia di forme perfette, concordia del Coro infinito. Necessità, come l'urto del piè nella danza tu eri! Su l'erba colcato il pastore poggiava il florido capo al tronco d'un platano. E quivi io vigile stetti al suo fianco in silenzio. Ed èramo volti ai monti d'Arcadia, all'indizio del di nascituro. E il fanciullo mordeva mentastro odoroso, scendendogli il fiore del sonno su' cigli virginei. Caddegli il ramicello selvaggio dalla bocca aulente che al fiato eguale si schiuse. La valle parve tutta allora una cuna divina per quella innocenza. Vidi su i vertici l'Alba avvolgere al piè della Notte il lembo del suo primo velo. D'amore tremai come s'ella ver me si piegasse e dicesse: «O tu che m'attendi, io ti cerco!». VIII. Alba apparita dal sacro Cillene, il mio canto novello salire a te non si ardisce; ma tu risplendi per sempre su le mie sorti guerriere freschissima confortatrice! Da te beve come da un fonte l'arsura della battaglia. Stendere tu suoli il tuo velo su la mia febbre animosa. Ti guardo allor che il periglio è presente, ti guardo allor che mi stringe il dolore, ti guardo allor che m'accingo a scuotere l'anima mia come arbore troppo gravato di frutti maturi, e dico: «Il mio giorno incomincia» con ineffabile gaudio entro me udendo il respiro lene del divino fanciullo. Lui sotto il platano, ancóra dormente, lasciai tra il suo gregge nell'Alti. E come dal cavo còrtice sgorga la copia del miele e liquida cola giù pel tronco insino alla ceppa: la flava ricchezza adunata dall'api sembra una gomma pingue che gema dal cuore dell'arbore, dono agli umani: così la sua grazia facea ricco il platano sterile e quasi apparia stirpe d'oro prodotta co' i rami e le frondi naturalmente alla luce. Tacito partìimi, nudato i piedi, per mezzo la bianca strage dei marmi, scendendo a riva. E la veste di lino erami grave. Mi scinsi. Palpitai nell'aere chiaro. Con qual grido in me riconobbi l'antica natura dell'acqua scagliandomi nella corrente del mitico Alfeo! Correva quel fiume in gran letto ghiaioso ardente consparso di platani di tamerici d'oleandri selvaggi; e le cicale col canto e col susurro le frondi accompagnavano il croscio robusto del rapitore. «Io Arethusa, io Arethusa!» Agili guizzavan nel gelo i muscoli all'impeto avverso resistendo; ma d'improvviso per tutta la carne un'azzurra fluidità mi ricorse e i muscoli furon su l'ossa come i fili dell'acqua turgidi contra le selci. E non più lottar volle il corpo a nuoto ma cedere tutto alla rapina sonora, ma essere quella rapina, ma perdere il limite umano, espandersi fino all'alpestre origine, correre a valle dal monte, ritorcersi in lunghi meandri, polire le rupi, l'erbe inclinare, i campi rodere, scalzar le radici, detergere il gregge, di schiume fervere, tingersi di cielo, splendere di raggi, gonfiarsi di tributi limosi, il limo deporre, chiarirsi com'aere gelido, in ogni goccia crescere impeto e brama, contro il Mar che agguaglia afforzarsi di rapidità, fiume eterno persistere nell'amarezza. «O Alfeo d'Aretusa, più vaste correnti solcan le valli terrestri, il Tànai estremo dirime innumere stirpi, termine d'imperi è il profondo Istro, il settemplice Nilo trasmuta le arene in immense biade e specchia ardui sepolcri. Ma sol tu sei regnatore nel mito, bel re cristallino! I più grandi beve per sempre l'inevitabile ponto. Morte informe in pèlaghi estingue tanta forza irrigua. Tu solo, rena d'amore immortale palpitante nell'amarezza, tu solo persisti e trascorri, puro qual nascesti dal fonte, al segno del tuo desiderio lontano. O Alfeo d'Aretusa, ch'io sia come te nel mio mare!» Mi mossi allora, temprato dal limpido gelo, mi mossi ai dissepolti simulacri che il triste ricovero chiude. Pio pellegrino, le rose del laurigero oleandro e il fior violetto dell'agno- casto io colsi tra le ruine. Tutta la valle ardeva di fiamma cerula, e il canto delle cicale era come il suono del foco celeste, talor come il crèpito chiaro degli arbusti arsi, dei fumanti aròmati. La magra terra fumava ed auliva d'incensi come il sommo dell'ara. La cenere delle ecatombi svegliarsi pareva in faville. Tintinno di tetracordi era il vento etesio nei pini. O Ippodàmia, nel rotto fronte del Tempio giacente, io vidi te sola tra Pelope e i quattro cavalli, orrendo virgineo silenzio chiuso nella gravezza del dorico peplo. Constretta nelle pieghe rigide come nelle ferree dita del Fato eri, o figlia d'Enomào. Ma il pensier tuo, sotto i folti riccioli simili alle uve della bimare Corinto mèta alla corsa fatale, immobile vivea nel fiammeo soffio dei quattro corsieri già pronti col carro. E non ebbe il Cillene non il Taigeto un abisso terribile come il tuo grembo intatto che Pelope amava. Perché di sùbito amore anch'io t'amai, genitrice d'Atreo? Perché nella memoria mi giganteggia il tuo peplo simile alla scorza d'un mondo? L'imagine in te ritrovai della perigliosa Bellezza che di sé m'accese e m'accende, virginea nel rigore del suo vestimento ordinato, urna di tutti i mali, profondità di dolore e di colpa, remota cagione di lutti infiniti, funesto silenzio ove rugge ebro di lussuria e di strage l'umano mostro nudrito d'inganni pel labirinto dei tempi. L'aspetto sublime dell'Ombra cui l'arte m'è fisa in te raffiguro, Ippodàmia. Tra l'eroe preparato e la fremente quadriga tu stai, piena il fianco regale di fertilità spaventosa, guatando la via dove spenti caddero sotto le ruote dei carri i tuoi chieditori. E il tuo padre in segreto ha fame di te; e il Tantalide è certo di premerti, al tramonto del sole, nudata e superba sopra le sue pelli di belve. E tu sei vergine ancóra; la tua cintura ti cinge di sopra il ventre velato, come il cerchio tacito gira a sommo del gorgo. Ma Tieste e Atreo nascituri e la cruenta progenie e il peso carnal dei delitti già t'affaticano il grembo. E dalla tua bianchezza immobile, o Statua sculta pel fronte sereno del Tempio, erompe il furor degli Atridi, propagansi l'odio fraterno e la libidine incesta e l'ebrietà dell'eccidio e i singulti e gli ululi e i lagni che trae dalle fauci umane la cieca percossa del Fato. O Ippodàmia, e lungi alla tempesta dei mali nella dolce luce un divino cigno canta il suo giovenile inno verso la Morte. «Recate i canestri! Versate sul fuoco l'orzo lustrale! Conducete vittima all'ara me trionfatrice dell'alta Ilio! Coronatemi il capo! All'Ellade io do la mia vita.» Chi dunque canta? La stirpe di Pelope, Ifigenìa, l'Atride cara ad Achille, ebra di gloria, futura luce dell'Ellade, innanzi alla moltitudine in arme, andando pel florido prato verso il bosco sacro d'Artèmide. «Per la mia patria e per tutta l'Ellade io muoio! Ma degli Argivi alcun non mi tocchi. Tenderò la gola in silenzio.» Ed Achille, preso il canestro, tolta l'acqua, circa l'altare corre invocando la dea per le navi e per l'aste. Rapisce la dea, sotto il ferro del sacrificatore, la vergine intatta. Prodigio! Su l'altare palpita occisa la grande cerva montana. In alto, per l'incolpato Etra, per la via de' vènti e degli astri, la suora d'Apolline reca nelle candide braccia la nata del sangue d'Atreo, o Ippodàmia, lei dormiente adagia su i gradi del tempio tàurico fatta più bella! Tal, figlia d'Enomao, che stai tra l'eroe preparato e i quattro corsieri anelanti, videro i miei occhi novelli illuminarsi l'antico mistero cui veste il tuo peplo. Un'armonia inaudita congiunse allora nel sogno la rigidità del tuo marmo alla flessibile forza in me viva; e sorsero accordi senza numero belli tra i miei spini e i miti divini. Ma la parola dell'uomo è tarda in seguir dagli abissi ai vertici l'avvolgimento dell'anima alata. Espressa in ardore di suoni non ho la figura che nutro della mia midolla più forte, o Statua scura pel fronte sereno del Tempio, né detto perché la tua fredda pietra si muti ai miei occhi nella sostanza infiammata cui l'arte mia teme e travaglia. Chi mai dunque sotto il velame scoprirà l'imagine ascosa? Forse colui che, esperto e vigile, ode in un soffio del vento rivivere i morti, rigiugnersi le parentele obliate, sotto l'incauta prole ansare il sen della Terra. IX. E l'Erme prassitelèo sul fulcro quadrato mi parve men virile, quasi fior molle di grazia feminea, quasi desiderabile amàsio, andrògina forma venusta, poi che saziato mi fui di grandezza e di lutto. Il torace il ventre ed il pube non marmo erano ma carne cedevole. Il nitido capo dai riccioli corti, recline verso Diòniso infante, nella levità del sorriso e dell'ombre era ambiguo tra il sogno e la vita, siccome quel del pastor duplice alato che guida le anime all'Orco e il rapito armento al suo antro. Dai ginocchi agli òmeri in ritmi leggeri saliva la forza. Ma, poi che da banda mi trassi e riguardai, la forza si palesò nella guisa che l'arco allentato si tende. I lombi gagliardi, le cosce nervose, le reni falcate e salde, la cervice robusta eran degni del dio enagònio. Gravando sul piè manco il peso del corpo divino, ei reggeva col braccio inflesso il pargolo ignudo. Ei giovine assunto alla forma perfetta portava il nascente germe inteso a spandersi in gioia, a sorgere nella pienezza dell'essere e della potenza. Così per visibili segni raffigurata mi parve nel Divenire Eterno l'immortalità della Vita. «O figlio di Maia» pregai «figlio dell'Atlantide Maia dall'affocata faccia, che onoro notturna fra gli astri Pleiade dai sandali belli dal crin di giacinto, che invoco fra le sue sorelle celesti, odimi, o Criseotarso, Amico degli uomini. Scendi dal fulcro quadrato, àrmati del pètaso il capo, allaccia gli aurei talari ai mallèoli, teco togli la verga di tre rampolli, la lunga clamide, l'arpe lunata, la borsa capace, e vieni tra gli uomini. Sei pur sempre il lor nume operoso, il dio dal gran cuore, l'artiere infallibile. Vieni! Udrai e vedrai maraviglie. O Agorèo, cui piacque trattar con vólto benigno i mercatori in piazza solleciti intorno alle biade dell'Attica magra, la Terra è oggi un'àgora immensa ove non si tendono reti di belle parole ma guerra si guerreggia furente per la ricchezza e l'impero. Duci di genti son fatti i tuoi mercatori ingegnosi, duci inesorabili e insonni dal breve motto che scrolla cumuli enormi di forza. Sul flutto dell'oro ondeggian le sorti dei regni. Come l'aere l'acqua ed il fuoco, fatto è l'oro un periglioso elemento che ha i suoi nembi, i suoi vortici, le sue vampe. O Infaticabile, e sonvi terre novelle, agitate dall'alito aspro dell'antico Ocèano, dove l'umana opera è qual rabida febbre. Il vento è qual bronzo che squilli, il vento è qual riso che rida qual gioia che canti su la magnificenza e l'onta degli atti. Il verbo è una lama aguzzata a duplice taglio. La gara, che tu proteggevi nelle fulve palestre, divora le vie strepitose. Gli uomini dalla mascella belluina e dal mento di selce màsticano l'ansia qual foglia amara d'alloro. La Volontà reca intrecciati a sé il Dominio e il Piacere come i serpi al tuo caducèo. L'Istinto è un impeto sagliente, un ariete caloroso dalle inesauste reni, che si precipita sopra la vita e l'assale e la copre e sì la feconda reluttante o sommessa. Passan talora su le rosse città nuvole di speranze, quasi tempesta di ali; e s'empion d'un rombo gli orecchi degli uomini maraviglioso, ch'è il rombo degli inni futuri. Le mammelle irrìgue della Terra moltiplicarsi paiono alla cresciuta avidità della prole. Il Destino toglie da tutti gli spazii i suoi limiti, vinto e respinto per sempre dalla libertà degli eroi. O Macchinatore, e una stirpe di ferro, una sorta di schiavi foggiata nella sostanza lucente de' clìpei dell'aste degli schinieri, una serva moltitudine di Giganti impigri obbedisce ai fanciulli e alle femmine, meglio che su triere veloce al celeùste la ciurma unta di olio d'oliva. E non il flauto né il canto regola il moto con ritmo eguale; ma una potenza che non falla, simile al sano cuore nel petto dell'uomo, pulsa in quelle ossature polite e circola in ogni membro con giro iterato accelerando il lavoro. Gran fremito scuote le case. M'odi. Il gesto del paziente ilota, che trita la spelta o il latte agita nel secchio o scardassa le lane, s'immilla ne' ferrei bracci nelle ruote dentate ne' lunghi cuoi serpentini che per girevoli dischi trascorrono propagando l'impulso ai congegni sottili onde l'informe sostanza esce trasfigurata come da industria sagace d'innumerevoli dita. O Erme, i telai della lidia Aracne diurni e notturni, ove come rondini argute volavan le spole, travagliano senza canzone di vergine e senza lucerna, soli in ordin lungo strependo. Il sudore d'Efèsto su la piastra imposta all'incude profuso, è ormai vano o Erme, ché nelle fucine, come la man puerile incide la tenera canna o divide le fibre del cortice lieve, l'ordigno facile taglia distende assottiglia fóra contorce per mille guise il metallo ammassato in solidi pani. Odimi, o Inventore. E i magli, i magli più vasti delle rupi che il lacertoso Ciclope scagliò contra Ulisse tuo caro, invisibile pugno solleva e precipita in ritmo agevolmente come il fanciullo manda e ribatte volubile palla per gioco. Gioco di fanciullo era a poppa del nautico pino il chenisco, l'anitrella scolpita nella curva trave spalmata perché galleggiasse in eterno. O Erme, nave catafratta or galleggia e naviga senza vele né remi. Discende pel pendìo dello scalo nel mare compagine eccelsa come cittadella munita, corbame e fasciame di ferro testudinato di piastra a martello più salda che orbe di settemplice scudo. Gran torri soperchiano il vallo. La carena ha un cuore di fuoco onde creasi la propulsante virtù dell'ali marine che tùrbinan sotto la poppa tra ruota e timone sommerse. Atto alla guerra e alla pace, minaccioso d'armi tonanti o dei doni onusto che all'uomo fa la veneranda Demetra, il colosso equoreo solca pèlaghi ed ocèani, varca gli eurìpi i bòsfori i sacri istmi che l'uom frale recise come tu dio con l'arpe il collo d'Argo tutt'occhi. Oltre le Caspie Porte, oltre l'Atlante ove il coro delle Esperidi per sempre si tace, oltre la piaggia del Cinnamomo trapassa. Lascia l'iperbòreo lito ove non più danza e canta Apolline dall'equinozio di primavera insino al levar delle Pleiadi re dei conviti soavi. Di Taprobane a Ierne di Cerne all'Ocèano Eoo la sua scìa grande orla i lembi di quel mondo che t'appariva nel volo, o Alipede, quale macedone clamide stesa. Ma di là dalla piaggia d'Eea, di là dall'estremo Occidente, ove Elio sommerge i cavalli, trapassa ad attingere un altro mondo che sotto altre stelle si giace in duplice forma, simile a un'ala d'uccello e simile a un'orsa poggiata le zampe nell'artico gelo. E il certo piloto disegna nell'acque un cammino ben cognito a tutte le prore, sì che traccia su traccia persistevi qual nelle vie frequenti il solco dei carri. O Egemonio, m'odi. Nel mare è il certame dei regni. Il mare implacabile prende e scevera, senza fallire, le virtù delle stirpi nel tempo. Più della terra antico, nudrito di morti ma di nascimenti fecondo, più della terra è bello, più della terra è sicuro. I morti non rende, ma rende l'amore a chi l'ama tenace. La Speranza che stette al fianco dell'uomo animoso curva su la rate pelasga, la selvaggia compagna cui contra l'occhio aguzzato la palpebra rossa arrovesciavano i vènti, or fatta è donna imperiale Thalassia nomata su i vènti. Nel trono ella sta d'Amfitrite. Catenata sembra la Gloria tra le sue tempie. Il suo seno è una primavera anelante. Il suo palpito si ripercuote dai golfi e dai bòsfori azzurri del Mediterraneo Mare sino ai promontorii nimbosi della barbarica Ierne. Bùccine di mille Tritoni non vincono il chiaro clangore della sua tromba di bronzo. L'odono i popoli forti: cantando l'inno dei Padri, spingon rivali nel flutto ruggente le navi di ferro; ché necessario è navigare, vivere non è necessario. Polèna a ogni prora novella è il cuore vermiglio dell'uomo inalzato sopra la Morte. Odimi, o Enagonio. Il Taigeto ha i segugi più ardenti; ha Sciro le capre dalle mamme irrigue di latte più pingue; Argo, le armi; Tebe, i carri; ma la Sicilia ferace dà le quadrighe magnifiche, i bene bardati corsieri dal piè di tempesta. Ne' tuoi stadii l'asse tutt'oro guizza come folgore in nube. La Rapidità dalle nari di fiamma par su le tue mete lasciar vestigia d'incendio. Ierone di Siracusa, Senòcrate di Agrigento, Cromio d'Etna, fior di Sicilia, contendon la palma agli Elleni. Pindaro diademato offre agli eroi trionfali la grande coppa dell'inno. Non l'ebrietà della strofe né fronda di quercia d'olivo di pino s'attendono, o Erme, i conduttori dei carri igniti cui circo e vittoria è l'Orbe terrestre! Nel pugno non reggon le redini anguste, non figgono alle cervici dei cavalli lo sguardo. Governano ordigni più snelli che il tèndine equino ma possenti più ch'epitagma scagliato nella battaglia. Scrutano lo spazio ventoso, i piani i fiumi i monti che valicheranno. Obbedisce il pulsante metallo al tocco infallibile. Foschi son gli intenti vólti, notturni come il vólto di Ade re d'Ombre che trae Persefóne piangente. Traggono il pianto e l'affanno degli uomini i lor negri carri, il male degli uomini stretti e misti nell'alito impuro, il dolore e tutti i suoi frutti sopportano, o Erme, il piacere e i suoi fiori senza radici, e l'avida gioia e il desiderio feroce e gli inestricabili nodi delle anime chiuse nei corpi ignavi, e gli intorpiditi crimini dall'unghie rattratte, e le volontà rilucenti nei sogni come in guaine diàfane, e l'opere nate da ieri, e i messaggi dei cuori fraterni, e la copia dei beni giocondi trasportano, o Erme: le rose dei liti solari al gelo dell'Isole Scàndie. Tonando passano, in lungo ordin su cento e cento ruote concordi, con nubi e faville per traccia, passano a vespro nei piani onde fuma sommossa dal diurno travaglio la fecondità delle glebe. Sùbita s'aderge in orgoglio la stanchezza dell'uomo e guata la porpora immensa del cielo, ove come in sanguigna promessa di vita più bella par che s'addentri col peso la creatura dell'uomo. Cade la notte. O perla, o lacrima d'Espero ardente! S'accendono i fari. Nei porti le ciurme si scagliano all'orgia. Le città splendono di febbri come un astro è cinto di aloni. Col rombo il tràino amplia la notte. Odimi, precipite Nunzio, alto Messaggero celeste. L'aere notturno e diurno palpita di umani messaggi. Commessa al silenzio dell'Etra la parola attinge i confini remoti. Serpeggia silente pei bàratri equorei, sotto i nettunii pascoli; emerge lungi perfetta nei segni, narra gli eventi, conduce le imprese, congiunge le stirpi, infèrvora i forti alla gara. La voce, la voce sonora, formata dal labbro spirante, in cavo artificio s'ingolfa, di sillaba in sillaba vibra tacitamente lontana, ravvivasi come in profonda bùccina e favellare l'ascolta l'orecchio inclinato. O Viale, come le vene per entro ai marmi di Sparta e del Tènaro folte son le vie frequenti e insuete ond'è variegata la Terra. Ma la mobile fiamma, che tu eccitavi nel petto del viatore, divampa e grandeggia in cuor dell'eroe novello che vede la Gloria accosciata come la Sfinge nell'immensità dei deserti o presso le occulte sorgenti dei fiumi o su i mari di gelo. Non di parole tebano enigma propone la belva ma chiede, o Erme, la chiave sacra che vedesti nel pugno dell'antichissima Gea! D'ossa lùcono i milliari degli spaventosi cammini. O Citaredo primo, tu il bene che supera tutti désti all'uomo quando la cava testudine nata nei monti facesti sonora, le canne trasverse inserendo nei fóri tra l'un margine e l'altro, poi sul graticcio spandendo la pelle di bue, configgendo a sommo del guscio i due bracci, questi poi giugnendo col giogo. Tra l'osseo giogo e l'estremo labbro della scaglia montana, come il nervo tra i corni dell'arco, tendesti minuge di agnelli bene attorte. Sette ne tendesti, o figliuolo di Maia, per onorare le Pleiadi belle nell'Etra. E la tua cheli selvaggia fu compagna al canto dell'uomo. Or l'uomo, emulando gli audaci tuoi spiriti, seppe di legni di nervi di crini di pelli d'avorii di metalli una multiforme crearsi e multànime gente canora che popola e gonfia la profonda orchestra occultata, ove non più la thyméle santa òccupa il centro del cerchio né più presso l'ara l'aulete dalla phorbéia di cuoio col duplice flauto accompagna le strofe e la danza corale. E non il cristallo del cielo né il sinuoso velario acceso dai raggi s'allarga su la moltitudine intenta; ma simile ad alto sepolcro è il notturno teatro concluso e in sé stesso rimbomba. Come nei mari le prime onde squammose all'urto dell'euro inarcan le schiene, s'ergono e spumano, il rugghio e il tuono avvicendano a corsa, di procella tumide in vasti cumuli precipitando con un rapimento improvviso; come nei boschi le prime faville accendono i coni aridi, le morte frondi, crescono in pallide fiamme, serpeggian pe' vepri, gli arbusti mordono, il cuor selvaggio attingono carco d'aromi, conflagrano subitamente fragorose verso la nube, irraggian per tutta la valle il fulgore e il terrore; così dall'orchestra prorompe l'impeto sinfoniale. O Maestro dei Sogni, m'odi. E i Sogni inani, i tuoi lievi simulacri della quiete, le tue mute imagini erranti, giganteggiano a un tratto con vólti di bragia, s'armano d'una ossatura erculea, grande hanno il fiato e polsi hanno violenti per stringere l'anima umana e scuoterla dalle radici e svèllerla e darla al ludibrio dei desiderii! E l'Amore, o Erme, il giovinetto cnidio triste come un rogo consunto ascolta per entro a' capegli che sono un unguento stillante; languisce in un freddo sudore; poi vuota la tazza che gli offre la Morte, ove tutti i piaceri spremuti fanno un sol tòsco. Padre d'Ermafrodito, non tu creasti l'oscuro Andrògino al far della notte, ebro di melodìa in un torrente di suoni premendo l'amata da tutti Anadiomene d'oro? Noi anche, ahi sì brevi, sul lito d'Eternità sognammo le mescolanze vietate, sdegnando di saziarci pur sempre con la dolcezza dei consueti giacigli. L'opera attendemmo diversa, nata da un'incognita febbre, fatta di dolore e di gioia, pallida di ricordanze ma di presagi animosa, recante in sé la promessa e il compimento, sorella delle Stagioni divine. O Psicagogo, se all'Ade squallido condurre dovessi tu l'anima mia, se condurre dovessi tu l'Ombra del mio canto su l'asfòdelo prato incontro a Saffo sublime dal crin di viola che forse m'attende, alla riva del Lete t'indugeresti, io penso, vedendo in me trasparire queste tante ignote ricchezze. E direbbemi alate parole la tua maraviglia: «Ombra, per la luce soave onde vieni, sosta, ch'io miri da presso la tua opulenza. Come arbore sei, che curvato abbia lungamente i suoi rami nel lidio Pattòlo e gravato ne sorga e si mesca il metallo regale alla polpa dei frutti. Tanto adunque sopra la Terra deserta d'iddii può la vita anco esser ricca, Ombra d'aedo? Parte alcuna in te riconosco di ciò che fu nostro, se indago; ed è la tua parte di gioia, la tua purità sorridente. Ma innumerevoli sono le cose novelle che ignoro, e le geniture dei mostri che pur non sembran pesare alla levità del tuo passo. Ombra, non sarà che tu getti questa abondanza all'oblìo. Non varcherai la riviera. Qui farai sosta con meco. Proteggerti vuole il Parente della Cetra; ché forse talor ti sovvenne del dio Intercessore ed alcuna dottrina apprendesti da lui. Di congiugnimenti maestro fui, di concordie divine compositore sagace, perito d'innesti immortali, per moltiplicar la mia forza, aedo, e la mia conoscenza. Penetrabile fui e fecondo. Come nella mia dolce Arcadia, dopo il verno, ai tepidi giorni quando muovon le gemme, il colono fende la scorza dell'arbore e v'incastra la marza acciocché in essa si alligni: la pianta inframmessa le vene sparge nell'altra e s'appiglia; vigoreggia il succhio, il sapore del frutto si fa generoso: così, con arte inserendo nella mia sostanza diverse deità, m'accrebbi di varia potenza, molteplice ed uno. La verginità cruda e invitta di Pallade a me collegata mi fece più destro in trar prede, e nella tetràgona pietra io fui pe' mortali Ermatena. Al Cintio lungescagliante ond'ebbi la verga trifoglia, cui diedi la cheli soave, mi strinsi con patto fraterno; e quindi Ermapòlline fui. Infondermi il sangue feroce dell'uccisore di mostri, dell'eroe muscoloso dalla fronte angusta, volli io Argicida; e fui Ermeràcle. E con altri iddii mi confusi; né sdegnai gli iddii bestiali, dalla testa di cane, dal becco di sparviere, dalle mascelle di leone, estrani, onde fui Ermanubi, Ermitra, Ermosiri. Ma da due comunanze m'ebbi più gran copia di forze segrete e di gioie profonde e di visioni sublimi, Ombra d'aedo che ascolti. M'accomunai con l'Amore, col nume che fu nel principio, che sarà nella fine. Con Eros confusi il mio sangue, col bellissimo fiore cui era devota la schiera sacra degli efebi tebani; e fui pe' mortali Ermeròte. M'accomunai col Silenzio io signor del discorso ornato, dell'insidiosa facondia. Ermarpòcrate fui, col dito premuto sul labbro eloquente; ma tenni ai miei piedi il vigile gallo che col grido annunzia l'aurora. Così tutto attrassi e composi in me, tutto abbracciai, di congiugnimenti maestro, perito d'innesti immortali. Or io mi penso, Ombra d'aedo, che ben conoscesti quest'arte tra gli uomini se cumulata hai tanta ricchezza nell'anima tua giovenile. Per ciò ti concedo che sosti sul lito del fiume torpente e d'umane cose favelli col dio. Non bevere l'onda obliosa, ma, se la sete ti arda, io voglio offerirti il pomo granato che aperse Core, di Demetra la figlia pura, con le chiare sue dita. Ne prese tre soli granelli: Aidòneo re sorridea. Bella era la bocca di Core». E io ti direi rispondendo: «O Intercessore benigno, poiché tu concedi ch'io teco favelli alla riva del Lete io tutte le cose dell'uomo ti svelerò, esule dio. Ma soffri che un'Ombra d'aedo interroghi l'alto Parente della Cetra! Ermerote io ti chiamerò, Ermerote, bel sangue commisto d'Amore. Tu conducevi Euridice per mano su i violetti asfodilli, e Orfeo t'era innanzi coronato di cipresso e di mirto il capo suo d'oro. E intorno era sacro silenzio ma ad ogni passo silente gemere s'udia la gran cetra sospesa al fianco d'Orfeo... Non così fu, Ermerote? Sentisti tu tremare la man di colei che traevi dall'Ade su i cari vestigi? E obliato non hai ogni altro tremito di carne mortale tu che i miseri uomini ignudi avvincevi ai supplizii? Intorno era sacro silenzio, ma s'udia nel Tartaro lungi rombare la ruota aspra d'angui cui tu avvincesti Issione. Ed ei si volse, ei si volse, Orfeo si volse! La donna perduta fu, dallo sguardo perduta! Ritrarla dovevi nelle inesorabili fauci. Mirasti i due vólti, e quegli occhi? Euridice! Orfeo! Notte eterna. Ah parlami di quel dolore, di quella bellezza, Ermerote! E poi fa ch'io beva l'oblìo.» X. Tornammo alla nave ancorata. La salutammo nel porto con ilare grido vedendo il candido fianco apparire. Tra le Onerarie ventrose più snella ci parve, leggera come fasèlo o liburna. L'albero la verga le sàrtie la gran randa i piccoli fiocchi il bompresso trincato le commessure del ponte le boccaporte e le cùbie e le caviglie e i bozzelli e tutti gli attrezzi minuti, canape legno metallo, amammo di vigile amore come vena per vena e nervo per nervo le membra viventi di fragile amica. Più che l'odor del mentastro ci piacque l'odor della nave. Or un de' cari compagni recato avea prigioniera in una gabbia intesta di giunco una bella cicala del regno di Pelope Eburno. E cautamente sospeso avea quella nassa terrestre a poppa, e sópravi steso un ramoscello di pino reciso nell'Alti; e si stava in ascolto avendo nel cuore l'anacreontica lode. Ma la regina del Canto, l'ebra di rugiada e di luce, su l'acqua oleosa del porto tacevasi attonita all'ombra dell'ingannevole fronda; ché il suo luogo è la cima dell'arbore o l'asta di Atena. E noi ridevamo il deluso. «Or téntala dunque col dito!» Salpammo l'àncora all'alba. Patre era avvolta di sonno torbido; ma l'alpi d'Etolia sorgevano in veste di croco, quasi Grazie pronte a danzare sul fiore del Ionio, fasciate dalla stephàne d'oro. «Forse, a piè del letto ove giace la meretrice di Pirgo invano aspettando il navarca, Elena figlia del Cigno s'accoscia e ronfia, nascosta le mille sue rughe per entro la grande sua bianca criniera» pensava taluno di noi sciogliendo la randa solare che ben da noi stessi tramata ci parve, col filo dei sogni. E vidi il fanciullo nell'Alti, in mezzo alla strage dei marmi, ignaro di quella vecchiezza. Il mattutino spiro ci volse alla porta del golfo corintio, tra i due promontorii affrontati come molossi che senza latrare protesi già fossero all'impeto ostile ma d'improvviso irretiti in non so qual divina ambage di rosei veli. E un amore dei monti indicibile era nei nostri petti, e riconoscerne i vólti ignudi e chiamarli per nome desiderammo. Ogni lume ogni ombra ogni solco ogni asprezza ci parve il segno d'un dio, l'orma d'un eroe, la fatica d'un uomo, lo sforzo d'un mostro. E dicevamo: «È il Coràce forse? è l'Aracinto? il Timfresto? o il Bomi onde sgorga l'Eveno?». Il vento gonfiava la randa; e tanto la vela era bella d'armoniale virtude che parea la scotta sua forte dovesse, pulsata da un plettro, rendere un suono di lira. E ad ogni istante gli aspetti dei monti eran nuovi, più dolci o più aspri. E se un'argentina conca appariva o un anfratto ceruleo, l'anima nostra vi si profondava per gli occhi bramosa d'attingerne l'imo come il natatore si scaglia dall'alto nell'onda ch'egli ama e sommerso tocca la sabbia o la radice dell'alga. Tuttavia perché, nella gioia e nell'avidità, ci saliva ai precordii un'ansia intermessa piegando al cammino ritroso? O amore, amore mai sazio di conoscere e d'adorare! Taluno de' cari compagni dicea: «Non vedremo la bocca dell'Eveno, e non il suo guado; non il regno di Deianira, non in Calidóne la caccia né la tomba ove corse delle Meleàgridi il pianto». Volgevansi a poppa gli sguardi per la scìa lunga virente. E l'odore dell'ecatombe sentimmo, vedemmo l'Etolia accesa di fùnebri roghi, la forza di Meleagro avvinta al tizzo dal Fato, e Deianira nel fiume torcersi abbrancata da Nesso, Eràcle con la saetta intrisa nel fiele dell'Idra passare il polmone ferino. E dicemmo: «O Ellade, tutto in te vige, splende e s'eterna. Come le barbe degli olivi per le tue piagge e i tuoi colli, come i filoni della pietra ne' tuoi monti, le geniture dei Miti ancor tengono presa l'antica virtù del tuo suolo. La gente che sega le magre tue messi, o abita le case vili a piè delle deserte acropoli, ti disconosce; e t'è più strània di quella che tolse i tuoi numi alle fronti de' tuoi templi in ruina per trarli mùtili e freddi nella sua caligine sorda. Ma i Miti, foggiati di terra d'aria d'acqua di fuoco e di passione furente, sono il tuo popolo vivo. Vivi palpitar li sentimmo sul nostro cuore umano stringendoli; e ancóra in segreto ci dissero qualche inattesa parola e ci diedero un'arme per meglio combattere o un ritmo ci appresero novo per meglio gioire. Verremo di gleba in gleba, di selce in selce noi pellegrini inchinando il cuor nostro umano su la deità che l'assempra? Ahi, l'ora è breve e il vento volubile, ed è necessario compiere altri perìpli finché la carena sia salda; e a consumabile tizzo la nostra sorte anco è avvinta. Ma ad ogni approdo intera tu sarai nel nostro fervore qual sei nel tuo triplice mare!». E, come già il Sole era presso all'ultimo vertice azzurro, scomparsa a ponente Naupatto dei Locri, a ostro Egio achea, ci apparve su l'acque il promontorio Andromàche simile a un leone sopito nel fulvo oro della sua giuba. Il vento languiva. Bonaccia grande era intorno. Udivamo a quando a quando la vela floscia battere e trepidare come un cuor moribondo, il legno per tutte le fibre alide dell'alidore celeste risponder con lungo gemito, guizzare i delfini sotto la poppa, i falchi stridere per entro i forami della rupe aurata. E la voce di prua mise un grido: «Il Parnasso!». E tutti balzammo a guatare la faccia d'Apollo apparita; però che sul tacito specchio il Monte Castalio, sublime e roseo, dominatore d'ogni altra grandezza e pur lene come se l'onda perenne del canto spetrata ne avesse la mole terrestre, assemprava ai nostri occhi attoniti e puri l'apparizione diurna del dio musagète vivente non qual nella vena del pario marmo dagli artefici è sculto a similitudine d'uomo ma qual forse il videro un tempo sul verde limite dei paschi i primi pastori proteggere i tauri e i cavalli misteriosa bellezza levata in sostanza serena. Cadde il vento. Noi tutti èramo senza parola fissi alla gran maraviglia. Sospeso era il Giorno sul nostro capo. Tutte le cose tacevano con un aspetto di eternità. L'occhio solo era vivo e veggente. O tregua apollinea, Meriggio! Qual coro avea chiuso il suo canto remoto negli echi del mare? Qual coro traeva il respiro per dare principio al suo canto? Coro di Sirene o di Parche? di Tiadi o di Muse? Il silenzio era come il silenzio che segue o precede le voci delle volontà sovrumane. Tutta la vita era a noi quasi tempio lieve senz'ombra, ch'entrammo non più morituri. O soffio etèsio, respiro meridiano del grande Mediterraneo contra il violento Cane, sùbito bàttito chioccante della vela, balzi d'un cuore che un flutto di sangue riempia, arco teso un'altra volta verso inarcati seni, alacrità delle forze, fame e sete carnali, sapore del pane e del vino, allegrezza dei corpi, dopo la pausa infinita! Oltrepassammo Andromàche, volgendoci al seno crisèo. Come dietro la negra nave dei Cretesi di Gnosso eletti dal Pitio al suo culto, un delfino agile balzava nel nostro solco veloce. Disse il Pitio lungescagliante ai navigatori cretesi: «Non prèndevi brama del cibo i precordii, come agli stanchi uomini suole avvenire quando negra nave s'ormeggi?». Seduti a poppa in corona noi avemmo ulive addolcite, pesci pescati col giacchio spiranti salsedine, caci molli che serbavano ancóra l'impronta dei vimini, fichi degni d'aver patria in Egina con l'ombelico melato di gomma, bionde uve sugose, vini chiari aulenti di pino rinfrescati in vasi d'argilla appesi alle sàrtie, e la calda màstica che dentro una goccia ha tutte le estati di Chio ricca in dolci donne e in lentischi. All'ombra della gran randa giocondamente mangiammo e bevemmo, in conspetto del gèmino Monte che il muto splendor del meriggio velava. Non era visibile a noi l'altra cima: quella ch'è sacra al Semelèio effrenato, alla deità delirante: Nisa, la cima notturna. Ma l'allegrezza nel sangue fervere sentimmo sì forte che per le nostre membra pieghevoli corse improvvisa inquietudine, quasi desiderio di danza furente e d'insano clamore. E due dei cari compagni sorsero e balzaron sul bordo co' piedi nudi a gara di destrezza in giochi rischiosi. Ed io pensai nel mio cuore gli antichi portenti appariti ai corsali tirreni quando per la còncava nave gorgogliò vino odorato e per la vela si sparse alta racemìfera vite e l'edera l'albero avvolse di corimbi e s'ebbe corona ogni scalmo. «O Cirra, o Nisa, vertici dell'anima umana, sommità del canto sereno, culmine dell'acre delirio, in breve ora noi v'attingemmo! Il chiaro silenzio adorammo ove l'ultima nota tremava del coro febèo. L'impeto selvaggio, che rende immemori l'Evie nell'orgia, or ecco sentiamo in confuso rompere dal torbido sangue.» E, la mia frenesia nel petto profondo constretta, io stava pensoso dell'uno e dell'altro mistero; quando udii stridor lieve l'aria fendere. Tesi l'orecchio in ascolto; e vennemi al labbro il sorriso, ché noto il suono m'era. «O Apollo, nel giorno tu vinci!» E la stridula voce oscillò qual canna fenduta nel vento; poi prese più forza, palpitò, si fece canora, da poppa a prua chiaramente s'udì sopra il croscio dell'acque. «La cicala! Udite, compagni, la cicala che canta!» gridai divenuto fanciullo nell'allegrezza. E tutti accorsero i cari compagni intorno alla gabbia di giunco. E, senza strepito, quivi stemmo intenti come dinanzi a famoso aedo; sì nova ci parve sul mare la voce agreste e sì novo l'aspetto della creatura vocale che non ha carne e non sangue e ignora i mali e il dolore, simigliante quasi ai Superni. Negra ma d'una cinerina lanugine ell'era coperta, che lucea qual serica veste; e grand'occhi avea due, protesi, ma tre più piccoli, rossi come le bacche cruente d'autunno, in esiguo corimbo a sommo del capo; e lunghe ali di tenue vetro nervute di foschi rilievi, il torace sparso di màcule, fatto di anella il mirabile addòme. Ognuno guatar la silvana ospite della nave parendo com'àugure incerto, facea più fraterni più giovani e vividi i vólti l'ingenuità del sorriso inclinato. Io l'àugure finsi. «Compiremo il periplo nel segno e nel nome d'Apollo; e guiderà la Cicala sacra, dal golfo crisèo insino alle acque di Delo, gli Apolloniasti d'Italia. Si nutrirà di glauca salsedine, appesa alla prora, in cella di giunco marino.» E sul lido ricurvo la Fòcide piena del nume era vaporata d'olivi come di tripodi mille, dinanzi alla nostra allegrezza. XI. Con un alberetto volante e sue sartiette arridate a mano, il palischermo attrezzammo a vela latina. Ciascun de' compagni a vicenda governò la scotta o il timone. Le baie le conche i recessi del parnassio mare esplorammo, or chini su l'acqua ove l'ombra nostra era un miracolo verde, or sottovento seduti fuori banda sopra gli scalmi coi piedi immersi nel sale, or tratti per la gomenetta dell'àncora dietro la poppa nella scìa che ci levigava la carne con una carezza innumerevole, or al fondo sopra le stuoie supini in un sonno ch'era ogni volta una voluttà sconosciuta. Acqua marina, mollezza di cinti insolubili, sguardo venereo della segreta profondità, riso d'abisso, lasciva sorella dell'aria, madre della nuvola, come ti loderò? Ogni baia ogni conca ogni recesso ci parve più bello. Dicemmo: «Ah chi mai vide ne' giorni una maraviglia più lieta?». E desiderammo ancorare per quivi obliar nostri amori scrutando le mille figure dell'acqua. Ma l'ancoraggio contiguo ebbe più dilettose figure, colori più novi, odori più freschi. Dicemmo: «Ecco il limite. I sensi non gioiranno più oltre». E il limite fu superato. Arene gemmee come tritume di gemme, ceppaie d'alghe, chiari coralli, fuchi di porpora, negre ulve, tra fango e sabbia flessibili intrichi di lunghe erbe ove abbonda la greggia dei pesci, io compresi quel nome che i pescatori tirreni usan per lode alla valle del mare onde traggono prede più ricche: Armonia! Noi non gittammo le reti, non adoprammo le nasse; non prendemmo il grongo di carne soave, né lo scombro tondo di cerula pelle sospendemmo con le sue branchie al vimine, pei delicati sacerdoti di Delfo. Ma di voi gioimmo, Armonie! Chi mi consolerà, mentre vivo sotto cieli pur dolci, chi mi consolerà dei soli spenti, dei giorni caduti? Poggi di Fiesole, chiari sono i vostri ulivi e foschi i vostri cipressi, e i ciriegi i mandorli i meli son bianchi son rosei negli orti di Verde- spina e di Laudòmia murati, oggi che la Primavera improvvisa coglie alle spalle il lanoso Febbraio e con la sua tepida forza rivèrsagli il capo e gli chiude le palpebre con le sue dita che auliscono di rosmarino, per baciarlo in bocca e fuggire. Bellosguardo, io certo dimane verrò ne' rosai che tu porti carichi di rose ancor chiuse. Ben so che i bocciuoli saranno come i capézzoli gonfii della pubescente. Ma forse bianca sarà la tua prima rosa fiorita su pel ferro onde pende nel pozzo la secchia loquace. O collina dell'Incontro, per la finestra ti veggo tutta rosata non come le rose ma come i fiori dell'erica, tanto sono leggere le selve de' tuoi querciuoli vestite ancor della fronda autunnale che un poco rosseggia e per entro vi si scorge il tenero verde! O Poggio Gherardo, le vecchie tue mura gialleggiano come su i nodi delle viti il lichene. E sta Vincigliata morta in un negrore di lance. Odo i colpi iterati dei ronchetti, odo le cesoie dei potatori. Uomini veggo poggiar le scale ai tronchi, salire, attendere all'opra. Tanta è la bontà della terra che forse i sermenti recisi a piè degli arbori mondi non periranno ma forse faranno radici. Pur fende la terra ancor qualche aratro, e splendono i buoi tra gli olivi e tra gli oppi: chiuse han le froge nelle gabbie di giunco perché ghiotti son di germogli e cimare osano i rametti se passan rasente, bramosi fors'anco di quelle vermene che sorgon per nesto in corona dalle piaghe dei tronchi spalmate di màstice roggio. Il bifolco gli incìta; e certo egli è roco, già vecchio. Ma oggi la voce dell'uomo è d'una dolcezza infinita in questo silenzio: ogni suono ha una risonanza infinita quasi che non tanto nell'aere vibri ma e nelle glebe e in tutte le specie dei corpi. Odo talor stridore come di lima sottile che ferro morda. È colei dai piedi azzurrigni? colei che su ciascuna sua tempia ha un candido segno, una nera zona a mezzo il petto pugnace? la cingallegra selvaggia? Nel cavo dell'arbore aduna già le lanugini molli ma par che in aerea fucina l'amor suo duri aspro travaglio. San Miniato, ora il Sole si piega verso la tua faccia graziosa e abbaglia il dolente tuo dio che non l'ama. Si leva dall'Arno un vapore di perla e si diffonde pe' campi ove rilucono i fossi colmi dell'acqua piovana; ma il fumo dei tetti campestri ceruleo par tuttavia. L'Incontro s'indora e invermiglia: cangia le sue querci in coralli; ma la Vallombrosa remota è tutta di violette divina, apparita in un valco che tra due colli s'insena ah sì dolce alla vista che tepido pare e segreto come l'inguine della Donna terrestra qui forse dormente, onde quest'anelito esala. E odo, se ascolto, venire di Rovezzano il rombo delle mulina che il vecchio fromento convertono in fresca farina, ma pe' solchi tremano i fili del novo fromento e con lor treman l'ombre, e non si distingue il fil verde dall'ombra sua cerula, e tutto è un tremolio verdazzurro che parmi aver quasi ai precordii. E certo la noce bronzina che nel cipressetto riluce m'è cara, e l'orma essiccata nella redola verde che ieri fu molle di pioggia, e la pendula chiave che più non mi chiude il verziere dal dì che nel suo rugginoso cannello mellificò l'ape come in celletta di bugno. Molto al mio cuore son care le cose che odo, che veggo; e forse tutti i roseti tralascerò per quel solo anèmone aperto sul ciglio del campo! E le campane della preghiera servile, il suono che vien di Rimaggio di Candeli di Monteloro, anche amerò per una nova imagine, o Primavera, che or mi nasce guardando te sopra le file degli oppi. Simili a concave mani di nodose dita son gli oppi, che reggono tenui sfere cristalline; e tu vi trascorri sopra e le tocchi traendo da ciascuna fila un accordo sì dolce che dal ciel sgorgar fa Espero, la lacrima prima. O Primavera, o Poesia, in questa dolcezza m'indugio per consolarmi e sorrido. E certo laggiù, nella casa che biancheggia a mezzo del colle, gli infermi sorridono anch'elli beati con povere vene al davanzale che il Sole riscalda, e dietro hanno i letti ove si giacquero in doglia e l'odor dei farmachi amari. Ma la ricordanza immortale d'una bellezza più maschia, d'una voluttà più possente, mi brucia, mi crucia. E il rinato pane che trema ne' retti solchi non mi vale quel lembo di suol rossastro fra crudi sassi, ove struggemmo col fuoco la stoppia e gli aròmati forti per profumar nostra sera. Biancheggiano gli escrementi dei falchi su pe' macigni di quella caverna montana ricovero ai greggi e agli uccelli rapaci, dove sitibondi scoprimmo la vena dell'acqua? Sì chiara che n'ebbi certezza sol quando v'immersi le mani, si fredda che quando la bevvi mi dolse la nuca pel gelo. O Fedriadi ardenti come due scaglie cadute da Sirio, la vostra sublime aridità nel meriggio m'accecò gli occhi del vólto ma tutti i miei spirti agitati, come sul vaporante spiracolo i capri dell'ansio Coreta, balzarono in fiero tumulto e qual sangue d'aurore videro il vermiglio avvenire. Fumano ancor sul Cirfi i roghi? La sfinge di Nasso decapitata ma alata protende le branche sul sacro cammino? Le tre danzatrici dalle mammelle corrose danzano ancóra intorno alla colonna fogliuta di acanti? Filano ancóra sotto i due platani vasti le donne focesi, dinanzi al Fonte Castalio, vestite d'azzurro? Non la pietra umbilicale dell'Orbe ma invano cercai nella polve la tomba del figlio d'Achille! E non volli altro letto per la mia delfica notte se non la terra presàga tra i due platani vasti chiomati di fronde e di stelle. Vedute io le avea, nella sera purpurea, silenziose emergere dalla durezza dell'antro. Miste alla roccia, come le imagini sculte nelle metòpi dei templi, si tacevano in cerchio le Castàlidi; e gli occhi lor grandi eran fisi, il Passato il Presente il Futuro con un solo sguardo abbracciando. Prigioni del sasso per sempre eran elle? I piedi leggeri che tessuto aveano in figure di danza la fresca bellezza del mondo, i bei piedi leggeri di Terpsicòre constretti eran nell'inerzia rupestre? Dal nudo macigno agguagliate mi sparvero. Ma le rividi libere nel sogno ch'io m'ebbi. Venivan per le vie de' vènti com'aquile senza nido nell'alba a volo, nell'alba crepitante di mille e mille fiaccole accese che i Distruttori e i Creatori squassavano in pugno gridando di gioia coi lordi capelli coperti di bianca rugiada, con le calcagna gravi d'umida zolla e di foglie. Come stuol d'aquile senza nido, venivan le nove Castàlidi a volo nell'alba, lacere i pepli, sconvolte le chiome, odorate di sangue e d'incendio, ebre di risa e di pianti, tumultuose di forze atroci e d'amori ineffabili, piene i polsi di ritmi discordi. Venivano dai porti inferni ove tutte le lingue umane suonan fra tutti i gemiti e i rùgghii del ferro domato; venivano dalle città di lucro ove la vita cupida senza schiuma e senza sudore s'affretta su le rotaie corusche, stride su la gèmina lama che non ha guaina né punta. Visitato aveano le folte moltitudini, udito aveano i canti feroci della fame e della vendetta, bevuto aveano gli inni di libertà, gli epinicii dell'Uomo non coronato che con salde rèdini intorno all'Orbe conduce in trionfo la quadriga degli Elementi. E nella rossa fornace ove struggevasi un fiume di bronzo pel simulacro d'un eroe senza clava liberatore del Mondo, nella fornace di gloria gittato avea Calliòpe le tavolette cerate e lo stilo, Melpomène la maschera dalla gran bocca, Urania la sfera celeste, Euterpe i due flauti eburni, Terpsicòre il chiaro eptacordo, Tàlia l'ellera, Èrato il mirto, l'annunziatrice Clio il breve infinito volume, Polinnia una foglia d'alloro già morduta nella sua corsa per temprar con l'aonio aroma il lezzo febbroso delle moltitudini folte. E venivano a stormo le Vergini figlie di Zeus com'aquile senza nido, affaticate dal peso delle bellezze raccolte ne' lor vasti seni, agitate dalle forze novelle che facean tremar come l'alte colonne d'un tempio crollante i lineamenti solenni del Passato nel lor pensiere verecondo. Ed erano ardenti di fecondità, agognanti di generare una gioia una potenza e un amore sovrumani per l'Uomo, di trarre una vita divina dalla faticosa materia che gorgogliava nell'Orbe come quel fiume di bronzo in quella fornace di gloria. E su la cima d'un'alpe, che non era Libètro né Parnasso né Elicona, si posarono ansanti nell'imminenza dell'opra. Non intonarono l'inno. Il Coro d'Apolline stette silenzioso nell'alba, fiso allo spettacolo immenso. Passavano senz'ombre su le inviolabili fronti le nubi in cui la certezza del Sol nascituro era già luce, era già fiamma. Pel grembo intatto dell'alpe, che chiudea le moli profonde del marmo, sacre ai colossi ai templi ai teatri novelli, crosciavan le sorgenti, aulivano i cèspiti, i covi i favi i nidi parlavano. «Euplete! Eurètria!» S'udiva sul grido dei Portatori di fuoco irrompere a quando a quando un nome invocato come il benefico nome d'una deità imminente. «Energèia!» Fuggito dagli occhi umani era il sonno bestiale della stanchezza. Libere eran tutte le braccia dal travaglio servile, libere per l'ornamento del mondo. La cieca materia, animata dal ritmo esatto, operava indefessa su la cieca materia; l'ordegno tenea su l'ordegno la vece dell'uomo. Il supplizio carnale era bandito per sempre, il Dolore assumendo l'aspetto d'un re soggiogato. L'ebrietà della forza chiedea di placarsi nei riti dell'Arte, nelle preghiere unanimi verso le Forme perfette, nell'innocenza del rivelato Universo, nel giovenile fonte dei Miti innovati. Un immenso desiderio di festa traeva gli uomini, franchi dalla notte e dalle fatiche, alle pianure ove i morti eran sepolti, lungh'essi i fiumi paterni che al mare portano su l'onda perenne l'immortalità delle stirpi feraci. Tutte le braccia, pronte a crear la bellezza, volsero le fiaccole al suolo spegnendole innanzi alla Luce raggiante per tutte le cime. E un rombo confuso di canti inauditi sonava nelle moltitudini asperse di rugiada. E l'attesa della Poesia palpitava nelle moltitudini come l'innumerevole riso del desìo marino che s'alza con le mille labbra dell'onda verso il Sole per divenire aere, altezza, via di luce, luce egli stesso infinita. E le nove antiche Sorelle non intonarono l'inno! Sotto le nubi infiammate dall'aurora, non con argilla ma con la sostanza sublime che nata era in elle dall'urto del conoscimento vitale, crearon per l'uomo una Voce più bella del Coro castalio. Aquile senza nido ripresero il volo, dall'alpe balzarono a sommo del cielo, un attimo stettero immote simili a costellazione vermiglia; poi contra il fulgore del Sol nascente, verso il Mare virgineo come la prima foglia del giovinetto salce (oh soavità dell'eterna grandezza!) si volsero avvinte per le flessibili mani in quell'atto lor consueto che usavan danzando al cospetto di Apolline. E niuno vide se risero o piansero. Vidi ben io ma tacere m'è caro. Inclinate il fianco sul vento, alte melodie non udite, senza traccia sparvero in coro le nove antiche Sorelle. E la nomata nel grido Euplete Eurètria Energèia, la nomata nel grido umano coi nomi divini delle plenitudini e delle virtù, l'invocata da tutti nell'alba, la decima Musa apparì, discese dal monte in mezzo agli uomini. E da prima non tutti la videro quivi; ma credetter forse che il fiato d'una primavera improvvisa li soffocasse d'amore, e ne tremarono. Io la vidi. E mi parve che il sangue m'abbandonasse e corresse fumido sotto i piedi della vegnente a invermigliarne i vestigi, e che spoglia dell'ossa quest'anima mia s'ergesse qual candida fiamma. Dissi: «Euplete, decima Musa, piena come l'onda che giunge dopo l'onda nona sul lido, gagliarda come il flutto decumano, o Antica, o Novella, m'odi per i giorni e per l'opre, m'odi per le mie notti insonni già calde di te non creata! Per la mia febbre, per gli astri, pei vulcani, pei lampi, per le meteore, per tutto ciò che arde, per la sete del Deserto e il sale del Mare, odimi, Eurètria, Energèia! Io son teco il supplice, senza pianto e senza ramo d'ulivo. Toccarti i ginocchi non oso. Chiederti non oso che m'abbi per l'aedo tuo primo ma sol per il tuo messaggero. Io sarò colui che t'annunzia». E, com'ella un poco inclinava la fronte accennando, sì forte fu nel mio petto il sussulto del cuore, ch'io trasalii come quei che sente la vita partirsi con sùbito balzo verso il mistero dell'ombra. E da me partito era il sogno; ché mormorare il vento dell'alba nei platani vasti intesi, le pallide stelle scorsi tramontare nel cielo della Fòcide, dietro le bianche Fedrìadi. Oh pronto risveglio! M'alzai dalla terra leggero, con limpidi occhi. Lavai la mia fronte nell'acqua castalia, ne bevvi nel cavo delle mie mani; alacre e puro salii pel cammino solenne verso le ruine del Tempio. E i galli cantarono. Presso e lungi, nelle case di Delfo e nei porti lontani, su i pianori dei monti, lungh'esse le vie lapidose, per tutte le rive del golfo i galli cantarono l'alba. Oh canti, fratelli dei raggi, ond'era accresciuta la luce nel cielo continuamente! Voci di virtù mattutina, che attendevate ogni volta le risposte ai vostri richiami per chiamare taluno ancor più distante! Fragranza del mar taciturno! Ombra e polve dell'arcana chiostra ove inerte pietra è oggi l'Ònfalo santo! Se una Volontà si sollevi armata d'un grande disegno, solo in essa è il centro dell'Orbe. XII. Chi mi consolerà, mentre vivo sotto cieli pur dolci, chi mi consolerà di tanto orgoglio e di tanta allegrezza che il vento salmastro disperse, con la polve delle ruine con la cenere dei sepolcri, ne' borri de' monti famosi? Certo su altre rive, su altre alture altre pianure, nei deserti di Libia, sul petto dei colossi di Memfi, nel nomo d'Arsìnoe ricco d'antìlopi e di melagrani, altrove, altrove, nelle acque dell'Ànapo, nelle latòmie di Siracusa, nelle sabbie di Selinunte ove una vasta di colonne dorica stirpe vive di luce, e altrove, altrove mi conobbi figlio del Sole. Ma nessun cielo, nessun mare, nessun deserto, nessuna arsura, nessuna abondanza moltiplicò la vitale virtù della mia giovinezza così fieramente. O Corinto, bagno d'Afrodite, rocca di Sisifo duro, feconda di bei tiranni, che giugnesti alle rèdini del cavallo il morso e al frontone del tempio la duplice aquila d'oro, Efira, nudità di marmi, sapienza di meretrici, ozio armonioso, o Morente cui il ruvido console diede il Fuoco per ultimo drudo onde generasti il Metallo inimitabile, quando rivedrò i tuoi sterpi riarsi e la tua taverna nel tempio? Scorre ancóra sul fianco dell'Acrocorinto quel miele selvaggio ch'io discopersi? o salsero le Oceanine al tramontar della luna, poi ch'ebber finito il lor pianto amaro sopra i tuoi lutti, Amphithalassia, e ingorde se ne saziarono? Ancóra siede la giovinetta sul margine della cisterna e canta? «Papavero folto» cantava «prestami i fior tuoi e il tuo rossore ch'i' mi vesta scenda al lido e strugga d'amore!» Siede tra le sette colonne la madre dal nero grembiule? «Come sono squallidi i monti!» cantava. «O vento li combatte, o pioggia. Né vento né pioggia. Li passa Caronte co' morti» Rombava talora nel vento su l'Acrocorinto spogliato un'ala fùnebre. E io vidi Thànatos, il fosco fanciullo che soffiò per entro alle nari delicate e sopra le tarde pàlpebre de' tuoi goditori, o Doriese, premendo le guaste ghirlande cadute su' tuoi marmi aspersi di vino. Portato dalla tua Notte anche lo vidi, come nell'arca di Cìpselo; e sempre poi l'ebbi al mio fianco, velato. E, da poi ch'io l'ho meco, ei sembra rendere più rosse le rose del mio piacere, più profondo il suon del mio riso, più forti i miei denti. Estinta è la face ch'ei porta, ma sotto il suo sguardo più fervidi ardono i miei fuochi. A te debbo questo compagno che senza parlare m'incìta, o ghirlandata di mirto e di papavero Efira che fosti vermiglia di sangue lussurioso e di dolce vino sentendo continuo scendere dal vertice il fiato della dea su te troppo ignito onde si sciogliean gli unguenti ne' tuoi nerazzurri capelli e ti colavan per le tempie pulsanti di cupidigia mentre le strisce del fulvo corame, in guisa di freno imposte alle guance de' tuoi auleti, nell'ansia de' suoni si laceravano e i nervi degli eptacordi sotto il morso violento dei plettri si spezzavano sibilando. Meco era il compagno velato quando rinvenni tra selci e sterpi lo specchio votivo di Lais offerto alla dea. «Poiché vedermi non voglio qual sono e vedermi qual fui non posso, a Te sacro il mio disco, dea di non caduca bellezza.» E sotto i venerandi cipressi l'etèra dormiva; le cui bianche braccia avean cinto tutta l'Ellade amante, come la cintura marina che spazia dal Ionio all'Egeo. E il sepolcro auliva pur sempre, quasi nave giunta dai porti sirii di aròmati carca. «Bel fanciullo» dissi «a Te solo sacrerò l'acciaio polito ove miro l'anima mia, se mai sarà ch'ella s'incurvi.» E penetrammo con lieve passo nell'adito occulto che al fonte di Pirene conduce e su l'ombra mia lieve era l'ombra del fratricida Ipponòo recando la briglia. Sostammo, in ascolto. Il cavallo s'abbeverava al fonte. Sìbilo s'udiva di lunghi sorsi, fremito di froge, e l'ondeggiar della coda lento; e talora il sussulto delle grandi penne, che molto aere movea sino a noi celati nell'adito. Osammo appressarci, senza respiro. E vedemmo un fuoco argentino, un'alacrità palpitante, non so qual serico ardore diffuso intorno a una possa indomita: Pègaso, il volo! Arte, Arte mia bella, nudrita con l'ima midolla e col sangue più puro, guarda il nepote di Sisifo come s'accosta alla fiera alata stringendo cauto nella mano il fren d'oro e subitamente la imbriglia con fulminea destrezza e serra le rèdini in pugno senza lentarle e resiste: s'impenna, recalcitra, batte l'ali ventose il cavallo magnifico: la vergine bocca offesa dal valido ordegno sbuffa schiumeggia annitrisce: l'uomo imperterrito balza, inforca la schiena tremenda fra l'una e l'altra ala, conduce l'Impeto nel libero cielo. Così, Arte, accòstati ai grandi pensieri che son presso i fonti. Pur dato mi fosse oggi, mentre la primavera m'affanna, dato mi fosse varcare l'aere e su l'Acrocorinto fermare il volo (forse oggi tutta la roccia si veste di fiori efimeri, come Lais della tunica tiria brevemente, sapendo che la nudità è più bella) quivi fermare il volo e in uno sguardo abbracciare i due golfi, la sitibonda Argolide, gli arcadi gioghi, i vertici sacri alla Danza e al Canto, l'isole guerriere e agresti, il Monte dell'api e il Sunio e il Laurio e quella, anima mia, ch'è la tua sposa diletta, che non canterai perché troppo a dentro ne tremi. O Tebe, di te mi sovviene, grande oplite del Teumesso, fàuce della Strage latrante da sette bocche nel piano, di te mi sovviene, Cadmèa; non per Tìdeo che giace squarciato il fegato, alla porta Proètide, e rode le tempie a Melanippo; non pel grido di Capanèo contra il Cielo che l'ode, né pel duolo d'Antìgone eretta nel Coro come il cipresso tra i salci; ma per le tue belle fonti, o d'acque abondante e di sangue Cadmèa, per la fonte di Dirce che sparsa è ne' dolci verzieri come fu nelle rupi la dilacerata bellezza, onde bevemmo il sapore del supplizio all'ombra dei meli. Vario sapore hanno l'acque che corrono d'oriente o corron di settentrione, e quale è più grave e quale più lieve se passi per limo, per vene d'alcuno metallo, per rossa creta, per pietre nette o per sabbia, e più o meno di terrestritade è in ciascuna secondo il suo nascimento. Sapide di fati son l'acque tebane. Baciammo le donne alla fonte di Ares, ove Cadmo si lavò pria ch'ei seminasse i denti onde nacque la stirpe furibonda. All'Edipodèia alternammo i sorsi col suco delle persiche molli, ove l'uccisore di Laio si purificò poi che morta fu la sua madre polluta. E il Citerone, senza strepito di Mènadi, senza faci di pino, lungamente sul cielo australe stendea con leggerezza e pallore di linfe e silenzii delle sue cime. E tu eri nascosta a oriente, o Tanagra dal collo di cigno, dal crine intesto come canestro di vimine, all'ombra del largo cappello tessalico, chiusa nelle innumerevoli pieghe dell'imàtio come in un fiore di mille pètali. O forse con un gesto di grazia or discopri la mammella piccola come cotogna, i mallèoli svèlti inanellati d'elettro, e mordi un anèmone, china al combattimento dei galli? S'aprono gli anèmoni al vento e gli asfodèli nel piano d'Argo tra la cittadella di Palamede e lo stagno di Lerna, in vista alle bianche vette del Partènio? Tirinto, città di rupi adunate, ventosa del soffio d'Eràcle che triturava co' vasti molari i tuoi bovi ancor lordi di bragia e crudigni, se mai io torni, cercar voglio quelle tue pietre che soffregate dai dorsi lanosi di tante pecore nei secoli lenti si polirono come l'avorio dell'else consunto nel pugno dei tuoi re! Poi per la profonda feritoia guardar voglio il mare più cerulo del fenicio vetro che t'ornava il palagio. Ma te, o Micene, s'io torni, guarderò di lontano. Ahi troppo vivesti tu meco nel sogno coi truci tesori de' tuoi sepolcri e agitasti le mie vigilie, quando al fulvo usignuolo nomato Cassandra io diedi una pura sorella; che forse nomarsi dovea col tenue nome di Ebe giovinetta celeste! Spoglia tu sei del metallo fùnebre, ma io ti profusi la sua grande chioma tutt'oro. Ella ne ammanta e irraggia la Fonte Perseia ove bevve la morte: vi tremola e piange la polla per entro in eterno. Così la vede il mio sogno. Giova, o Atride, che ne sien certe queste mie pupille mortali? Tu sei netta e cruda nell'aere arido, ma io ti ricopro d'un velo. A Mègara bianca, a Mègara vestita di lino, che sferza i cavalli su l'aia abbagliante di spiche, a Mègara voglio tornare con una sete più forte e bevere all'orcio di Egina, all'orcio di terra eginèta che appeso per l'ansa a un ulivo refrigera l'acqua nel vento. Egina tricoste, delizia del golfo, pe' tuoi freschi orciuoli ti loderò, pe' tuoi fichi densi, pe' tuoi mandorli ch'io non vedo fiorire? o pel bronzo che Onàta fondeva sì ricco? o pel marmoreo sorriso che incurva le labbra agli oplìti morenti in fronte al tuo tempio? Salamina, isola di Aiace Telamonio, falce di luna petrosa che mai non tramonta sul mare né mai nel ricordo degli uomini, gloria di rostri, vittoria volante con triplo remeggio sul sangue salmastro, penso alla tua ora divina quando i trierèti in silenzio poggiarono i remi agli scalmi assicurati col cappio di corda e ciascuno credette udire Pallade armata scendere sopra la prua, e Serse era in trono sul monte, e di repente dai petti ellèni proruppe il peàna, squillarono tutte le trombe, rimbombò per tutte le rupi il grido dell'Ellade: «Questo è il combattimento supremo!». Luoghi di luce, le rose fluttuanti al vento del mare bianche e fino agli orli ricolme non di rugiada ma di caldo mosto, son le Cicladi belle. Simile allo strepito primo della pioggia sopra la fronda, quando la campagna si tace soffocata guatando la nube, m'è il suon de' lor nomi divini sopra l'anima ardente: Sifno, Citno, Sèrifo, Nasso! A Ceo, che imita in sua forma l'ovo della colomba, a Ceo dalle leggi eccellenti come gli inni delle sue lire, l'ombra di Simonide ancóra insegna la musica ai figli dei marinai pileati sul càrabo curvo che porta la scorza e la ghianda del cerro. A Paro vagammo per vie chiare sotto pergole verdi. E tanto leggere eran l'ombre che vi si parevano i nervi dei pampini con una traccia più cupa, e i raggi per entro vi piovevano in guisa di torqui di anelli di armille; sì che vestiti d'azzurro e di monili vagammo quivi ascoltando i cantari delle donne ionie che nude le braccia lavavano i lini in trògoli tutti di marmo. Vedendo bagnare un bel velo, non dell'irto euforbio archilòchio noi ricordammo i cruenti aculei ma l'unico fiore nato di due pètali soli: «Alcibìe dopo le nozze offre a Era il velo crinale». Andro ci apparve su l'acque tutt'avvolta dal repentino scroscio della nube d'agosto, come tessitrice odorata dietro telaio d'antica foggia intenta a tessere argento pur con alcun filo commisto di porpora forse venuta a lei dalle pésche di Giaro: spirava per quell'erte trame olezzo d'aranci e di cedri. Ma l'odore di Siro fu più forte. Siro, nutrice di cordari e di calafati, tra pescatori di spugne e conciatori di pelli artiera di vele e d'ormeggi, bianca a piè di fulve montagne, odor di fasciame unto a caldo con pégola sevo e cerussa, cara ai marinai dell'Egeo! Ah belle da presso le Cicladi intorno a Delo corona gemmante, scolpite con arte come calcedònie e iacinti. Belle più anco di lungi; ché di lungi assemprano un coro d'aulètridi alto su l'acque, un coro d'aulètridi ionie dai lunghi chitóni cadenti su l'unghia del pollice, nude però le gole venate di cìano, dorate dal sole attraverso la pelle e le vene insino ai precordii, dorate insino alla conca segreta del pube. E il miel delle vigne famose indolcisce ogni punta delle lor mammelle protese. E la melodìa de' lor flauti rallenta il venir della Notte, trattiene l'Estate su i mari. Voluttà, voluttà d'Ariadne e di Dionìso commisti sul carro che aggioga la maculosa pantera cui l'Amore diè per sorella una nudità constellata dai segni del bacio crudele! Tra il Cretico Mare e il Mirtòo mollizie insulare, lascivo sale che ancor bolle e schiumeggia della sua figlia Afrodite, amaritudine d'ulve e di veneficii e di pianti, ove Pasifàe morta ondeggia riversa con le sue palme calde tuttavia del sudore malvagio, non spenta per anche la carne che giunta fu all'ossa come il fuoco al legno del pino! Ah belle da presso e di lungi le Cicladi, e molto a me dolci. Ma a te tornerò col mio cuore, isola di Aiace, a te forza delle triere rostrate, potenza adunca del ràffio, gloria delle glorie navali, per compier con soli i miei remi il perìplo delle tue rupi sante, poiché non potei combattere nelle tue acque com'Eschilo al fianco d'Aminia che diè primo il colpo di rostro, né come il giovinetto Sofocle condurre la danza degli efebi intorno al trofeo, né com'Euripide (l'immenso clamor del peana copriva gli urli della partoriente) nascere nel dì della pugna. A te tornerò pel mio vóto. Dal colle d'Elèusi deserto non mi saziai di guardarti. I monti di Mègara, i cupi Gerànei folti di pini, il Coridallo ondulato, le gole di File, il notturno Citerone, gli aridi gioghi elicònii, tutte le vette lontane cui l'aria e la luce intessono vesti più belle che la veste del croco dello smìlace e del narcisso, impallidivano incontro all'aspro tuo lineamento ch'era come il guatare di Pallade quando ella indaga di sotto al suo casco corintio le schiere ordinate nel campo e pesa il coraggio dei petti, sì che al vile trema lo stinco nello schiniere di bronzo ma la virtù si rischiara nel forte che pugna con arte. XIII. Papaveri, sangue fulgente qual sangue d'eroi e d'amanti innanzi a periglio mortale, soli ardevate con meco nella mistica chiostra poi che giammai riaccese vedrà il pellegrino le faci del Dadùco nel tempio d'Ecàte. Ma i grandi triglifi dorici splendevano bianchi là dove Demètra si assise crucciosa, il cor piena d'angoscia, e isterilì la terra. Tutto era doglia e mistero su le fondamenta solenni. L'ombra d'una nube curvata era sul Callicoro, come l'ombra del mietitore indicibile che innanzi agli epopti mieteva la spiga di grano in silenzio. «Vivi della Vita universa!» mi significò la grandezza della solitudine sacra. Ma l'anima umana non vive se non del suo sforzo incessante per effigiarsi su tutte le cose come sigillo imperiale. «O Uomo, aduna tutte le cose sotto l'adamàntina mola della tua volontà pura, e della sostanza premura fa pe' tuoi giorni il tuo pane.» Guardai le pietre come glebe, le colonne come covoni. Poi gli occhi pregni di luce chiusi e la dea, ch'era informe per entro alla massa terrestre, sorgere perfetta nel peplo cerulo vidi, chiomata nella corona murale. E fra le sue braccia divine tenea, sul suo seno odoroso Demofoonte, il figlio mortale di Cèleo, nato più tardi. E nudrirlo volea d'una terribile forza perché crescesse oltre l'umana misura e non più ritenesse nel petto cresciuto il respiro misero, l'ansia faticosa del gregge. Per ciò nottetempo ella l'occultava nel fuoco, nelle stridule fasce del fuoco stringevalo senza timore; ed or lo volgeva sul fianco or su l'altro in quella vermiglia cuna, ora internavagli il capo là dov'era più vorace la verginità della fiamma, come il fabro fa d'una spranga che battere debba all'incude. Ma Metanira spiava con l'occhio obliquo. Spiava la femminetta regina dalla fronte bassa quell'opra d'amor duro; e non comprendeva, la stolta! Con cruccio e spavento si percosse ella ambo le cosce; gridò, schiamazzò come l'oca dei pantani. «Figlio» ululava «figlio Demofoonte, ti occulta nel foco vorace la straniera e a me ti sottrae!» E subitamente la gioia ignìta di Demofoonte cessò, come torcia riversa che spengasi in putrido fango. La dea lo rimosse dal fuoco e lo depose a terra; con disdegno uscì dalle case. E la femminetta al fanciullo piangente diè tepida pappa. Ah, Metanira, Metanira, imbóccalo, ingózzalo dunque col tuo buon cucchiaio di bosso, gónfialo d'orzo e di siero finché vomiti. Se d'ambrosia l'ungea la straniera, tu stilla per lui la sanie succulenta dalle più crasse carogne. E pàlpalo con le tue mani sudaticce, fiutalo quando il suo ventre fluisce, lecca la sua pallida pelle con la tua lingua viscosa di gozzoviglia indigesta. Ben ti conosco. Quando spingesti tu contro la dea la bocca imbavata di bile e d'ingiuria, ti precedette l'ignobilità del tuo mento. Regina, conosco l'antico tuo ceffo e il tuo nome novello. Gli occhi riapersi alla luce, come l'Iniziato reduce dal tenebrore profondo ov'eragli apparsa, in una pausa infinita tra i gridi del lutto materno e il rombo dei bronzi percossi, la spiga mietuta in silenzio. E le innumerevoli vampe dei fiori, che Persefoneia non avea cinti al suo capo notturno, ondeggiavano al vento di contro al zaffìro marino, sì forte che di taluno sparivano i petali come estinti dal soffio e appariva la regia corona sul gambo solinga. «O bei fiori paràlii, dominazioni letèe» dissi «io so dov'ardono i vostri èmuli in foco ed in sangue!» E del laziale deserto mi sovvenne, dell'Agro cavalcato dagli acquedotti roggi e dai centauri villosi che guidano il gregge con l'asta; della Latina Via sovvennemi e della Flaminia e dell'Appia grave di tombe. E mi levai, al conspetto di Salamina, pensoso del Crèmera. E tra la muraglia del perìbolo santo e il portico dorico io, pieno dell'altra mia patria, cercai sul suolo il vestigio dell'ampia base onde sorgeva la statua del Tempo, che Quinto Pompeio figlio d'Aulo e i suoi due fratelli consacrarono quivi alla Potenza di Roma e all'Eternità dei Misteri. XIV. Poi scendemmo verso i due laghi salsi ove i novizii giungendo si purificavano. Ed oltre passammo, lungh'essa la riva del golfo bianca di ghiaie. Pel valico dell'Egalèo, tra i pini i leandri i mentastri i mirti i ginepri i lentischi, pellegrinammo a un'altura più del Callìcoro santa per noi pellegrini già ebri di tanta vita sublime. E suscitava ogni nostro passo una nube di aromi che ci empieva il petto ansioso d'una voluttà troppo ardente. E più d'una volta l'angoscia dell'amore mi vinse; e mi soffermai senza forza, credendo che il velo degli occhi fosse un albeggiare d'olivi. «Figlia del cieco vegliardo, Anfigone, dove siam giunti? in quale città di mortali?» L'Ombra di Edìpo, dall'atre occhiaie per entro a' capegli cui le piogge i vènti le arsure dato aveano un tristo lucore come alle paglie marine, parlò. La sua faccia rugosa era come clamide attorta da man che la lavi sul sasso. «Padre miserabile Edìpo, torri di città sono lungi, quanto veggo.» La voce virginale, nudrita di amare radici, parea che pel veglio in sé ritenuta avesse la sola dolcezza della fonte, omai già lontana, dal dio conceduta alla sosta del mattino sotto grand'elce. E tutta la mia forza fu pallida, tutta la vita dell'anima mia fu vissuta perché quell'ora splendesse. Grido la mia bocca non ebbe. Non fu nominato quel nome. Il coro di Sofocle puro s'alzò dagli olivi pallàdii. «All'ottima delle contrade terrestri, Ospite, sei giunto, di bei cavalli feconda, al biancheggiante Colòno ove plora in conche virenti il melodioso usignuolo piacendosi della vinata edera e della sacra selva molto fruttifera, immune dal sole e dai vènti iemali, che Dionìso effrenato ama trascorrere, e intorno gli sono le iddie sue nutrici.» Modi della strofe perfetta apparvero i culmini i lidi i templi gli arbori. Il velo delle Càriti effuso era in cerchio a guisa di benda lieve sul crinale dei monti. E come l'Imetto che guarda il Parnète fu l'antistròfe. «Sotto l'urania rugiada quivi continuo fiorisce di bei corimbi il narcisso, delle Magne Dee molto antica ghirlanda, e il croco aureo splendente; né mai languono le insonni fonti del Cefìso errabonde, ma continue rigano l'acque limpide fecondatrici la terra dal sen spazioso; né mai si dipartono i cori delle Muse, e non Afrodite che tratta le rèdini d'oro.» Nell'inviolabile selva sacra alle Eumènidi entrammo, come supplici. «Arbore è quivi cui non pose man d'uomo, germe da sé medesimo nato, che grandemente fiorisce, di glauca fronda l'Olivo...» Anima mia, non tremare. La nostra gioia più fiera la nostra conquista più grande noi non le canteremo. Quel che ci disse colei che coronata è di viole non ridiremo ai vènti. Serberemo il miel dell'Imetto e il vin del Parnete, odorato con la bionda ragia del pino pentèlico, per i conviti occulti ove sia nostro lume e nostra allegrezza lo sguardo di quelli occhi cesii che sai. Lascia la sua fronte nell'alto Etere, e inclìnati su i lembi della sua tunica ornati di belle ghirlande marine. Forse non sapremo giammai il nome del fiore paràlio che vedemmo sopra le sabbie di Fàlero, e coglierlo noi non ci ardimmo, ah di sì lieve bellezza che parveci entrasse in noi non pel varco dei sensi ma com'entra un puro pensiero. Fàlero, tutto l'azzurro dell'Attica scende alla tua baia, si versa in te come in un lebète d'argento e ci fa sitibondi del tuo sale! Anche Munichia ha la sua coppa rotonda scavata nell'ònice schietto; anche Zea, nel fianco dell'Acte. Ma tu fosti fatto di mano d'inimitabile artiere. In contro al faro di Psittàlia il mare si frange in ruine di sepolcri; e forse colui che in pugno alla dea Poliàde pose il remo in vece dell'asta, forse Temistocle quivi dormì su lo scoglio rugoso finché l'acque di Salamina non si ripresero l'ossa dell'eroe che tinte le avea col sangue dell'Asia. Pur quanto è più dolce al piloto in calde arene colcarsi! «A Fàlero voglio approdare. All'àncora mia date fondo. E poi seppellitemi all'orlo del lido, nella rena giù. Quivi marinai sbarcheranno, ch'i' oda lor voci da giù.» Canta tuttavia le canzoni sue roche quel pescatore, che non si nomava Fintìlo e non Ermonàce, nerigno come il guscio della carruba grata ai giumenti, ma grigio intorno al collo la barba come intorno a scalmo consunto sfilaccia di stroppo? Pensammo che offerto egli avesse al dio dei promontorii gli avanzi della rete i sugheri e i piombi, o le nasse e l'amo ricurvo legato al suo crin di cavallo con la lunga canna, o una triglia pavonazza, la squamma d'un gambero, un fin laberinto. Ma forse veduto egli avea sul Mare Mirtòo Saffo morta e virato in prua paventando la fosca sirena dormente. O Cefìsia, delle tue polle che aveano il colore dell'ombra mi sovviene, e de' tuoi bianchi sarcòfaghi e del clamore delle tue rondini. O Spata, mi sovviene delle me tombe venerande. Padre di templi fulvi come il grano maturo, Pentèlico, de' tuoi pastori mi sovviene selvaggi ne' chiusi di creta e di giunchi o sotto le tende di cupa cànape simili a quelle che vidi nel muto Deserto. Nel tuo teatro, o Torìco, dinanzi all'isola lunga cui diè la Tindaride il nome, tra moltitudini d'erbe vedemmo l'Aurora inclinata a rapire il bel cacciatore e udimmo il lamento di Procri. Laurio, lungi a' tuoi pozzi oscuri, alle tue fornaci, alle scorie del tuo metallo, scoprimmo una roccia rosea come il corpo d'un'Evia bagnato di mosto; ed era sì bella che per toccarla scendemmo tra gli scogli ardui del lido perdendo il cammino; ma, quando ritrovammo il cammino e ci volgemmo a guardarla, di lungi ell'era anche più bella; e ne favellammo nel vespro, tornati alla nave, colcati sul ponte, prima che il sonno ci prendesse, parlammo di lei come d'una divina carne che fosse vivente laggiù senza letto d'amore. E viveano tutte le coste, dal Sunio al Pirèo, nella sera. Sunio, un mercatore fenicio fui guardandoti, un montanaro d'Ircania portato alla guerra su nave di Medi, un Bitinio della Propòntide in commercio d'acònito, un frumentiere del Chersoneso, un vinaio di Chio fui guardandoti, ed ebbi tant'occhi per istupirmi di te con sempre nuove pupille; e per venerarti piloto di Fàlero fui reduce da Panticapèo, rivarcato alfin l'Ellesponto e alfine il Geresto d'Eubea dopo traffico lungo; ed anche l'oplìte devoto fui della Republica, a guardia dell'argentifero lido, del metallo sacro all'impresso conio dell'epònima dea. Promontorio fra tutti venerando, altèra cervice della Paràlia rupestra, il tuo tempio par che si sciolga come lentissima neve alle primavere del mare. Il sale mordace cancella dalla colonna il solco dorico, nel masso fenduto dell'architrave consuma le groppe ai Centauri e le corna al maratonio Toro domato dall'attica forza. Maratona, Maratona, aquila precipitosa dall'ali irsute di lance, ben ti venne Tèseo sul fronte degli opliti a fianco d'Echètlo, dell'eroe rurale che uccise gran turbe di Medi col suo mànico d'aratro e poi sparve. Io sul tuo tumulo grande colsi una rama d'alloro che dure avea foglie di bronzo ma bacche tra nere e azzurrigne rilucenti come la testa della rondinella cecròpia. Poi, su la spiaggia arenosa quasi palestra solenne, raccolsi una selce che avea forma di man chiusa. Ed allora vidi Cinegìro figliuolo d'Euforione aggrapparsi alla protome della prua barbarica, sotto la scure del Medo; il combattimento maraviglioso dell'Uomo e della Nave, nel sangue nell'incendio e nell'oro di Serse, vidi anelando; e chinarsi Eschilo armato sopra il rosso tronco fraterno. XV. «Borda randa! Issa flocco! Sciogliamo le vele del triste ritorno, miei dolci compagni. Il nostro perìplo è compiuto.» E Delo fu l'ultimo approdo; ma la cicala d'Apollo nella sua gabbia di giunco marino era muta, era morta. «Salve, fondamento d'iddii, ramoscel soave alla prole di Leto dal fulgido crine, figlia del ponto, prodigio immobile dell'ampia terra; cui chiamano Delo i mortali, ma nell'Olimpo i beati astro della cupa terra lungi apparito!» L'infranta strofe dell'ode tebana, come un'altra ruina sublime, era innanzi alla nostra tristezza. Nell'inno dell'Omerìde, come in lontananza insulare, sonavan gli ululi di Leto per nove giorni e per nove notti travagliata dal parto del dio (gittò ella le braccia intorno alla palma, i ginocchi sul prato pontò nello sforzo: alfine Apolline irruppe dal lacerato grembo alla luce: intorno le dee confortatrici, anche Ilifìa la tardi venuta d'Olimpo, conclamarono); e i canti e le danze e i giochi e le gare de' Ionii dai lunghi chitóni adunati a' piedi del Cinto sonavano. E stava seduto quivi incontro al Sole oriente il cieco Omerìde, in un cerchio di vergini dèlie ascoltanti. Io dissi: «Adoriamo nel sasso sterile angusto e doglioso la fecondità degli Ellèni». Morta era Delo su l'acque, deserta, nuda, affocata dal meridiano furore. Ogni sua pietra ardeva come già nei forni i frammenti delle sue statue divine incotti dai mercatanti di calce a murare le case degli uomini immondi. La vetta del Cinto nel cielo era come la sommità di una mitra disadorna. Bolliva il mare tra Delo e Micòno più cupo, come allor quando gittovvi Aristide il Giusto le masse roventi del ferro poi che giurato ebbero il patto federale i capi de' Ionii. Non diversa apparve nell'alba dei tempi l'isola al nàuta pelasgo che senza approdare veleggiava in vista del Cinto. «Niuno giammai le tue rive toccherà, niuno giammai t'onorerà; né credo che tu sii per esser feconda di pecore molte o di buoi né di vendemmie ricca né d'arbori verde» le disse Leto affaticata dal peso del nascituro. Deserta e nuda l'isola ardeva, come oggi, al meriggio d'estate. E venne l'Ellèno e le disse: «Perché tu sei sterile, o figlia del ponto, io t'eleggo e ti sposo. Trarre saprà dal tuo grembo aspro le abondanze e le gioie il fecondatore di rupi». E, intorno all'ara construtta coi corni dei capri abbattuti dagli strali del Lungescagliante, sorsero i templi le stoe le esedre i granai le apotèche. Santuario ed emporio dell'Ellade, l'isola ortìgia attrasse da tutte le rive del Mediterraneo Mare le teorie dei devoti, le compagnie dei mercanti, la triere adorna di fiori con uomini liberi ai remi, la strongile onusta di grano con ciurma di schiavi oleosi. Da Alessandria a Bisanzio, da Rodi a Creta, da Ostia a Làmpsaco, da Siracusa a Laodicèa, da Mileto a Sìbari tutte le genti recavano l'inno e il tributo. Nella vicenda sanguigna dell'armi, ogni Egèmone armato del Mediterraneo Mare alzar volle quivi, tra il Cinto e l'occidental lido, in gloria il monumento superbo alla sua potenza navale. Da Ulisse ad Antioco Epifàne, i re v'approdarono. Il quinto Filippo Macèdone v'ebbe la stoa tetràgona, insigne di seggi e di statue. Nicia v'entrò sopra un ponte splendente di ori, con un popolo bianco di musici. I Tolomei dall'immensità sepolcrale vennero, offerte recando ismisurate. La rosa della Republica ròdia vi fiorì di porpora. In pace vi stette la Lupa di Roma. E nessuno vi nacque da utero umano, e nessuno vi morì in carne corrotta. L'isola mondata fu d'ogni putredine. Il dio luminoso vi diffondea col respiro un'armonia sempre eguale. Le sue corone i suoi vasi le sue vesti eran di tanto lume che il perìbolo sacro mai non conobbe la notte. Il disco del lago specchiava la faccia indicibile. Intorno all'ara dei Corni la danza fingea con ambagi infinite il Laberinto cretese. L'efebo e la vergine i ricci recisi avvolgeano ai virgulti e ai fusi per quelli deporre sopra le tombe nel tempio d'Artèmide nata gemella. «Delo» io pregai nel mio cuore «sterilità più bella che tutta la fronda di Tempe, la forza dell'anima ellèna in ogni tua pietra m'appare chiusa qual seme in gleba, sì che alcuna delle perfette forme contemplate con gioia ne' luoghi famosi, o febèa, non mi ammaestra come la tua solitudine inulta. Deh fa che sempre io ti veda, con gli occhi dell'anima invitta, fa che io ti veda qual sei, immobile ignuda e fatale su le quattro ardue colonne sorte dagli abissi del ponto per sostenerti, e ch'io veda Leto abbracciare la palma pontare i ginocchi sul prato per partorirti il bel dio! Ecco, noi sciogliamo le vele a dipartirci. Il periplo è compiuto. Navigheremo verso Messàna falcata, verso la vorace Caribdi. Da questa patria a un'altra patria ch'è pur sacra agli iddii veleggeremo, colmi di vita i precordii, spumanti e traboccanti d'ebrezza, pronti a combattere, certi di vincere, poi che apprendemmo a cantare il peana nelle acque di Salamina, nei piani di Maratona, e a correre dando l'assalto. Vivemmo, divinamente vivemmo! All'antica mammella ci abbeverammo, ancor piena. La bestia inferma uccidemmo nel nostro fango penoso. Come per osservare l'oracolo gli Ateniesi purgarono tutto il tuo suolo, noi anche disseppellimmo i nostri cadaveri informi e li scagliammo all'abisso, e dietro di loro gittammo pietre pesanti ed obbrobrio per consegnarli all'abisso. Or tu, nella mia dipartita, o Rupe, da tutta la tua nudità cui più non fa velo il fumo delle ecatombi, ripeti a me l'unica legge cui voglio obbedire: SII PURO. T'obbedirò nella luce t'obbedirò nell'ombra, Delìaca Legge, che splendi su l'Ellade come il suo cielo pudico. In segreto e in palese, per sempre sarò tuo fedele. Vertice del Cinto, e sovente io ti manderò sacri doni. Narravano i Delii che a quando a quando sacri doni, involti in paglia di grano, giungessero dal paese degli Iperborei in Iscizia; e che dalla Scizia, trasmessi di popolo in popolo, verso occidente, fosser recati sul Golfo Adriatico e poi ad austro, primieramente raccolti in Dodona da Ellèni, scendessero nell'Eubea e quindi sino a Caristo; e che dai Caristii, lasciata da banda l'isola di Andro, recati fossero a Teno e ultimamente dai Tenii consegnati fossero a Delo, involti in paglia di grano. Ovunque io mi sia, nelle terre distanti, in liete sorti o in dure, in guerra o in pace, miei doni ti manderò similmente involti in paglia di grano, ché non so custodia più monda. Ma il mio primo dono ti verrà forse dal luogo che ti successe in potenza quando passato fu sopra i tuoi granai e le tue stoe il turbine di Mitridate: da Ostia romana, ov'Enea del sangue di Dàrdano prese la terra (accolto l'avevi già tu su le concave navi construtte coi pini dell'Ida) e sotto l'arbore assiso col bel Iulo e coi primi duci mangiò per fame le adòree mense e disse: «Qui è la patria!». Ivi trovar voglio il fascio cereale dei culmi biondi per chiudere il dono mio primo. Conosco il luogo; e, s'io penso che lo rivedrò, mi s'allevia la tristezza del dipartire perché già riodo il Ponente che su la via de' Sepolcri, sul tempio della Magna Madre, verso la selva laurèntia soffia traendo la morte e la vita, la memoria e la speranza. Ivi un giorno, dalla soglia d'africo marmo dinanzi alla cella di rosso mattone spogliata ma grande, vidi tra gli stìpiti eretti della Porta Marina mirabili spiche ondeggiare non certo nate da semi cui sparsi avesse man d'uomo. Non lungi era il Tevere torvo fra deserti argini; e le negre navi dalle cùbie dipinte di minio, cariche di molte botti, navigavano contro corrente per ormeggiarsi all'ombra del Sasso Aventino; e venìa sul soffio il cantare dei marinai di Sicilia e dei garzonetti campàni dal crin di viola, che belli son forse come i fanciulli danzanti il gèrano intorno ai tuoi turìferi altari. O Delo, forse le spiche di sé medesime nate tra que' due stipiti eretti della Porta Marina ritroverò, per mandarti involto in quel misterioso frumento il mio primo dono.» Così pregai nel mio cuore; e ciascun dei dolci compagni forse anche pregò nel suo cuore segreto, perché non s'udiva parola. Ed èramo tutti a poppa raccolti, in silenzio. Ed uno di noi, che taceva con fronte ostinata, era sacro a morte precoce, più caro d'ogni altro agli iddii come eletto a perir giovine e in atto di compier l'impresa cui s'era devoto con anima salda. Or quegli nella memoria più fortemente mi vive; e lui vedo presso la ruota del timone in quel punto, fitto su le gambe sue snelle e nervose di corritore del lungo stadio, guatare con gli occhi chiarissimi il solco. In verità, fra i compagni egli era il più pallido. Quasi esangue appariva il suo vólto; ma i suoi biondi capelli sorgevano senza mollezza su la robusta ossatura della fronte nata a cozzare contra l'impedimento; e di virtuoso rilievo su' chiarissimi occhi era l'arco dei sopraccigli, sobria la bocca e di netto discorso, agile il collo se bene la nuca sì ferma paresse ch'io le comparai la cervice d'Eràcle che l'Etra sostiene tra la bella Espèride e Atlante nella metòpe d'Olimpia. Ei ne sorrise. Ma certo gli sovrastava continua l'imagine immensa d'un cielo. Veduto avea splendere nuove stelle in un cielo incurvato su selve più vaste che tutta l'Ellade, su fiumi più larghi che gli ellesponti e gli euripi, nel Continente australe, tra fosche incognite stirpi dall'anima ancóra constretta nell'inviluppo terrestre come gli iddii primitivi dell'Ellade erano ancor misti agli elementi del Cosmo. Condotto avea su le notturne correntie la spaziosa rate carica di tronchi centenni e mirato il volume infinito dell'acque palpitar d'astri qual cielo irriguo e l'alba levarsi dai silenzii possente come per un giorno eternale. Un Ulisside egli era. Perpetuo desìo della terra incognita l'avido cuore gli affaticava, desìo d'errare in sempre più grande spazio, di compiere nuova esperienza di genti e di perigli e di odori terrestri. Come le schiave di Bitinia o di Frigia recavano in letto corintio l'indelebile aroma natale, così le sue patrie remore nell'anima sua voluttuosamente odoravano. Ei sorridea dinanzi all'olivo d'Atena pensando la smisurata fronda opulenta di fiori di frutti di piume che tutti vincono i monili di Serse. L'Ilisso e il Cefìso ruscelli sassosi pareangli, che varca il salto d'un uomo; l'Imetto, un alveare declive; il Pentèlico, un tempio dal lungo tìmpano, senza intercolunnii; tutta l'Attica pareagli dal cinto aureo di Afrodite conclusa. O dolce compagno, ebro e folle d'immensità, ti rivedo àlacre all'alba sul ponte, il primo ai risvegli e ai lavacri mattutini, vigile come il gallo, sempre operoso, Ulissìde! Il tuo piede scalzo rivedo sul nitido ponte, il piè dalla pianta ampia e certa, dal maschio e divergente pollice, il piè corritore del lungo stadio, o Ulissìde. Tu eri il più sobrio e il più casto; e, se il compagno avea sete, perché quegli bevesse tu non bevevi, contento. E nei polverosi cammini, per l'erte difficili, amavi portare l'ingombro dei pesi, né per ciò mutavi il tuo passo espedito; ché il tuo bel corpo era immune d'adipe ignavo, come l'ottime spiche arente sotto il mai curvo tuo capo d'oro, Ulissìde. Intento a disciplinarti eri sempre, anco ne' piaceri fugaci, e ad apprendere molto, ad essere industre tu solo come uomini molti; e sapevi apprestarti il tuo cibo e rimendar la tua veste come la tua vela, Ulissìde. Compagno diletto, che mai mi fosti grave e mai con l'ombra tua mi togliesti il mio sole, non più dunque presso il timone seduto su fascio di corde io ti leggerò l'avventura del Re di tempeste Odisseo che dopo le nove giornate ventose approdò nella terra dei mangiatori di loto, che mangiano il fiore del loto che fa obliare il ritorno a chi la dolcezza ne prova? Ahimè, ti scordasti il ritorno tu anche, ma non per quel fiore soave, e mai più tornerai col tuo passo certo e leggero verso di noi che t'attendemmo sì lungamente e sperammo di udir la tua limpida voce narrar la conquista lontana! Sotto la clava del selvaggio predone cadesti, senza vìndici, nell'umida ombra; mentre tu, svelto odiatore di salmerìe e di scorte con silenzioso ardimento t'addentravi nella foresta letale, obbedendo al tuo fato che ti spingea senza tregua più oltre più oltre nel nuovo. Prono cadesti, e il tuo sangue ottimo, il sangue del capo, bagnò l'erbe e i fiori dell'umo di là dall'ultima orma che stampata avevi col piede veloce; sicché procombendo andasti pur sempre più oltre: il tuo corpo, ove spegneasi il pronto vigore latino, occupar valse anco un tratto di terra ignota, o Ulissìde. Gloria a te! Ricordato sarai se non muoia il mio canto fra l'itala gente. A te gloria! E ti rivedo, sul Mare Mirtòo, presso la ruota del timone in quel punto, ritto su le gambe tue snelle e nervose di corritore del lungo stadio, guatare con gli occhi chiarissimi il solco. E t'era non molto discosto un altro compagno di stirpe migrante, dei vizii umani esperto e del valore, e degli odii, duro in oprare e combattere, aspro in trattare la pelle infetta dei greggi, occhio aguzzo, collo taurino, fermo pugno, pensier destro a ogni lotta come compiuto atleta al pancrazio e al pentàtlo. E questi avea seco, qual pegno d'amore, la sferza untuosa tagliata nel cuoio ferrigno del pachidermo fiumale, fatta untuosa dai dorsi negri stillanti di sevo fetido. E amava d'amore anch'egli una terra lontana, la terra ignìta ove la Sfinge all'urto dell'uomo ritratta s'è dalle sabbie del Nilo ad altre piagge crudeli e in silenzio attende l'audace per farsi alla gola una torque di candidi ossi novella. E certo anch'egli in quel punto travagliato era dal suo grande amor periglioso; ché tutti avevamo una febbre di sogni nel sangue e donata l'anima a grandezze lontane. Il Sol declinando, caduto era ogni soffio come tra Itaca aspra di rupi e Same irta di cipressi là sul Ionio Mare nel giorno memorabile. In cerchio sorgeano dall'acque serene le belle Cicladi, d'oro e d'avorio come le ricche statue foggiate col fiore della preda di guerra. Più d'ogni altro monte splendeva il Marpesso, onde gli Ellèni tratto avean la candida carne de' loro iddii. Lungi, l'Eubea l'Attica il Peloponneso tutta l'Ellade santa era invisibile ai nostri occhi ma presente in eterno. Anche una volta ascoltammo l'ora della vita sublime. E dai campi delle battaglie terribili, da Mantinèa da Platèa da Cheronèa da Potidèa da Leuctra, da tutti i campi sacri alle grandi stragi di genti, sorse per entro quell'aere melodioso un clamore discorde: il lagno dei vinti, lo scherno dei vincitori, il canto amebèo della guerra. Ebri d'antiche bellezze e di nuove, dalle soglie del venerabile Olimpo ardentemente protesi verso primavere ed estati future, avidi di dominio e di gloria, pel nostro amore pronti ad ogni più disperato combattimento, ascoltammo con intimo fremito il canto. Diceano i vinti: «O iddii, o iddii, proteggete la nostra terra se mai v'offerimmo in sacrificio il bianco e nero fiore dei greggi, le primizie degli orti! Spavento, sciagura, vergogna si precipitano sopra la stirpe che amaste, cui foste per sì lungo tempo benigni. Ah! Ah! Udite, udite lo scalpito dei cavalli dietro la polve messaggera di morte, lo stridor degli assi nei mozzi, l'urto dei clìpei e delle gambiere di bronzo. L'etere è tutto irto di lance. Le catenelle dei freni induriti col fuoco, ecco, ecco, tintinnano nelle bocche schiumanti. Ecco l'ultima strage!». I vincitori: «Gli iddii son coi vittoriosi! Pascere Ares noi vogliamo con la vostra carne cruenta. Zeus non v'ode, non v'ode l'ippico Re, non Apollo. La spada a due tagli l'estrema luce fa su gli occhi del vinto. La Necessità vi tien presa la strozza come noi l'elsa d'argento tegnamo nel pugno e la coróne dell'arco e della frombola il cappio per forarvi il cuore tremante, per fendervi il cranio curvato, per frangervi ambo i ginocchi. A terra! A terra! Gli iddii non v'odono. La città vostra, con l'oro la porpora i vasi di vino i bei letti e le donne, alla nostra fame è promessa». Diceano i vinti: «Sciagura! Gli iddii disertano i templi! Pur quegli che sorse dal suolo onde noi nascemmo, ci lascia! Ah per questo nascemmo, per esser calpesti, premuti come il grano sotto la mola come nel frantoio l'oliva come l'uva nel tino, per esser pan d'ossa trite, olio di midolle, vin rosso di vene al banchetto feroce! Gli iddii son co' vittoriosi anche vili. Il cielo è su noi come clipeo nemico che porti nell'ònfalo il capo gorgóneo per impietrarci. E quante ecatombi v'offrimmo, o Zeus, o figlia di Leto, o Cipride madre di nostra gente, per quest'onta nefanda!». I vincitori: «Molesto è agli iddii l'odore fumoso delle ecatombi offerte da femmine imbelli. Tacete! Vociferar contra gli iddii non vi giova. Le lingue loquaci vi strapperemo noi dalle fauci per darle in pasto alle cagne e alle scrofe. Voliamo, voliamo, cavalli di belle criniere, voliamo, carri dall'aureo timone, su i petti e su i dorsi dei vinti! La polvere, la sitibonda sorella del fango, ha bevuto un fiume di sangue ed è nera. Meglio è segnar nuovi solchi di ruote sul tramite umano, su i vivi e su i morti prostesi. A terra! A terra! Voi siete la via su cui passano i carri». Diceano i vinti: «Eccoci a terra, eccoci proni, prostesi davanti all'unghie dei vostri cavalli. Se gli iddii non odono, udite la nostra preghiera voi, uomini, nati dell'uman seme come noi ne nascemmo in giorno nefasto!». E i vincitori: «Non siete voi uomini, sì siete cose da noi possedute, men buone dei vestimenti, dei vasi, dei letti. Noi dalle vostre viscere trarremo le corde adatte alle frombole e agli archi; e le serberemo pel giorno in cui ci bisogni domare novamente insania di schiavi se qualche rampollo risorga dal tronco che abbiamo reciso. Ma non lasceremo radici». «Ecco, ecco, siamo la via palpitante sotto il galoppo di ferro. Ma il cuore vi tocchi pianto di vergini, vagito di pargoli, ululo di madri! Ardete le case, abbattete le torri, struggete dall'imo la città, le ceneri ai vènti date e i nostri corpi agli uccelli voraci, ma fate che il gregge misero lasci le mura e lungi nasconda il suo lutto!» «Le vostre vergini molli le soffocheremo nel nostro amplesso robusto. Sul marmo dei ginecei violati sbatteremo i pargoli vostri come cuccioli. Il grembo delle madri noi scruteremo col fuoco, e non rimarranno germi nelle piaghe fumanti.» «Ah, non avete sorelle che a' telai vi tessano vesti soavi aspettando il ritorno?» «Già corse il Messo. Ora annunzia che vincemmo. Ed elle infiammate gittano le spole e «Sien grandi» sclàmano «la strage e le prede!» «Non mogli avete che appeso rèchino alla mammella un dolce figliuolo e gli càntino il sonno?» «Elle ne' lor seni hanno latte di leonessa e al figliuolo dicono: «Se il germe rinasca malvagio, tu crescimi forte e schiantalo ancóra e per sempre!.» «Non madri avete al focolare?» «L'arme pesarono ammonendo: «Non ti stancar mai di ferire. Sia l'ultimo colpo il più crudo». Voliamo voliamo, cavalli di fuoco, sul fango dei vinti!» XVI. O Vita, o Vita dono terribile del dio, come una spada fedele, come una ruggente face, come la gorgóna, come la centàurea veste, o Vita, assai più crudele è il canto che nella pace delle città funeste s'ode, quando arde il bitume o splende la selce sotto il Cane vorace nelle vie diritte ove passa il carro che non ha timone né giogo, e non corsieri splendenti di sangue e di schiume cui prostesa l'onta soggiace, ma rapidità senz'acume che bassa scivola, immune tra la ferrea fune sospesa e il duplice ferro seguace. Conosco la ferita che nella via necessaria fa la rotaia lucente agli occhi della tristezza smarrita per quell'aria atroce, quando non ha più voce la bocca convulsa che occlude la cenere dei sogni masticata nel fiele rigurgitante, e dalle nude mani pare avulsa l'ugna che sapea ghermire, e sola nel collo la caròtide pulsa come la sbigottita rondine cui l'infantile carnefice strappa le piume di nascosto, e il cuore è frollo come la carogna vile che sul bitume si matura al sole d'agosto. Ben vi so, torridi giorni, meriggi funerei, incontri spaventosi di cerei vólti disfatti, via chiusa tra mura di forni, tacita piazza combusta, sordo asfalto, lastre roventi su cui l'ombra angusta dell'uomo è come bestia di corte gambe laida e obliqua che il tacco gli addenti ove il cuoio rossigno si torce sformato dall'ignobile passo consueto. Ombra, ombra del vinto si trista su le sporche mura, trista come la menzogna callosa ond'ei campa e lucra, trista come il suo vizio segreto, come il suo rimorso, come la sua paura, come la sua vergogna! Manìe, Manìe silenziose, erranti nell'inferno della città canicolare, col passo degli sciacalli famelici, tra le bucce lùbriche dei frutti e lo sterco dei cavalli coperto d'insetti che hanno il lucore dell'acciaio azzurrato, io vi guardai nelle pupille contratte dal dolore della luce, vi guardai negli occhi gialli di sanie e di cruore vermigli, su cui palpitavano i cigli col palpito disperato che non ha tregua nel sonno poi che il sonno fu ucciso; vi guardai fiso aspettando che vi scagliaste come doghi a mordermi i pugni e la gola. Imagini del delitto mostruose intravidi, torcimenti d'angosce inumane ma senza gridi, anime come sacchi flosce, altre come logori letti di puttane marce di lue, altre come piaghe orrende, fatte informi e nane dal gran taglio diritto, simili al combattente ch'ebbe le due cosce recise fino all'anguinaia e tuttavia rimane mezz'uomo sul suo tronco e cerca con le dita ancor vive tra il rosso flutto la radice di virilità ricacciata in fondo al ventre, là dov'era prima ch'egli escisse compiuto maschio dalla matrice. Ma quelle miserie e quei morbi e quelle follie, insanabili, al mio male non eran fraterni se non per il silenzio e per la sete, perché taceano e avean le labbra della sete mortale. E cessai di guardare. Tenni gli occhi inclinati al riverbero bianco delle selci, solo con la mia febbre errabonda. E quando il ginocchio stanco sentii flettere e pesarmi il cuore così che mi parve quasi dolce cader senz'armi su l'immonda via qual giumento che più non vuol trarre le some, mi fermai nel trivio deserto e dissi al mio cuore il mio nome. E, in quella guisa che il rude cacciator nella selva sonora col sibilo chiama la muta dei veltri dispersa, radunai con lo squillo dell'orgoglio tutte le forze e le vendette del gentile mio sangue sul trivio deserto. E nel vólto febrile lo sguardo mi ridivenne gelido e chiaro; l'osso della mascella fu saldo e armato per mordere; in tutti i tèndini il certo vigore si contrasse, pronto all'assalto. Guardai il nemico Dolore con stridor di denti per scagliarmigli addosso e stampargli segni cruenti su la gota pallida. Il cuore sonò come bronzo percosso. O lastrico accecante, spigoli crudi dei muri coperti di rabida lebbra; consunta pietra di scale, innanzi le porte sacre al dio della cenere, dove il mendicante ostenta l'ulcera e la man tesa; cupa finestra ove in attesa di preda sta la bagascia spandendo sul davanzale le sue mammelle come pasta che lièviti; lenta discesa dell'ombra giù dalla statua deforme che glorifica il demagogo brutale; o lastrico senz'orme, oscenità del luogo publico, lordume del trivio, per voi conobbi un'ebrezza amara che non ha l'eguale. Sentii l'odore d'un abisso invisibile e onnipresente, il pestifero fiato d'un gran mare torpente ma pieno di occulta ferocia, di vita vorace, ove la tristezza dell'uomo era come la nave dalla prua bene sculta che con l'elica guasta è perduta nel polipaio immenso, nell'immenso tedio dell'Oceano ardente sotto il Tropico, e non cammina ma sussulta, ancor pulsando l'infermo suo cuore d'acciaio nella vasta carena, sinché lentamente muore nel fetore della sua sentina tetro che l'avvelena. Vesperi di primavera, crepuscoli d'estate, prime piogge d'autunno croscianti su l'immondizia polverosa che nera fermenta sotto le suola fendute onde si mostra il miserevole piede umano come tòrta radice di dolore divelta; rigùrgito crasso delle cloache nell'ombra della divina Sera, tumulto della strada ingombra ove tutte le fami e le seti irrompono a gara d'avidità belluina per la forza che impera e partisce i beni col ferro, da voi sorgere io vidi non so quale orrida gloria. Gloria delle città terribili, quando a vespro s'arrestano le miriadi possenti dei cavalli che per tutto il giorno fremettero nelle vaste macchine mai stanchi, e s'accendono i bianchi globi come pendule lune tra le attonite file dei platani lungh'esse le case mostruose dalle cento e cento occhiaie, e i carri su le rotaie stridono carichi di scòria umana scintillando d'una luce più bella che la luce degli astri, e ne' cieli rossastri grandeggiano solitarie le cupole e le torri! Orrore delle città terribili, quando su le vie arse cadono i larghi lembi violacei della Sera con un odor molle di morte, e s'accendono su le porte delle taverne i fanali rossi che versano il sangue luminoso al limitare ove scoppierà la furente rissa dopo l'ingiuria, e i fuochi della lussuria brillano negli occhi senili della grigia larva che insegue per l'ombra la vergine impube con nel passo malfermo l'indizio del morbo dorsale, e il bardassa trae per le scale già buie il soldato che ride, e la libidine incide l'enorme priàpo sul muro! Febbre delle città terribili, quando il Sole come un mostro colpito dal tridente marino palpita ai limiti delle acque in una immensità di sangue e di bile moribondo, e nel duolo del ciel profondo la gran piaga persiste livida di cancrena, e s'ode la sirena del vascello che giunge caldo di più caldi mari, e s'accendono i fari su l'alte scogliere, e le ciurme straniere si precipitano all'orgia frenetiche come baccanti, e il porto suona di canti di schemi di sfide di colpi di crapula e d'oro! Sonno delle città terribili, quando dal fiume accidioso (ove si stempra tra la melma e il pattume la polpa dei suicidi fosforescente come su i salsi lidi il viscidume delle meduse morte) sorgono le larve diffuse della caligine tacente con mille tentacoli molli che sfiorano tutte le porte e palpano i miseri e i folli, il ladro e la venere vaga, l'ebro dalla bocca amara l'orfano dall'ossa contorte assopiti sopra la fogna, mentre s'amplia e s'arrossa nei fumi la chiara finestra del sapiente che indaga e del poeta che sogna! Alba delle città terribili, aurora che squilla con mille trombe di rame sul silenzio opaco dei tetti chiamando i dormenti a battaglia, primo dardo che il Sole scaglia a fiedere le sfere d'oro su le cupole ancor notturne e le cime ardue dei camini emuli delle torri e le bianche statue degli archi trionfali, Speranza volante su ali recenti come i fiori nati sotto le rugiade celesti, passo degli artefici dèsti all'opere sonoro come scalpitìo d'esercito grande, rombo che si spande dai mossi congegni pel vitreo duomo, oh Alba, oh risveglio dell'Uomo eletto al dominio del Mondo! XVII. Chi fu che mangiò gli escrementi su la piazza publica, in pani? Ezechiele, il profeta belluino, figliuol d'uomo, il vate dei carmi ruggenti. E dalle sue labbra immani irte di pél selvaggio e lorde proruppe un divino fiume di poesia che scrosciò su le nazioni sorde, travolse i re vani, sommerse i popoli spenti. O città di sangue e di lucro, di magnificenze e d'obbrobrio, di sacrificii e d'amore, mangerà gli escrementi su le vostre piazze sonore colui che vorrà far giudicii per esaltarvi nell'inno, per abominarvi nell'ira, per stringervi in patto di pace? Egli sarà segnato della profonda ruga, ma avrà nella carne un cuor novo. Foggerà egli il fango? Smoverà il letame? Metterà in fuga i sogni d'infermo e i delirii palustri? Caccerà la fame e chiamerà il frumento e lo cernerà nel suo vaglio? Aprirà gli antichi sepolcri intorno a cui danzare ai solstizii d'estate potranno sotto lo sguardo materno i fanciulli robusti? Il Presente è in travaglio. Afflitto io non dissi a me stesso: «I giorni saran prolungati e ogni visione è perita». Ma sì bene: «I giorni e la fiamma d'ogni libertà son da presso». E non Ezechiele, il Caldeo dal capo bendato, che stringe il rotolo ond'ei pascer deve il suo ventre e le interiora sue riempire, e si volge impetuosamente nel fuoco dell'alito eterno col petto già gonfio di canto; né la Sibilla di Persia, decrepita in suo chiuso manto, che leva le mani rugose e china la fronte longeva a deciferare con gli occhi velati da secolo tanto l'angusto quaderno ov'è stretta la somma di tutte le cose; non quegli non questa rispose a me dalla volta profonda nell'ora mia quando supino sul pavimento mi giacqui con l'anima mia furibonda. Ma ritrovai vénti fratelli, m'ebbi uno stuolo gagliardo di vénti fratelli nell'alto, che mi risposero in coro e in disparte, col grido e col silenzio, con lo sguardo e col gesto, nel grande sacrario sonoro. O Sistina, rifugio più solitario che le vette eccelse dei monti ove l'aquile hanno lor nido, altitudine senza fonti per la sete di chi sale, dominio di violenza e di dolore immortale, sublimità del Male, rapimento carnale degli spiriti verso novelli cieli di potenza e di gloria, in te ritrovai miei fratelli disperato della vittoria. Per venire a te primamente, passai sopra il sangue ferino. Persiste ancor nella selce dell'Aurelia Via la vermiglia macchia e al sole è splendente come nella mia rimembranza? Oh meriggio di primavera! Le taverne eran piene di carradori feroci, di rauche voci, di bestemmie crude, di oscene canzoni. E un odor maligno di vino, di timo, d'ànace, d'aglio, di sudori, d'olio fortigno occupava la via romana. Ma dalla campagna lontana venìa sul vento a quando a quando il profumo dell'asfodèlo e l'aroma del pino. In un silenzio anèlo dolorava il cielo latino. Aurelia Via, l'erma è bifronte, mistica e bestiale, che ti guarda e a me t'apre. La tua selce rintrona alle ruote e s'assorda allo scalpiccìo delle capre. Fra la turpe caupona e la mole papale, fra crete e fornaci, urli e taci lorda di lordure e di sangue. Gialla tu sei sotto il sole e lucida di festuche, or bianca or cerula a luna che cresce o che langue; mentre il carrador nello strame de' suoi giumenti, ne' velli de' suoi castrati ronfia o canta d'amor canto infame e l'urto del carro sciaborda il vin nei barili cerchiati, il latte nei vasi di rame. Stanco dei sorridenti uomini vestiti di frode con labbra dipinte su falsi denti, mellìflui e grassi come le meretrici, stanco di scoprir ne' lor passi l'ernie nascoste e le varici e le inconfessabili piaghe e le vèrtebre fiacche, stanco di lor colpi bassi e di lor ferite vigliacche, io cercai nell'antica via la stirpe sanguinaria che maneggia il coltello dal mànico di corno e dalla lama fissa. Vagai d'intorno aspettando il primo clamor della rissa, l'ingiuria arrochita dal vino. Fiutai negli odori dell'aria l'odore del sangue ferino. Una forza selvaggia e sacra, come quella che indura la fronte ed affoca la coglia dell'arìete pugnace, pareva addensarsi nei torvi bovari, nei bùtteri armati d'un'asta ch'è un tirso cui tolta fu la bassarica foglia. Sì fulva ebber certo la barba, sì ebber villoso il torace gli antichi predoni del Lazio. E le lor femmine (Roma ne impresse l'effigie nell'oro imperiale) dal collo pesante, dal ventre mai sazio, dalla chioma lucida e folta come la lana dei neri capretti, le femmine belle e lente ai copiosi pasti infuriavano i maschi col fortore delle ascelle. Quivi l'animale umano amai, che divora, s'accoppia, urla, combatte, uccide, inconsapevole e vero. Quivi divinai la divina bestialità che facea sì resistente la forza di Roma dal tardo pensiero. Meglio che tra gli spadoni e le spìntrie, il mio dolore e il mio desiderio inespressi quivi respirarono, fatti più forti perché più carnali. Il pregio e il mistero del sangue sentii mirando su le lastre, nel solco dei carri, brillare il fiotto vermiglio sgorgato dalle ferite mortali. O selva d'arbori eguali, pronao d'un tempio senz'inni, teco all'ombra io vidi l'Erinni. Tutti eguali in ordine i pini, quasi eletti a un rito solenne, sorgevan dall'erba infinita. Ogni traccia era disparita della belva e dell'uomo: sol v'era il silenzio del cielo. E vi fiorìa l'asfodèlo a piè dei tronchi scagliosi, e l'anèmone violetto ch'è il rapido fiore del vento. E come un palagio d'argento di là dai tronchi, multiforme e tacito, era il Vaticano; un ermo candore lontano era il Soratte solitario; i cipressi del Monte Mario erano un fùnebre serto per non so qual lutto sereno. E un profumo di fieno e di libertà, quasi un fiato pànico, venia dal deserto. O selva d'arbori eguali, tra l'Urbe e l'Agro ordinata, ove dormii sonni veggenti e meditai le mie sorti e favellai con l'Erinni, tu m'appari nella memoria come il vestibolo vivo della formidabile cella; perché pieno de' tuoi fatali murmuri l'anima, gli occhi pieno dei movimenti fieri che su l'antica via agitavan gli uomini forti, ebro dell'amore di Roma e sitibondo di gloria, io v'entrai seguendo mia stella. E, come su l'erba novella che inazzurravano l'ombre de' tuoi colonnati, io vi giacqui supino per contemplare. E là dove giacqui, rinacqui. Che son mai le ambasce supreme del combattente caduto nella vertigine immensa della morte, col viso rivolto al ciel muto ed eterno, quand'ei più non sente il nemico che senza riscatto gli preme con le ginocchia lo sterno ma sol sente l'anima forte che l'abbandona e nell'atto di partirsi infinita col peso di tutta la vita gli pesa e di tutta la morte? Che è mai la sua visione solitaria in mezzo al deserto ruggente della guerra, quand'ei non sa la cagione ma vede che certo è soltanto il dolore e giusta è la terra poiché foglie e pianto e ogni carne più sanguinosa raccoglie? Le grida le risa gli oltraggi umani duravano in me; e i dardi della luce ancor mi dolevano; e i raggi e il tumulto erano in me una sola vertigine truce; e parevami esser demente e ardere fino alla midolla come tra vampe di fenile che ribolla in afa di nembo imminente; e nel tenebrore febrile scintille io vedeva come di selci percosse, ché gli occhi m'eran nelle fosse dell'orbite veracemente come a urto di focile selci nell'ordigno d'acciaio che le attanaglia. E io era come colui che muore di sùbita morte solare, al limite della battaglia. O ruota d'Issione! Rivolgeasi tutta la volta come ruota sopra di me, e il dolor mio n'era l'asse stridente e risfavillante. Tutto quel ciel disperato di bellezza sopra di me era come ruota di ferro trattata da un'ira gigante. E come le festuche e le scorze e il timo e la polve e la melma d'intorno alle ruote dei plàustri là nella carraia romana, così d'intorno a quell'una amore odio eccidio spavento sacrifizio supplizio delirio dell'anima umana tutti i mali e tutte le colpe e tutte le cieche speranze trascinati erano e franti nell'inesorabile giro. E io dissi morendo: «Anima mia, vedo te? vedo le tue speranze le tue colpe i tuoi mali nell'inesorabile giro? Anima mia, vedo in te le larve delle parole, i sogni pulverulenti, le credenze inferme o morte, i giorni senza bellezza, le tracce dei crudi flagelli, le reliquie del mio martìro?». Supino giacente il mio corpo non avea più ombra nel mondo. L'immobilità del dolore era la mia sola grandezza. Come in nero marmo, sepolto nell'orrore de' miei pensieri, io sentii venire di lunge, sorgere sentii dal profondo il pianto che agli occhi non giunge. E quel pianto era pianto, entro di me, sopra di me, da creature che forse vivevano oltre la vita ma non beverate nel Lete né di papaveri cinte, anzi chiuse in un vestimento d'impenetrabile ardore che allo stillar dell'onda amara qual rogo alla piova crepitava senza perire. Ed elle cantavano un canto, entro di me, sopra di me, più forte che tuono di lire, forte di sì alto lamento che toccava le più segrete stelle nel cuore del Cielo e tremar facea di nova pietade il cuor della Terra e discolorava la faccia dell'Ocèano anèlo. «Luce del dolore» io dissi «ti bevo! Luce del dolore, a cui si precipita ignaro dalla notte bruta l'infante che sforza la porta sanguigna del grembo materno col capo proteso, con chiuse le pugna; Luce del dolore, a cui si volge l'estremo battito della palpèbra senile priva di cigli ove all'acredine del sale la pupilla s'è fatta più opaca e dura dell'ugna; Luce del dolore, ti bevo a gran sorsi come bevvi dalla mammella il latte, la voluttà dalla bocca amata, la melodìa dalla sera d'aprile, l'odio dalla ferrea pugna. Di te m'inebrio. Tu m'inondi. Non v'è ombra in me se non quanta può coprirne con agio il calice riverso d'un giglio! E di questa io farò un solitario zaffìro; con quest'ombra che resta una gemma io sublimerò più cerula che il cielo d'Agrigento, per la fronte della mia compagna diletta.» E la ruota s'arrestò di sùbito nel suo giro, come il supplizio s'arresta per il comandamento del tiranno malvagio cui tediano i gridi delle vittime attorte infrante nelle sue pressure. E io vidi le creature tra la vita e la morte. Vidi i fanciulli i giovinetti i vegliardi le madri le vergini i guerrieri i sacerdoti i patriarchi gli utensìli e gli armenti, tutte le carni dolenti e tutti gli strumenti della colpa e del castigo, i letti i libri i roghi le are, e l'inerzia della terra e la furia delle acque e l'impeto dei vènti e l'ingombro delle nubi, la spada la mensa il fardello, il teschio dell'arìete, il festone di quercia, la medaglia superba; e quegli sguardi e quei gesti, anima mia, quelle pupille che ti guatavano dal fondo dell'infinito terrore! E quivi tutto era più grande e più grave, e senza patria, e d'immemorabile etade, e sotto il flagello d'inconoscibili numi. Colei che avea generato stanca era d'una immensa maternità, come se dal suo ventre escito fosse il peso delle nazioni maledette, con un travaglio orrendo; e le sue mammelle eran come l'urne dei fiumi. Profondato nell'oscuro sonno era il dormiente, come un monte sotto i silenzii dei mari primordiali onde sorgerà in un giorno del più remoto Futuro, come nessun corpo giammai profondato fu nella morte. E tutta la gioia feroce degli uccisori nati di donna, da che il primo sangue umano abbeverò la terra ancor del diluvio melmosa, tutta gravava nel pugno di colui ch'era in atto di recidere il capo al vinto nemico; e quel ferro tagliente pareva levato dall'eterna minaccia d'un dio su l'orizzonte immobile della paura terrena; e in quell'abbattuto, che invano pontava la palma il cùbito e il ginocchio sul suolo ch'ei dovea di sé far vermiglio, penava il lamentabile sforzo di tutti gli uomini vinti da che l'uomo è lupo per l'uomo. E fatalità spaventose si propagavano pel mondo, mosse da un gesto, dal lampo d'uno sguardo, dal reclinare d'un vólto, dal lembo agitato d'un manto, dal volgersi ratto d'un pargolo verso la poppa, dal ripiegarsi d'un corpo senile nell'ultima sosta. E sventure senza nome, desolazioni senza voce e senza pianto, lutti accecati dall'amarore delle lacrime esauste, tormenti non conosciuti dagli antichi tiranni né dagli esuli iddii, enormità di doglia e di follìa smisurate pesavano nella stanchezza d'una pallida mano. E tutte le membra, come la mano, erano carche di patimento mortale e s'accasciavano al suolo con ossature di piombo; o, risvegliate dal rombo della morte improvviso, balzavano nel terrore protese verso lo scampo, erette contra il periglio, contratte sotto la minaccia; e i muscoli nelle braccia le vèrtebre nelle schiene le còstole nel torace le arterie nel collo i tendini alle calcagna erano come le bestemmie le implorazioni e le grida opposte ai fati avversi, eran come le bocche urlanti, gli irti crini, gli occhi riversi. E, come su mare notturno s'ode talor clamore di naufragio lontano, venìa dallo spazio incurvo da quel gorgo soprano la voce di tanto dolore confusamente, e fioca e forte. E talor si facea di repente un silenzio più crudo che tutte le grida; ma durava nel vano, come il bronzo che vibra, il rombo eternal della morte. E alcuna delle creature accosciate nell'ombra, sotto l'invisibile mola ond'era premuta continuamente, con voce rimasta per secoli muta disse l'antica parola: «Perché siamo nati?». E io sussultai di paura sul pavimento che freddo era come pietra di tomba, sentendomi l'ossa corrose. Con pallidi occhi, vacillanti nell'orbite fatte più larghe, cercai per la volta profonda gli eroi fra le genti dogliose. Dominavano la sventura e la colpa, chiarosonanti come squilli di tromba, le Volontà meravigliose. «Perché siamo nati?» dicea la creatura del fango con la bocca sua piena d'ombra come la fàuce del bove è piena di strame. «Simile al bove che rumina, simile al capro che copula è l'uomo, con la lussuria la strage il servaggio e la fame.» E una Volontà risplendente «Taci» gridò «taci, bestia da macello e da soma! Porta su le tue schiene il peso di colui che ti doma e poi senza gemito spira sotto il coltello tagliente. Silenzio! Silenzio! Sol degno è che parli innanzi alla notte chi sforza il Mondo a esistere e magnificato l'afferma nelle sue lotte e l'esalta su la sua lira. Taci tu, cosa da mercato, ingombro gemebondo!» E ogni lagno si tacque, ogni vil bocca ebbe il bavaglio. E come croscio d'acque possenti era la forza dei Giovini, grave di bellezze in travaglio. E, dalla fronte nuda al pollice del piè contratto, fremito di sùbiti canti mi corse. Correre sentii nelle mie vene i corsieri anelanti dell'Atto, scosso dai miei spiriti il peso delle ore infruttuose. E, ridivenuti guerrieri, gli spiriti verso gli eroi gridarono: «O nostri fratelli, soli fra le genti dogliose ricchi d'opre per la dimane come gli arbori novelli di gemme, noi su la terra mescere vorremmo la vostra immortalità con la nostra morte per vincere il Fato!». E il coro inerme ed armato «Sursum corda!» rispose, traendoli all'alta sua guerra. E allora io cercai le Sibille per desìo d'un'alta compagna. E dissi alla Libica: «I piedi tuoi son come le ali della colomba, poggiàti sul pollice fiero, e tu sei per chiudere il vasto volume e per librarti a volo uscendo dal tuo vestimento, o Sibilla, come da un vincolo duro affinché l'oro e l'azzurro soli ti cingano come l'orbita cinge la pupilla umida di visioni infinite e la tua bellezza fatidica pàlpiti di libertà sopra il vento. Ignuda le spalle e le braccia e la nuca, luoghi di gaudio, ecco, dalla tua cintura t'involi e dal tuo vestimento. Ma il tuo seno, che tu mi celi, non è forse profondo come un fior numeroso? E la treccia che sfugge alla benda delle tue tempie non ha forse il misterioso potere del corno sul fronte di Pan che conduce nei cieli le melodìe del Mondo? E il tuo fianco fecondo non è fatto pel seme del vincitore? Ah chi mai saprà il colore degli occhi tuoi sotto le pàlpebre chine? Quando mi guarderai? Orfeo sono, senza ghirlande, che più non attende alle porte dell'Ade quella che due volte perdette! E tu sei troppo grande, o Libica: sul cor tuo forte soffocar puoi anche la Morte». All'Eritrèa dissi: «Non m'odi, se parlo. Sei anche più grande! La Saggezza e la Forza lavarono i tuoi piedi scalzi. Tu sdegni i troni. Se t'alzi, tu mi sembri una torre munita. Signora della Vita tu sdegni le chiuse corone. Pallade ha l'elmo corintio col duplice occhio e il nasale. Intorno al tuo capo regale tu serri il pìleo dei nàuti con treccia che gira due volte simile a ceràste divelta dalla chioma della Gorgóne. Pallade ha il suono dei flauti e il canto delle mille teste pei giuochi della nazione. Tu nelle tue vaste orchestre hai tutte le voci, dal rombo dell'ape al fragor del ciclone. Che mai raccoglie il tuo braccio con la man cava (che resse forse per una notte i chiostri del Cielo tolti al sostegno d'Atlante e forse la clava brandì ad uccidere mostri) che mai raccoglie il tuo braccio dall'ombra di quella gran piega che ti fa nel manto il ginocchio sovrapposto all'altro in riposo? Le pieghe del tuo spazioso vestimento son piene d'invisibili tesori e di mistero infinito. E, se tu volgi col dito il foglio del libro verace or che il Genio con la sua face t'accende la lucerna, qual tirannide crolla, nasce qual novo mito, qual puro eroe s'eterna?». Ma dissi alla Delfica: «Te amerò, tra due vènti avversi nata dall'onda marina esule Oceànide, te che i lombi non anche detersi hai dall'amarezza salina. Chiusa nella tunica grave or sei, nella lana cui morde la fibula sotto l'ascella; ma ti gonfia il vento del mare dall'òmero al pòplite il manto ampio quasi trevo in procella. Tu svolgi dalla sinistra mano il tuo ròtolo santo che come vela quadra s'inarca alla banda contraria; e così vigile assisa mi pari su cassero forte di nave che navighi i tempi, sicura tra i due vènti avversi, fresca Virtù solitaria. Io ben so che l'onda natale crea questa tua giovinezza e il cristallo de' tuoi grandi occhi. Tuo latte fu il fiore del sale, e il cerulo gorgo tua cuna. Fra le mammelle e i ginocchi, a traverso il tuo vestimento, io vedo raggiar la bianchezza del grembo tuo, virginale come la più labile spuma. E sento, a traverso la benda che dalla fronte alla nuca ti copre, l'odore dell'ulva e dell'alga, l'odore d'un vascello che porti nardo e mirra nella sua stiva, l'odore d'un'isola australe. O bendata, e ben ti so fulva come il fuco tratto alla riva. So che nella destra ti dura il segno del tuo governale. Navigatrice sei, Thalassia nomata per me! I rematori adusti dalle cinture di sparto e dai lanuti galèri, curvi su gli scalmi nel canto disteso che gonfie facea le vene dei colli robusti, disser le tue lodi con me. Sul litorale i trevieri misurando e tagliando le vele in canape aspra, le lor donne i lunghi aghi acuti nell'ordito spignendo con la palma armata di piastra, per giugner vivagni di ferzi acconciar guaine a ralinghe e rinforzi e ritrosi e suppunti ben saldi contro fortuna, via via di costura in costura disser le tue lodi con me. I costruttori di navi segnando a rigore di frasca i garbi dei fianchi e dei ponti per vincer con lor misurate armonie la cieca burrasca, i mastri d'ascia segando a fil di sinopia il legname squadrando chiodando impernando dallo scafo alla tuga il fasciame, i calafati la scussa carena con maglio e scalpello stoppando per l'ugner di pece e di sevo a fuoco di stipa e spalmar di bianca cerussa, i cordai filando dai mazzi la canape splendida ai soli novi o torcendo nei trasti i fili e alla pigna i legnuoli, tutte in alterno cantare le maestranze del mare disser le tue lodi con me. O Thalassia, Sibilla di grandi oceaniche sorti, divinatrice serena di turbini e di naufragi, Euploia, esulata in ambagi ove impera il dio molle che dalla bellissima argilla separò gli spirti e li volle infermi di nera vergogna, odimi. Io ti chiedo: Che guardi? L'occhio tuo fisso non sogna né pensa, ma vede come nessun altro mai vide. Non lacrima né sorride: vede meravigliosamente. Che guardi? Una cosa fuggente, o una che giunge dai mari onde tu stessa venisti? Scendere su i popoli tristi le ceneri crepuscolari, o sorgere l'albe cruente? Che guardi? Un Liberatore inchiodato a una quercia alta mille volte cinquanta cùbiti, come l'Agageo Haman figliuol di Hammedata che laggiù grandeggia in aspetto di Titano più grande del Galileo crocifisso? Una gente nata del suolo sacro all'Olivo e a Minerva, che alfin ritrovò la sua gioia perduta e goder sa nei giorni la beltà senza fasto il piacere senza mollezza e comporre sa le sue feste divine con lievi corone? Ma forse l'occhio tuo fisso contempla l'Ombra di Roma che regge l'antico timone, quale effigiata ancor regna nella medaglia di Nerva. Andiamo, andiamo! Se ancóra sonvi nel mondo azioni da compiere belle come le più belle promesse dei sogni virili, se ancora sonvi da vincere mostri, da sciogliere enigmi, da purificare carnai, da costringere petti umani a gridi d'amore e d'orgoglio verso la Vita, andiamo, andiamo! Se ancóra sonvi giardini profondi ove favellare si possa co' i saggi e gli aedi, se fonti vi sono per tergersi dopo le lotte, colline silenti che sostengano anfiteatri di marmo sacri ai tragèdi, se inni, se musiche pure, se ancor vi son lauri, andiamo! Per udire il grido d'un maschio, per vedere un braccio levato a percuoter forte il rivale, per sentir l'odore del sangue sparso e dell'ebrezza brutale, per ingannar la mia sete di vivere in atti ed in opre, o fresca Oceànide, innanzi ch'io venissi a te, disperato vagai per l'antica via strepitosa di carri lorda d'escrementi e d'avanzi accecante di luce dura. E su quella lordura l'anima mia ne' miei sensi crudeli perdutamente aspirò il divino fiato che venìa dagli immensi deserti dell'Agro fiorente d'anèmoni e d'asfodèli; trascorse al confino de' cieli. Cammino senza impedimento, fatto dai balzi impetuosi, quello cui l'anima mia è pronta se tu l'accompagni! Disgusto dei rigagni putridi la tiene; disgusto dei lascivi amori mendaci che non sanno che sia l'innocenza nel desiderio, la profonda innocenza cui non giova altro guanciale pel sonno d'un'alba ignota se non il sopposto alla gota suo braccio robusto. La tiene disgusto mortale dei giacigli acri ove il sudore del combattimento carnale fa insana la cóltrice come la materia libidinosa che serpentina s'ammassa e luccica, e attossica l'ombra. Una venefica polpa fu data ai miei denti per pane. Assaporai una schiuma più salsa che quella del mare. Congiunto fui alla colpa come la vèrtebra è congiunta alla vèrtebra nella schiena che rabbrividisce di gelo fùnebre alla carezza acuta. Non lasciai la bocca morduta sinché la saliva non ebbe il sapor della vena. Bevvi a una a una le stille su la bianchezza del petto che i rovi avean flagellato. Vidi nelle aperte pupille uno sguardo più fiso che il ferreo sguardo del Fato. E le labbra nel mio viso non potean più ridere e gli occhi non potean più piangere, o Amore! E conobbi l'attesa nella stanza che s'oscura al giorno che declina; quando la lama tagliente, tratta dalla guaina silenziosamente, è posta nella piega impura del lenzuolo, per la vana vendetta; e sul cuor solo che aspetta sfacendosi in ascolto, e su le mani e sul vólto, su tutte le misere carni, passan gli uomini e i carri, scroscia l'onta della via; e la melancolìa delle cose ha l'odore della veglia notturna tra il cadavere e i ceri; e quel che fu ieri non sarà più, per sempre. Ahimè, non la bianca pruina, non la rugiada tremante, né la scaturigine chiara, né il bosco con l'umido sguardo dell'ombra sotto le verdi sue pàlpebre, né il giovinetto vento con gli anèmoni in bocca, né il fiato dei gelsomini quando a vespro piove su gli orti, né alcuna gelida cosa poteva guarire il mio male; perché maculato io era più profondamente che il nato della pantera. E la fredda e santa corona, ond'io cinto aveva il mio spino promettendolo alla Bellezza, inaridita s'era a foglia a foglia. E l'oscuro giacinto del mio desiderio fioriva ai piedi del Crimine irto. Ma un dio nudrito di fuoco e d'amarezza era in me, che divinamente sentiva i preludii della Notte, e il dolore delle lune in travaglio, e il pianto delle Pleiadi, e il pianto delle Iadi, e il lutto figliale d'Erigone, e in dune deserte la disperanza del mare; e tutte le cose di fiamma in travaglio, ch'erran pei cieli del silenzio dolentemente, e quelle che sono già spente e sembran arder tuttavia; e la melancolìa delle fiumane tortuose ove scorre l'acqua che stilla dalle clessidre del Tempo, cui venenò l'Amore e appesantì la Morte. Ahimè, tra due vènti avversi nata dall'onda marina esule Oceànide, fresca Virtù solitaria, che sai tu del mio male? Non m'odi, se chiamo. Non torci lo sguardo dalla visione che vedi, e ch'io non veggo né mai vedrò. La tua bocca socchiusa è da me più lontana che la perlìfera conca in fondo all'Oceano australe. Eterna sei là, simulando col rotolo tuo dispiegato l'imagine nautica, Euploia, per acerbare la pena del naufrago che ti si volge, per eccitare l'ardore del buon piloto che t'ama; ché necessario è navigare, vivere non è necessario». E stetti quivi giacente ne' miei pensieri a guatarla, in me medesmo sepolto. E più e più biancheggiare il teschio d'arìete vidi, risplendere più di quel vólto. E vidi lì presso nell'ombra la madre affannata col figlio stretto al seno, e l'uomo abbattuto in un sonno cupo d'angoscia; e dall'altra banda lì presso l'ucciso guerriero sul letto, levato ancor la gran coscia nel violento sussulto; e carca del crimine occulto e ancor bagnata dal seme del maschio la femmina in atto di ricuoprire il mozzo capo, sanguinante nel piatto con tal pondo di alto valore che l'ancella èrane curva. E, come il mio sguardo sgomento salì a cercare la coppia degli eroi pùberi, scorsi che l'effigie dell'uno era distrutta dal Tempo irreparabile e l'altro bello era e triste di bellezza e di tristezza gorgónee quasi nato fosse del sangue di Medusa anguicrinita per un destino funesto. Ma tutte quelle errònee forze tra la Morte e la Vita penanti per entro quel turbo, tutte parean cieche al confronto del gesto con cui quell'eroe pensoso reggeva la zona a sostener la medaglia di conio titanico, pronto per conquistar la corona a scagliarsi nella battaglia. E io gli dissi: «Fra tutti i tuoi fratelli sei solo, sei senza il compagno a riscontro, o figlio di Medusa che forse porti per sempre nel centro dell'anima chiusa come in un'ègida ardente il fatale vólto materno. E, se pure discerno l'ombra del tuo pari, ell'è infusa di leteo làtice e oblìa le sue fiere speranze che avean già rostro ed artiglio come aquilette bienni. Ond'io, che divenni solo come te presso un'ombra ferale, vorrei ne' giorni e nell'opre averti compagno; ché troppo è talor cosa dura non poter la man fida porre su l'òmero dell'eguale». E così parlò la paura della solitudine in me per la mia fiacchezza. L'eroe fisso era in ben altra rancura. «Sii solo» rispose egli a me «sii solo della tua specie, e nel tuo cammino sii solo, sii solo nell'ultima altura. Il cuore è il compagno più forte. Tre volte i guerrieri son pari: liberi davanti al dolore, liberi davanti al periglio, liberi davanti alla morte. E ciascuno è pronto a sé stesso, ciascuno a sé stesso è fedele: un arco che ama il suo dardo, un dardo che brama il suo segno, un segno che è sempre lontano. E la libertà è lo squillo d'oro, il clangore che incendia il cielo antelucano.» «Ben so, ben so questo che insegni», io dissi. «Udii già tal sentenza fendermi come spada gli orecchi, nel vento del mare; e il cuor mi balzava nel petto come ai Coribanti dell'Ida per una virtù furibonda e il fegato acerrimo ardeva. Ma oggi il cuore m'aggreva fattura di Circe omicida, di Circe dalle molt'erbe che inganna con voce soave. Battermi tentò con la verga ella e spogliato dell'armi nel solido stabbio serrarmi. Tu l'erba salùbre mi dài, ed eccomi sano alla lotta.» Rividi la concava nave nelle acque di Leucade, il grande piloto eversore di mura tenére nel pugno la scotta. E, in verità, fu quella l'ultima volta che il cuore mi vacillò di fiacchezza e d'ebrezza torbida; quello fu l'ultimo mio smarrimento, e l'ultimo affanno della solitudine verso l'amore; e fu l'ultimo indugio, e l'insegnamento supremo. Onde il mio poter, fatto scemo dalla frode dal dubbio e dal disgusto, risorse in plenitudine nova su l'orlo dei baratri cupi. Oleastri d'Itaca, rupi di Delo divina, cielo della Sistina, luci della mia conoscenza, da voi mi venne sentenza dura per vivere in terra e voi siete i miei luoghi santi. Tutte le colpe e i castighi e le minacce e i vaticinii si oscurarono allora ai miei occhi; e la immane latèbra si fece sonora di quel peane che udito avea nell'isola d'Aiace. E vidi in carne verace le gioventù sovrumane (non tale era Achille sul punto di partirsi da Sciro e Patroclo Actòride prima che agli òmeri suoi rivestisse l'armi funeste?) irraggiare lo spazio con lo splendore d'una nudità che, construtta di ossa di nervi di vene di muscoli e di tutta la potenza carnale, splendeva su l'anima come spirital bellezza grande. Tra la luce d'Omero e l'ombra di Dante pareano vivere e sognare in concordia discorde quei giovini eroi del Pensiero, fra la certezza e il mistero librati, fra l'atto presente e la parola futura. Ciascuno la sua ossatura creato avea dall'interno del suo spirto, artefice ardente del suo simulacro vitale; e dal tarso allo sterno, dal cùbito al ginocchio, dall'occìpite al tallone, dalle vèrtebre alle falangi la compagine era eloquente come uno spirto che parli di sé con un fremito d'ale; sì che il triste pondo animale in verbo mutavasi eterno. Quale fra tutti il migliore? Poggiato la palma sul dado marmoreo, l'uno era assorto in un pensiero sì bello che volgevagli in suso i capegli a guisa di diadema per occupar solo la fronte e farne a sé luogo di luce. Inclito come Polluce, l'altro piegavasi in dietro gridando, quasi a lanciare di là da ogni fine raggiunto un disco di ferro in cui fosse inciso un decreto del Fato. In fiera allegrezza, agitato pareva da pirrica danza l'altro; e col levar delle braccia con l'alterno urto dei piedi con la brevità degli accenti segnava i ritmi veementi dell'anima sua predatrice. E chi, flesso il pòplite, lieve sedea su la gamba sopposta; e chi raccolto, in una sosta dell'ardore, co' piè giunti, con la zona sul capo a guisa di benda, sognava un suo sogno severo; e chi reclinavasi altiero a trar con la destra la zona che fermata area col calcagno mentre incoronarsi del lembo estremo parea con la manca; e chi, piegato su l'anca, col capo riverso nel triplo avvolgimento d'un drappo fremebondo, avea la sembianza del vento Vulturno; e chi, quasi genio notturno, nascosto le mani profuse di soporiferi semi, tenera le pàlpebre chiuse. Ed altri guatava diritto all'ombra del braccio levato in atto d'opporre difesa a erculeo colpo di clava; altri dall'alto guatava obliquo con crude pupille come avverso ricca rapina, contratto i muscoli al balzo, quasi leopardo che sia per frangere tergo di toro. E tutto pareva sonoro dell'alto peane lo spazio, però che in ogni atto dei corpi si rivelasse una fiamma di volontà e d'ardire qual sola proruppe, toccando a sommo dell'etra gli dèi, dalle battaglie sacre ch'eran primavere cruente d'un popolo nato a fiorire il fiore de' suoi Propilèi. Ma qual fra gli eroi fu l'eletto della tua speranza, o rinata anima mia? Qual più ti piacque? Qual tu volesti assemprare nel vittorioso avvenire? Quello che ti parve fra tutti il più libero, cinto di libertà come d'un serto diàfano, per aver vinto. Quello che ti parve fra tutti il più sereno, sospeso in serenità d'oro, certo qual dio, per avere compreso. Instrutto ma non leso dalla vita, bello e gagliardo, poggiato il cùbito destro sul festone silvestro e sul ginocchio la mano, ei guarda con limpido sguardo il compagno oppresso dal peso, il forte che ancor non s'affranca. Sotto di lui sta, quasi mole di granito e d'umo fecondo, con le gambe conserte assiso il titanico veglio che sembra l'antico parente di quella forza novella. Quali comprime parole nella vasta mascella barbata il veglio con essa la sua mano venata di duro aratore che seppe entrar profondo col dente nel grembo d'una terra inerte e strapparle sacra promessa d'abondanza per la sua prole? E le due donne sole, che stannogli quivi alle spalle, perché sono tristi? Rimpianto le tiene dell'esule prole che nudrirono alternamente nella cuna della sua valle? Io vidi in quel veglio lo spirto del mio suolo natale, il generator venerando della mia sostanza più forte, il testimone solenne della mia fatica vitale, il giudice e il custode futuro della mia morte. «Uomo» dissi a me «la melode che ti pregò buona la sorte nella cuna di rovere tu non obliare giammai; ché in ella è un indomito nerbo. Forse su quelle povere note un giorno tu comporrai l'inno tuo più superbo; quando, sopra il vinto dolore assiso come il sereno eroe che nell'alto contempli, cantar tu potrai dal tuo pieno petto i tuoi dii ne' tuoi templi.» XVIII. Or giunto è quel giorno per l'uomo audace e paziente, che vinse il dolore e il disgusto e la stanchezza e sé stesso. È giunto il giorno promesso. O solstizio d'estate! La man ritrovò, come nido nel cavo del tronco vetusto, le ricchezze della sua gente; e come le uova lasciate si raccolgono, ella raccolse il retaggio della sua gente; e non s'udì muovere ala né pigolare nel nido ma tutto era luce calore odor di glebe odor d'erbe fragranza di miele selvaggio e fremito di biade già fulvide nella pianura. O solstizio d'estate, annunzio della mietitura! Per vincere il dolore, io lo cercai dovunque, senza tregua; e spezzato me l'ebbi a frusto a frusto. Per vincere il disgusto, respirai l'aria infetta, il fetore del fiato plebeo, l'afa della carogna, il lezzo della fogna, la peste della cloaca, il rutto della mala ebrezza. Per vincere la stanchezza, volli cose più pesanti da portare in sentieri più difficili e costrinsi le mie pàlpebre e i miei pensieri a più lunga vigilia. Per esser solo a me davanti, come chi sogna o s'esilia, camminai nel deserto delle moltitudini ansanti. Camminai per entro la folta materia delle agonie e delle resurrezioni, misurandola in silenzio col battito del mio sangue aumentato come nell'estro furiale dei ditirambi. Credetti vedere tra lampi l'aspetto terrestro di Dionìso effrenato, la mostruosa faccia d'un dio pandèmio agitato da una innumerevole danza per un rito impuro e cruento. Sentii tornare nel vento l'antico delirio d'Astarte nel dì d'Adonài germogliante quando i quadrivii e le piazze sanguinavan di stupri sacri e la città era tutta una prostituta schiumante. O Strada, adito orrendo ove apparir deve il dio Ignoto, ampia sì che con quattro quadrighe di fronte vi possa procedere un novo Trionfo latino, angusta tòrtile e sozza come budello bovino, ardente qual fiume di lava, umida qual catacomba, frequente qual molo d'approdo, deserta qual vacua tomba, piena di silenzii e di gridi, tetra e folle, fùnebre e vana, non mai così bella io ti vidi come allor che udendo la voce della rivolta lontana guardai fiso il tuo sbocco irto di baionette, l'occlusa tua tragica foce all'émpito delle vendette. Io ho portati i tuoi furori, caricato mi sono delle tue doglie, ingombrato dei tuoi lutti e dei tuoi misfatti. Intera nel cor tu mi fosti con le moltitudini cieche con l'enormità dei clamori con la veemenza degli atti. Lo spirito del tumulto passava sferzando la faccia come la raffica pregna di fortore salino. Occhi bianchi in teste riverse e dentature mordaci brillavano come le schiume nascenti del maricino. Un che d'aspro, un che di ferino e di primaverile e di volubile era nell'aria. D'acuto lucea riso ostile l'ilarità sanguinaria. Con òmero pugno e ginocchio innanzi spignea la carcassa della sua fame allegra, più forte, sempre più forte, come la ciurma che vara la barca giù per la sabbia del lido e spignendo la negra carena dà grido concorde. Dalie gole rauche un selvaggio canto rompea tra i palagi senZa echi, e le ingiurie gli eran compagnia di strumenti con sibilo di rotte corde, gli eran segnal di ripresa il precipitar dei cristalli argentino al colpo del sasso, il rimbombar dei battenti urtati su le chiuse porte; e il canto avea fatto lega col sepolcro, avea fatto patto di fèlicità con la morte. E io vidi allor sul crocicchio l'edificator di bordelli, figliuolo di non marzia lupa, satollo di vituperio, che s'era estrutto alto luogo quivi a tener sue concioni; vidi il gran demagogo, nomato con nomi di gloria Prevaricator sin dal ventre e Sacco di saggezza escrementizia e Frogia mocciosa della vacca Onta, sedare il clamore col gesto per iscagliar suo verbo contro a chiunque s'inalzi e contro a tutti gli alti monti e contro a tutti i colli ingenti e contro a ogni torre eccelsa e contro a ogni muro forte e contro a tutti i bei disegni e contro a tutti i buoni odori. Ed errava nelle parole come l'ubriaco di notte va nel suo vomito errando. In luogo di buoni odori vi sarà la sanie concreta, e in luogo di bella cintura cordella di sparto, e vittuaglia spartita in luogo di vana bellezza. E una ventrosa menzogna sarà posta in luogo di queste vesciche che abbiamo fendute, per nostro ricetto. E tu, sterile Plebe che non partorivi, concepirai pula e partorirai loppa. E i cieli si ripiegheranno come non più letto volume su la terra beata di fecondità strapossente. O quanto era bello su la bigoncia il torace del bertone, angelo di bene e messagger di salute, che dicea: «La Canaglia succede all'Uomo per sempre e in pace amministra le grasce!». O quanto era bella intorno all'imperatoria pinguedine del suo collo stillante incliti sudori la porpora della corvatta! Egli era la sanie coatta in forma di vafro macaco nascosto nei panni il verdiccio pelo e le chiappe callute. E le vociatrici boccute l'adoravano. Dal capo alle piante con gli avidi occhi elle parean tutto succiarlo quasi ei fosse tutto priàpo. Ma, quando l'umano ingombro riprese il cammino verso la muraglia equestre irta di lame e di lance che laggiù l'attendea, (la pioggia recente avea sparso per le vie l'odore terrestre, calando il sole accecato tra nuvole e cupole d'atro piombo gonfio ed immoto) un che di sacro e d'ignoto sorse da quell'immenso miserabile corpo in balìa del delirio vespertino, le cui mille e mille facce divampate parean da una fumida gloria. E pietà mi prese di lui che camminava ignaro nell'eterna sua debolezza come nella vittoria. Uomini fetidi e robusti, altri smorti e scarni e curvi, combusti dal calore dei forni e delle caldaie infernali, inverditi dai sali del rame, inazzurrati dall'indaco, arrossati dalle conce delle pelli, inviscati dai grumi e dai carnicci dei macelli, corrosi dagli acidi, morsi dal fosforo, fatti ciechi dalle polveri e dai fumi, fatti sordi dai fischi del vapore dilaceranti o dai tuoni iterati dei martelli giganti, dai fragori e dagli stridori di tutto il ferro attrito, venian del lavoro fornito. Foschi di carboni, bianchi di farine, con lorde le mani d'argille o d'inchiostri di sevi o di nitri, con pregne le vesti di tabacchi o di droghe di farmachi o di tòschi, venian delle fucine, venian degli opificii, venian delle fabbriche in opra, dei fondachi, delle fornaci, di tutti i supplicii e i servaggi, con su i vólti selvaggi impresse le impronte tenaci della materia bruta cui li asserviva il travaglio. Ed ecco era divenuta la lor pena diversa una sola rabbia, conversa a sollevare un sol maglio. E la volontà di morte cessò dal grido e dal canto: subitamente si fece taciturna e compatta dinanzi alla muraglia equestre che l'attendea. S'udiva tintinnire l'acciaro nella bocca degli inquieti cavalli, ansar nei petti inermi s'udiva la forza plebea. Gli squilli, gli urli, il galoppo, il turbine duro che passa, la vendemmia sotto l'ugne ferrate, le carni calpeste, i cranii fenduti, i cervelli sgorganti, l'orror consueto della rivolta disfatta e rotta su le pietre grige; ma tra il sangue un'ala ch'è intatta, una fiamma che vige l'idea. Quale? L'antica, l'eterna, ch'ebbe nei crepuscoli fulvi dei secoli tante ecatombi di ribelli invano rinati dal carnaio delle lor fosse. Quella che disse: «Vesti i lombi degli schiavi, o sacra Giustizia, perché i prigioni del prode sien tolti e le prede del possente sieno riscosse». Nel crepuscolo fulvo nasceva il delirio. La cieca demenza guidò la cresciuta miriade non più inerme agli abbattimenti e agli incendii, sott'esso il chiarore sublime che ferìa le pile dei ponti, gli archi di trionfo, le fronti dei templi su le colonne superstiti, gli anfiteatri titanii, l'erculee terme. Le fauci belluine della Folla s'erano aperte dismisuratamente per divorar la possa della Città trionfale, della tirannica madre con tutte le sue opulenze ed abominazioni. Come il fiume contra i piloni di granito, fra la distretta degli argini, sotto la bassa nuvola melmoso, la massa carnale rigurgitava schiumava in capo d'ogni strada, e alla libidine atroce ogni strada era suburra. Valanghe d'ombra azzurra si precipitavan dal cielo, ché l'ombra parea più veloce nel vespero violento. Le torce ruggirono al vento. E da presso e da lungi io udiva il clamore, io udiva gli ululi e i lagni orribili della gran doglia nella Città millenaria. E il clamore era come di femmina partoriente che si torca in spasimo grande e morda la verde sua bava e dia del capo e dei pugni nelle mura e invochi soccorso alla doglia sua, vanamente, negli orrori suoi solitaria. E dissi: «Ah quanto ti torci, misera, e quanta fai bava di vituperii e d'ire nelle tue mascelle di ferro! Ma dato non t'è partorire se non l'aborto cionco e monco, l'acèfalo mostro che ha il tronco di ciuco e la coda di verro. Ah chi almeno un giorno saprà sollevar la tua fronte chiomata di crin leonino verso la bellezza d'una vita semplice e grande? Chi ti trarrà dalle lande della morte verso il bel monte delle sorgenti ove il destino delle stirpi s'immerge e si rinnovella? Un eroe forse ti verrà che ferrare saprà de' suoi duri pensieri la rapidità de' tuoi atti, come s'inchiodano i ferri all'ugne degli acri corsieri, di là dagli antichi riscatti». Afflitto io non dissi a me stesso: «I giorni saran prolungati e ogni visione è perita». Ma sì bene: «I giorni e la fiamma d'ogni libertà son da presso». E dal giorno di poi l'ora santa d'Eleusi fu pallida nella memoria dinanzi all'ora del pane. La spica mietuta in silenzio nella mistica ombra mi parve men pura che il pane addentato dall'avidità della fame. O mattino di primavera su la via lavata dall'acqua del cielo! Garrire e brillare di rondini nell'umidore argentino! Odor dell'eterno frumento, dell'aurea crosta rotonda, della mollica soffice occhiuta e leggera! Selvaggio sguardo materno verso il divino alimento! Strida del pargolo fioche per l'aderir della lingua al palato nell'alidore! Le turbe assalivano i forni con l'avidità della fame. Abbattevan le porte, abbrancavano il pane ancor caldo gonfio cricchiante. Traevan sul lastrico i sacchi della bianca farina, del biondo cruschello; e le donne se n'empievano il grembo prendendone col cavo delle palme fatto capace dalla bramosia come staio. E subitamente un gaio fervore invase le turbe. E gli uomini forti, i fanciulli, le madri, le vergini, i vecchi, tutti ridean con umidi occhi; e tutti i denti parean puri nelle bocche affamate che masticavano il dono della Terra nato nei solchi. E un sapor religioso era certo in quel pane che tal sacra ebrezza recava, come nel primissimo pane che intriso fu, cotto e mangiato dal colono poi che Demetra di cerulo peplo gli diede l'ammaestramento immortale. E io dissi: «L'uomo è l'eguale dell'uomo dinanzi alla spica mietuta in silenzio o con canti. E questa è la sola eguaglianza, questo il gran diritto terrestre che inscritto sta nella zolla». E parvemi, sopra la folla sazia di pane recente carica di pura farina, intraveder la divina benignità sorridente della Dea che è cittadina per la sua corona murale. E un'altra ora fu larga alla mia speranza; e fu l'ora notturna della mia Musa quando apparve in veste sanguigna alla moltitudine chiusa nell'anfiteatro profondo che fremea di fremito immane. Quivi rotto fu l'altro pane: fu dato all'unanime cuore il bene che supera tutti, il cibo più dolce dei frutti nati di radice terrena, il rapido oblìo della pena assidua e del duro bisogno, il nepente del sogno che svela nel lume d'un astro novello il prodigio del mondo: quando il buono Eroe biondo, che tenne la spada e il timone l'ascia la marra e il vincastro, rivisse nell'alta canzone. Anima mia, tu provasti l'avversità d'ogni vento e d'ogni vento la gioia, tutte le figure segrete conoscesti tu dell'abisso marino da poppa e da prora. Ma quale dei soffii più vasti ti sollevò come quello spirante dal vólto in te fisso? e quale figura d'abisso ti parve misteriosa come quella che ti guatava e parea farsi cava alla voce tua ripercossa? Entrar sentimmo una possa ignota in noi, crescere un'ala terribile al nostro ardimento, un'ansia d'interno titano sforzare l'angustia nostra, distruggere l'impedimento della corporea chiostra. E la materia sacra della stirpe, l'imperitura sostanza progenitrice dei sangui, l'originaria virtù della gente era innanzi a noi affocata come il masso del ferro che posto sarà su l'incude. E noi con le man nude l'afferrammo delirando come chi è pieno del dio e travede nel fuoco informe l'imagine che trarre ei deve alla vista di tutti. L'afferrammo e, instrutti dal dio, la foggiammo rovente, e traemmo il gran simulacro dell'Eroe disparito. E tu vedesti dal sacro tuo fuoco, o italica gente, nascere il novello tuo mito. Bellezza dei miti novelli non anche nata! Divine trasfigurazioni delle forze operanti nella profondità segreta della stirpe dominatrice! Fiammei fiori della radice innumerevole che abbraccia la sua terra con fibre inespugnabili! Supreme testimonianze d'un sangue animoso! Gli olivi che fioriscono a specchio del Mediterraneo Mare ancor vedranno fumare i roghi accesi ai numi indìgeti e udranno il peana, quando restituita su l'acque sarà la più grande cosa che mai videro gli occhi del Sole: la Pace Romana. XIX. Certo, una inattesa bellezza balenar talora mi parve nella chimerosa figura del popolo unanime intenta; e l'ingluvie sua flatulenta e il vociar suo forsennato e l'enormità del suo dosso, la caudale giuntura delle sue mille e mille vertebre che traversa, come fólgore, l'insano sussulto; e il Pànico, l'occulto suo dio che gli schiaccia la coglia; e la sua furia e la sua doglia e la sua miseria infinita, tra le inesorabili mura, mi diedero fremiti avversi. E talor discopersi in alcun vólto infoscato dalla filiggine o adusto l'armonia del bronzo vetusto. Ma, dopo, il Deserto di sabbia inospite fu la mia gioia sublime, fu il mio rapimento. E tedio mi prese del verde albero, e il solco del novo grano mi fu a noia per la memoria dell'uomo; e ogni vestigio di piede umano mi parve lordura. E l'immensa aridità pura del Deserto senza vie e senza òasi, il suo fiore ineffabile che illude la sete nudrito di brace, le sue mammelle nude e sterili che fanno di bassura in bassura ombre d'inganno, il muto tremar del suo vento focace quasi battito di febbre, furono il mio rapimento. E la luce m'entrò pei pori della pelle, m'impregnò d'oro le vene le ossa e le midolle, mi fece il cuore lucente come il quarzo e lo schisto. E ogni umor tristo fu inaridito, riarsa ogni sovrabbondanza molle, ogni pesantezza alleggiata, ogni ingombro distrutto. E nel mio corpo asciutto la felicità del mio spirto fu più agile che fiamma appresa ad arbusto di mirto. E tutti i miei pensieri furon come corde di cetra aridi; e le volontà belle sonarono in me constrette come le aguzze asticelle dei dardi a quattro alette suonano nella faretra. E la mia coscia nervosa aderì così forte al fianco del mio caval sauro ch'io divenni il mostro biforme, lo snello centauro d'ugne senza ferro, di levità senza orme. E ne' miei occhi umani sentii la bellezza dei grandi ardenti umidi occhi inumani del corsiere d'Arabia che parea sangue di pardo. Ed ebbi così nel mio sguardo l'inconsapevolezza della purità bestiale, in me ebbi tutto il Deserto. E, scendendo in corsa le dune verso la bassura fallace d'aereo incantamento, correre credetti alla Nube materna vestito di vento. Delirio dei profeti saziàti di locuste e beveràti con l'acqua lotosa dell'otre sozzo, visione di dolore e d'orrore innanzi alla Morte, il mio delirio fu più forte, la mia visione più bella. Dov'era il dio di procella che seccò il mare, le acque del grande abisso? che ridusse le profondità del mare in un cammino di fuoco per i dromedarii di Efa e per i cammelli di Seba carichi del suo incenso? Quivi, nel fuoco immenso, non era alcun che gridasse per la giustizia né alcuno che per la verità facesse lite e contesa e digiuno. Fin l'ossa dei dromedarii su la sabbia eran più monde di tal giustizia e più pure di tal verità, sotto il Sole. E non v'eran parole se non quelle del vento incorruttibile, che è il Messo della Libertà per i prodi e per i solitarii, quivi. E il vento dicea: «Tu che vivi, guarda il mio palpito incessante d'amore su i corpi che foggio! Il Mar glauco, il Deserto roggio io li travaglio d'amore indefesso e li trasfiguro in bellezza infinita che una pare e sempre disvaria. O Vita! Non odi nell'aria clangor delle mie mille trombe? Or ora laggiù seppellita ho la Sfinge presso le tombe». Seppellita ho anch'io la mia Sfinge co' suoi enigmi nodosi, e seppelliti anco gli avelli con la lor putredine inclusa. Risa di fanciulli, effusa gioia puerile, croscianti risa d'innocenza selvaggia furono l'inno funerale alla covatrice di tombe, risa volubili come avvolgimenti d'aura, roche di troppa allegrezza talora come i canti delle colombe, come i murmuri dei ruscelli. Volontà, Vittoria senz'ale in me ferma sempre! Nudrita di rai, Voluttà, calda e ascosa come sotto il pampino l'uva! Orgoglio, uccisor dispietato! Istinto, fratello del Fato, dio certo nel tempio carnale! Volontà, Voluttà, Orgoglio, Istinto, quadriga imperiale mi foste, quattro falerati corsieri, prima di trasfigurarvi in deità operose come le Stagioni, che fanno le danze lor circolari e compagne son delle Grazie e delle Parche in ricondurre Prosèrpina ai giorni sereni: quadriga che con freni difficili resse l'auriga, con rèdini tese nei pugni ove serpeggiava la fiamma del sangue sagliente pei fermi cùbiti ai bicìpiti duri: quadriga negli Atti più puri coniata come l'antica nel rovescio del tetradramma, segno di potenza ai futuri. Con quanto ardimento trapassammo i termini d'ogni saggezza e corremmo su l'orlo dei precipizii, lungh'essi gli alti argini delle fiumane vorticose, in vista del duplice abisso pel crinale aguzzo dei monti ove la vertigine afferra subitamente colui che crede al pericolo, e senza scampo lo sbatte sul sasso, gli spezza la nuca e la schiena! O ebrietà d'ogni vena, occhio gelido e chiaro nella faccia ardente! A levante, a ponente, per ovunque guardai quell'adamàntina cima del rischio, e sempre mi chiesi: «Ove debbo ancóra salire?». Ma il meridiano delirio nel Deserto l'oblìo d'ogni cima più perigliosa mi diede e d'ogni demenza più lucida e d'ogni divieto abbattuto. E l'alta quadriga e lo sforzo dei freni e la chiara audacia e la lunga esperienza dei mali e la gioia immite del rischio, tutta l'opra d'odio e d'amore dietro di me sparve, fu come sabbia ventosa, fu nulla. E l'anima mia dalla culla dell'eternità parve alzata in quell'ora, con l'innocenza dell'elemento, nova e pur compiuta da un'arte più fiera che qualsìa nostr'arte. E corsero a lei d'ogni parte moltitudini di bellezze. Ed ella taceva, profonda del suo più profondo silenzio. Ma parole erano dette in lei, alla gran luce del mezzodì, chiare parole che non pur nel già fatto vespero furon mormorate mai dal timor delle labbra né mai nel mistero notturno. E il suo coraggio taciturno le suggeva cupidamente come il fanciullo vorace che sugge gli acini gonfii di miel solare e inghiotte la pelle che il sol fece d'oro e trita i fiòcini e il raspo, ché tutto gli piace. E quel ch'è angoscia spavento miseria tra gli uomini, quello le si trasmutò pel Deserto in felicità senza nome. Felicità, non ti cercai; ché soltanto cercai me stesso, me stesso e la terra lontana. Ma nell'ora meridiana tu venisti a me d'improvviso, coi piedi scalzi e col viso velato d'un velo tessuto di quei fili che talora brillano impalpabili all'aere opere d'aeree fusa. Ed ecco tu torni! E la Musa t'ode mentre tu t'avvicini, se bene i tuoi piedi sien più delicati del guaime che nasce nei prati dopo la falce, più tenui delle prime foglie che spuntan nel salce, e più lievi sieno i tuoi passi che scorrer di talpa sotterra o di lucertola in sassi. Tu torni e tu tornerai, come l'aura intermessa che manca perché va più lungi, forse sopra un letto di musco, forse in una tremula stanza di capelvenere, forse dietro una cortina rosata di madreselva, a vestirsi di freschezza novella da recare a colui che l'ama. Il mio cor non ti chiama né ti attende. Tu repentina entri e mi guardi con occhi negri d'un negrore velluto come quel degli occhi onde occhiuto è il fior della fava nel mese di marzo tra pioggia e chiarìa. E tu m'assempri l'iddia parrasia, Carmenta dai lunghi riccioli, che portava ghirlande di foglie di fava. Tu sei visibile, tu hai la specie divina e selvaggia, il primo odore del campo di marzo, i denti di brina. Ti guardo; e la prima peluria della mandorla nova è men dolce della tua guancia. Ti guardo; e le tue dita chiuse son come lo spicanardo che chiuso è in mazzi pei forzieri colmi di nivei lenzuoli; e i petali dei giaggiuoli nel piegarsi non han la grazia de' tuoi capelli che piega su le tue tempie il favonio; e come il nido alcionio che palpita a fiore del sale col palpito lento e infinito di tutto il mare placato, e il tuo sen verginale mosso dal profondo tuo fiato. Di cose fugaci e segrete sei fatta, di silenzii e di murmuri, lieve come i frutti piumosi della viorna, come le lane del cardo argentino, o Felicità del cor prode. Ed ecco tu torni a me! T'ode la Musa; e il suo vólto divino nel volgersi ti rassomiglia, se non che tra le ciglia sembra ell'abbia il fiore del lino ma in vero è il colore marino che rimasto è per sempre nel suo sguardo amico dei flutti. Che ci porti? Quali bei frutti di paradiso insulare per invogliarci a largare novamente le vele umide ancor di tempesta? Che ascondi nella tua vesta? Noi abbiamo un canto novello perché tu l'oda, questo grande Inno che edificar ci piacque a simiglianza d'un tempio quadrato cui demmo per ogni lato cento argute colonne tutto aperto ai vènti salmastri. Ai raggi del sole e degli astri notturni l'artefice insonne operò con puro fervore, quasi fosse questa l'estrema opera di sé morituro, il monumento al suo spirto liberato e liberatore. Ei le materie sonore con ìmpari numero, oscuro e inimitabile, vinse. Le sette Pleiadi ardenti e le tre Càriti leni, le stelle dell'Orsa e le Parche, in rapido giro costrinse. Tre volte sette: la strofe qual triplicata sampogna di canne ineguali risuona con l'arte di Pan meriggiante. Io tagliai le canne lungh'essi i fiumi, sovr'esse le fonti frigide, nel loto febbroso delle paludi, sul ciglio dei botri, nelle ruine delle città venerande. Per giugnerle insieme, la cera separai dal nettare flavo con la mia bocca ingorda ma non sì che non rimanesse nella masticata sostanza l'odor del cefisio narcisso. Trassi il refe da una sagena logora per lungo esplorare i fondi pescosi, ancor lorda di scaglie, pregna di salso, esperta del tacito abisso. Il Dèmone dai mille nomi, il vagabondo Orgiaste, il Dio circolare, il Maestro delle visioni, l'Amico dei suoni, Colui che conduce la melodìa del Tutto, m'insegnò quest'arte nascosta. Ebbi acuto l'orecchio al rombo del ponto remoto, allo sciame lene strepente, al vado pulsare del sangue, ai movimenti segreti dell'anima vigile, a ogni dimanda, a ogni risposta. Il suono si fece acque foglie glebe rupi nuvole marmi, scroscio di doglienza, sorriso di pace, grido di brama, combattimento ordinato, danza revoluta, solenne coro, sicìnnide incomposta. Ah, che mai sanno gli schiavi faticosi intenti a mestare con lor mestole ed assi ne' vecchi truoghi di pietra consunta lor polte ed imbratti, come i ciechi servi di Scizia posti in buon ordine ai vasi della mungitura, or che sanno eglino della potenza e dello splendore dei suoni? O parole, mitica forza della stirpe fertile in opre e acerrima in armi, per entro alle fortune degli evi fermata in sillabe eterne; parole, corrotte da labbra pestilenti d'ulceri tetre, ammollite dalla balbuzie senile, o italici segni, rivendicarvi io seppi nella vostra vergine gloria! Io vi trassi con mano casta e robusta dal gorgo della prima origine, fresche come le corolle del mare contràttili che il novo lume indicibilmente colora. Io vi disposi nei modi dell'arte così che la vita vostra rivelò le segrete radici, le innùmere fibre che legano tutta la stirpe alla Natura sonora. Io feci apparire tra l'una e l'altra sillaba i mille vólti del Passato tremendi come sembianze di morti che un'anima sùbita inondi. Io dal vostro cozzo faville sprigionai, baleni d'amore che illuminarono l'ombra del Futuro pregna di mondi. Splendete e sonate, o parole, in questo Inno che è il vasto preludio del mio novo canto. Converse io v'ho novamente in sostanza umana, in viva polpa, in carne della mia carne, in vene di sangue e di pianto. Splendete come l'aurora su l'alpe nutrice di fiumi, onde scese al suo messaggero Euretria la Decima Musa. Risonate come le trombe del vento che avea seppellito laggiù nelle sabbie di fuoco l'ancìpite Sfinge camusa. Ma, prima che l'ora sia chiusa, io voglio al Maestro sublime alzare il saluto figliale; poi, colcato sopra la terra munifica, gli ultimi vóti volgere alla Madre immortale. XX. Enotrio, in memoria dell'ora santa che versò d'improvviso il fuoco pugnace de' tuoi spirti su la mia puerizia imbelle, alle tue prime cune io peregrinai santamente. E purificai le mie mani nelle acque alpestri che, irose contra macigni superbi più che marmi di simulacri, schiumeggiano presso la casa umile dove nascesti, sorelle della corrente Strophia dinanzi la porta del re d'inni Pindaro in Tebe. Duro è il Teumesso, e il suo sprone è come ginocchio proteso d'oplìte in resistere all'urto. Ma il tuo Monte Gàbberi è duro più del Teumesso, o mio padre; è come un elmetto d'eroe. Ha forma d'aulòpide, cara a Pallade e a Pericle, il monte, con la visiera e il nasale. E l'aspra virtude apuana sembra guatar per i fóri le navi sul mar di Liguria e noverare le forze dell'arsenà che travaglia il patrio ferro dell'Elba dietro il promontorio lunense. Certo nell'infanzia selvaggia ei t'apprese il crudo cipiglio onde tu guatasti i Bonturi e i Fucci e i ladruncoli immondi e l'altra genìa per le terre che il vicin tuo grande esulato stampò di suoi fiammei vestigi. Ma l'alpe di Mommio ha una vesta di glauco pallore, e la Culla sta con Montéggioli bianca sopra un dolce golfo d'ulivi. Sicché nel cor mi sovvenne della sacra Fòcide, e il Plisto nel lapidoso Motrone riveder mi parve, e spirare sentii per le alture e le valli il soffio dell'Ellade, il nume di Pan nei vocali canneti presente, che ancóra conduce pe' tempi il Ritorno eternale. Sostai nella selva palladia attonito, e il ciel tra le frondi era come il vergine sguardo dell'occhicèrula Atena. E quivi sedetti su l'erba a meditare, o Maestro, il fato del tuo nascimento. E tu eri meco placato nella tua divina vecchiezza; e la santità degli ulivi ti coronava d'immensa corona la fronte sublime: E io dissi: «Padre, il tuo grande aspetto è come la terra natale, tra l'Alpe di Luni ove il Buonarroto ancor rugge e il Tirreno Mar navigato dalle prue dei Mille in eterno. Prometèa materia è quest'alpe, insonne altitudine alata, carne delle statue chiare, forza delle colonne, gloria dei templi, inno senza favella, sculta rupe che s'infutura. L'aquila batte le penne sul vertice aguzzo, il torrente precipita al piè con fragore. Da tutte le vene profonde una volontà di bellezza eroica s'agita e soffre per sorgere in luce di forme. O padre, qui son le tue cune che Michelangelo seppe. Degna è quest'alpe che gli occhi tuoi di fanciul torvo guardata l'abbiano quando la dolce tua madre era ignara del tanto peso ch'ella avea sostenuto e non ascoltava il torrente sonoro annunciar le tue sorti, onde l'umil casa ancor trema. Degna è che tu la contempli nella tua sera solenne, o eroe che tanto pugnasti e tanta sementa spargesti nei campi di guerra fenduti dall'unco tuo vomere fatto con l'acciaio delle me scuri. Se un luogo v'è dove tu possa grandemente spandere il fiato del tuo coraggio ancor caldo dalla titanica impresa, ben questo è, che un dio formò quando tutti gli iddii erano ellèni. Qui forse tagliasti la prima canna pel sufolo vano e v'apristi i sette suoi fóri, tu che sai perché Pan facesse obliqui i calami eterni e diritti Pallade Atena. Or, se tu spiri il tuo vasto soffio nella bùccina forte che tra l'ignavia dei servi chiamò i guerrieri festanti alla suprema tua giostra, da tutti gli echi dei monti che il castigatore grifagno vide fiammeggiare nel cielo dell'ire sue conflagrato vermigli come se di foco usciti fossero e fece d'essi le meschite infernali da tutti gli echi dei monti sola ti sarà ripercossa voce di vittoria e di gloria». Questo dal cor m'ebbi fervore nel puro silenzio dell'alpe. E dal ferreo Gàbberi al Ronco roseo di grecchia, dai boschi di Mommio argentei di pace ai rugginosi gironi della Ceràgiola ardente, il tuo spirto ovunque diffuso era nell'etrusca Versilia; e conveniva con Dante in Val di Magra, con Guido a Sarzana, con l'Ariosto di là dalla Pania su l'aspra Turrite, più lungi. E per tua virtude risorsero quivi gli antichi iddii della patria, risorsero su le ruine delle città disparite i popoli spenti a cantare le divine origini e i culti degli avi e la forza dell'armi. E come Erme, come Vergilio, come il vicino tuo grande, eri mediator fra due mondi. Enotrio, ora e sempre laudato sii tu fra gli uomini in terra, perché veruna dell'alte opere che tu operasti eguaglia in altezza il tuo spirto, presente ovunque un servaggio si scuota, un'augusta memoria risorga, una giusta potenza si vendichi, un sogno lampeggi, un desìo s'armi e combatta. Enotrio, ora e sempre laudato sii tu fra la gente latina, perché tu superstite regio del gentil sangue, tu vate solare contra il nubiloso barbarico ingombro esaltasti le marmoree fronti degli Archi di Trionfo sacre all'Azzurro. Enotrio, ora e sempre laudato sii tu fra l'italica gente, e col lauro gianicolense col cipresso del Palatino col gattice d'Arno col salce lombardo con le viole liguri con le pestàne rose con le sicule palme, con tutte le nobili frondi e con tutti i fiori soavi dei campi espèrii ghirlande di gloria ti sieno tessute dalla giovinezza robusta, perché tu solo, mentre in ogni capo di strada era alzato letto fornicario o pur banco di baratto o pur falso altare ad officii di vituperio, tu sol ci serbasti nell'ampio tuo petto il fuoco di Roma per la terza vita d'Italia. O padre, verrà quel gran giorno che ci promise il tuo canto! Ad ogni alba gli Archi dell'Urbe sembrano vomire la notte accidiosa che rempie i loro vani come le bocche delle cave maschere inerti cui sospese il vecchio tragedo per vóto a Diòniso muto. Subitamente per entro i loro vani sembra che parli la magnificenza del giorno geniale, con la concisa forza delle inscritte parole più fiera su i cuori virili che getto di bronzo, più acre che punta di stilo rovente. E gli Archi, ecco, aspettano i nuovi trionfi, perché tu cantasti: «O Italia, o Roma! quel giorno tonerà il cielo sul Fòro». Tonerà il cielo sul Fòro liberato d'ogni congerie vile, d'ogni cenere e polve, restituito per sempre nella maestà de' suoi segni; e dal fonte pio di Giuturna scoppieranno le acque lustrali, e da ogni luogo arido vene di acque, e torrenti di vita nelle solitudini prone dell'Agro, nell'imperiale deserto, da tutte le tombe; e tutte le vèrtebre fosche degli acquedotti saranno Archi di Trionfo per mille Volontà erette su carri; e la croce del Galileo di rosse chiome gittata sarà nelle oscure favisse del Campidoglio, e finito nel mondo il suo regno per sempre. E quella sua vergine madre, vestita di cupa doglianza, solcata di lacrime il vólto, trafitta il cuore da spade immote con l'else deserte, si dissolverà come nube innanzi alla Dea ritornante dal florido mare onde nacque pura come il fiore salino portata dai zèfiri carchi di pòlline e di melodìa là dove l'antico suo figlio approdò coi fati di Roma e disse: «Qui è la patria». Tonerà il cielo sul Fòro. I grandi Pensieri e le grandi Opere saran coronati, deità novelle, nell'Urbe. Ed anche tu, vate solare, assunto sarai nel concilio dei numi indìgeti, o Enotrio. XXI. Ecco, il mio carme si chiude. Si placa l'ebrezza dei suoni, come la sonora dei flutti danza innumerabile quando è senza bava di vento il mare che lento s'imbianca e per tutto è placida albàsia. Ecco, venir veggo pel prato dell'erba il selvaggio silenzio, a me venire qual cauto satiro su piede caprino con occhi sì chiari che sembra lùcergli tra i cigli tremore qual di linfe tra colocasia. Ei fece pur ieri il suo flauto secondo la norma del dio tegèo, ma del pollice soffre per una scheggetta di canna che vi s'infisse... Ah, mi manda Teocrito questo silenzio! O forse la ninfa parrasia? È il solstizio d'oro su i campi esperii, è il solstizio d'estate. Si càstrino i bianchi vitelli. Si tóndano i greggi lanuti. Si mietano gli orzi e i legumi. S'apparecchi l'aia e, conciata con pula e con morchia, si rasi. Non più pe' forami de' fiari s'ode rimbombevole coro ma a pena sottil mormorio, segno che l'arnie son piene, colme son di nettare biondo. Noi le voteremo domani all'alba, in mondissimi vasi. Piedi due fa l'ombra dell'uomo nell'ora sesta. Oh lunghezza del dì per oprare e oziare! Fa ventidue nella prima ora e nell'undecima. Oh grandi opere tra l'albe e i meriggi, ozii tra i meriggi e gli occasi! Natura, mia Madre immortale che anche tu mi dài vita breve e immensi disegni mi poni nel cuore, tu nata la prima, di te medesima nata, a tutti comune ma sola incomunicabile, m'odi. Io sì grave di sapienza e di esperienza, di gioia e di dolore, di amore e di odio, se in te mi distenda, ritorno leggero ed ignaro, mi sento pieghevole e verde quasi arbusto privo di nodi. Eccomi su l'erba supino, col braccio sotto la testa, col vólto nell'ombra, coi piedi nel sole. Così mi riposo. Un sangue infantile m'inonda. Sento un fresco sonno venire. Tu proteggi il sonno dei prodi. Io vidi Zagrèo, che i Titani co' vólti coperti d'argilla entrati nell'antro segreto sgozzarono e poi crudelmente dilacerarono, io vidi su l'erba il rinato Zagrèo al soglio del bosco dormire. Non vidi mai sonno più dolce né più profondo, o Nutrice. La sua barba d'oro era fatta d'ali d'uno sciame splendente che gli pendea dalla bocca aperta qual d'arnie forame. In miel converso era il patire! Così, così dormir voglio in te che mi dài signoria a pacificar mia discordia, o Persuasiva. Ancor novo eccomi, ancóra immaturo e pieno d'occulte potenze, ancóra nel mio divenire. Ciò che per me fu compiuto, in verità, lieve cosa parmi al paragone dell'opra che dentro mi nasce e si nutre del misterioso licore. O mia Madre, in tutte le vene accresci il mio sangue e l'affina! E, s'io fossi in crudo supplizio ed ogni aumento di sangue mi fosse aumento di pena, io ti griderei: «Madre, Madre, moltiplica questo mio sangue doglioso, perché più mi ferva l'anima e mi sia più divina!». Sano mi facesti nel ventre della incorruttibile donna che mi portò. Eccomi sano su l'erba, con muscoli snelli cuore saldo e fronte capace. Più ragione v'è nel mio corpo valido che in ogni dottrina. Tu proteggi il sonno dei prodi. Ecco, al favor tuo m'abbandono. Odo il brulichìo del tuo lento guaime, il tuo fulvo pineto con gli aghi e le pine far vaghi accordi, e sonar come sistri il grande oro tuo frumentario. Ma odo anche un rombo lontano che dice: «Son qua, Ulissìde». Madre, Madre, fa che più forte e lieto io sia, quando la voce del dèspota ch'io ben conosco, che udii tante volte, la maschia voce nel mio cor solitario griderà: «Su, svegliati! È l'ora. Sorgi. Assai dormisti. L'amico divenuto sei della terra? Odi il vento. Su! Sciogli! Allarga! Riprendi il timone e la scotta; ché necessario è navigare, vivere non è necessario». LIBRO SECONDO ELETTRA Alle montagne Candide cime, grandi nel cielo forme solenni cui le nubi notturne stanno sommesse come la gregge al pastore, ed i Vegli inclinati su l'urne profonde dànno eterne parole, e fanno corona le stelle taciturne; o Montagne, terribili dòmi abitati da Dio, ove gli anacoreti d'un tempo immemorabile per sola virtù di dolore conobbero i segreti del Mondo e nelle rocce co' i cavi occhi lessero come in libri di profeti; Montagne madri, sacre scaturigini delle Forze pure, quando non era l'Uomo; donde gioiosa alla cieca tenebra sparsa balzò l'alba primiera e alle vergini valli guidando le forme dei fiumi scese la Primavera; donde scesero stirpi umane d'oltrepossente vita, giù per aperte vie più vaste de' fiumi, stampando titaniche orme nella pianura inerte che fumigava umida al sole purpureo, pregna delle future offerte; o Montagne immortali, non parla nel sacro silenzio delle cose ignorate il vostro Spirto? Ascolta l'anima mia se non giunga un messaggio. Deh fate, o Montagne immortali, che scenda dai vostri misteri cinto di luce il Vate! La speranza e la gioia fuggirono lungi dai cuori umani; e tutti i sogni della bellezza e tutti i sogni dell'arte felice vanirono; e stringe ogni cuore un'arida angoscia; e rugge d'intorno la guerra degli atroci bisogni. Chi finalmente, sceso a noi dalle alture inaccesse, ricondurrà la gioia? Chi su la vasta fronte avrà, mai veduta possanza, una luce di gioia? O tu dalle Montagne purissime, Spirito ignoto, scendi con la tua gioia! Dai culmini virginei che splendono sotto le stelle pie, dalle inesplorate sedi ove le sorgenti perenni cantano inconsce della superna estate, dalle vene incorrotte dei geli, dal sacro silenzio delle cose ignorate, da tutta la grandezza venerabile delle Montagne madri io t'evoco, o puro Spirito senza nome, che l'occhio dell'anima vede trascorrere l'oscuro abisso dove tanto umano dolore si torce e schiudere il Futuro! A Dante Oceano senza rive infinito d'intorno e oscuro ma lampeggiante, e con un silenzio sotto i terribili tuoni immoto ma vivente come il silenzio delle labbra che parleranno: tenebrore dei Tempi, profondità dell'affanno umano, assidua mutazione delle cose, ritorno perpetuo delle sorti: oceano senza rive tra due poli, tra il Bene e il Male, con le sue bave disperse dalla procella eternale, co' suoi abissi ingombri dalle spoglie dei popoli morti, era il Destino; e tu come una rupe, come un'isola montuosa, come una solitudine di pensiero e di potenza, come una taciturna mole di dolor meditabondo che ode e vede, sorgevi uno dal gorgo; e nell'ululo delle prede, nel sibilo dei nembi, nel rombo delle correnti, il tuo orecchio udiva quel silenzio e la sola Parola che doveva esser detta; e di sotto alla fronte percossa dalle schiume e dai vènti il tuo occhio insonne vedeva infiammarsi il mondo all'alta tua vendetta. Allora, nei baleni e nell'ombre, lo spirito dell'uomo stette davanti a te, ignudo, senza la sua carne, senza le sue ossa, disvelato davanti alla scienza del tuo dolore; e nel cavo delle tue mani, che sapean l'arme e il fiore, più mansuefatti degli augelli che la neve caccia verso gli asili umani, discesero i messaggi delle divine speranze, i poteri sconosciuti delle verità divine; e ti diede i suoi tuoni e i suoi raggi il tuo Dio, cui tu alzasti il canto che non ha fine. O nutrito in disparte su le cime del sacro monte, abbeverato solo nell'albe al segreto fonte delle cose immortali, Eroe primo di nostro sangue rinnovellante; oceanica mente ove dieci secoli atroci, carichi d'oro d'ombra di strage di fede e di paura metton lor foci silenziosamente; anima vetusta e nuova, instrutta e ignara, memore e indovina, ove si serra tutto il pensier dei Saggi e palpitano il Fuoco l'Aria l'Acqua e la Terra; o Risvegliatore, o Purificatore, o Intercessore per la vita e per la morte, o tu che cresci il vigore della stirpe come il pane nato dal nostro sudore, noi t'invochiamo; o tu che col tuo canto disveli agli uomini i cammini invisibili e discopri i vólti nascosti dei destini, noi ti preghiamo; o tu che risusciti l'antica virtù delle contrade e tempri il medesimo ferro per la bontà delle spade e per la gioia delle falci nelle profonde biade, noi ti attendiamo; perocché tu sii pur sempre atteso in prodigi, come il Figlio del tuo Dio, dai cuori che nei battiti del tuo canto appresero a sperare oltre il volo delle fortune, o profeta in esiglio, e pur sempre su le nuove tombe e su le nuove cune, là dove un'opra si chiuse e là dove s'apre un germe, suoni il tuo nome santo, e il tuo nome pei forti sia come lo squillo degli oricalchi, e solo il nomar del tuo nome, come il turbine agita i lembi d'un gran vessillo, scuota nei suoi mari e nei suoi valchi l'Italia inerme. Dove sono i pontefici e gli imperatori? Splendenti erano nella specie dell'oro, e stampavano con piedi obliqui le vestigia sanguigne, vestiti dell'antica frode, e i lor vestimenti odoravano. Rotti come i sermenti addi, perduti come i fuscelli nella tempesta, diffusi come crassa cenere ai vènti. E pallido il postremo alza le mani verso le porte dei cieli e attende un segno, e chiama, e nulla appare fuor che la morte. Ma il cuore della nazione è come la forza delle sorgenti meraviglioso; e tu rimani alzato nel conspetto della nazione con la tua parola eterna nella tua bocca respirante, col tuo potere eterno nel tuo pugno vivo; e la tua stagione sta su la nostra terra senza mutarsi; e la tua virtù è dentro le radici di nostra vita come il sale è nel mare, come la fecondità è nella nostra terra; e nulla di te perisce nei tempi ma la tua passione, ma il tuo furore, ma il tuo orgoglio e la tua fede e la tua pietà e la tua estasi e tutta la tua grandezza dura nei tempi come dura la nostra terra. Tu la vedesti col tuo profetico onniveggente occhio infiammato l'Italia bella, come una figura emersa dall'interno abisso del tuo dolore, creata dalla tua stessa fiamma, con i suoi monti, con i suoi piani, con i suoi fiumi, con i suoi laghi, con i suoi golfi, con le sue città ruggenti d'ire, l'Italia bella; e la tua rampogna la rifece sacra, la tua preghiera fece risplendere di purità le sue membra schiave; sì che sempre gli uomini vedran su lei bella il duplice splendore del cielo e del tuo verbo. Sol nel tuo verbo è per noi la luce, o Rivelatore, sol nel tuo canto è per noi la forza, o Liberatore sol nella tua melodia è la molt'anni lagrimata pace, o Consolatore, quando la cruda pena il veemente sdegno il duro spregio si fanno eguali alle più dolci cose della foresta primaverile e la mano che torturò la carne immonda, che trattò la ghiaccia e il fuoco, la pece e il piombo, gli sterpi e i serpi, il fango e il sangue, tocca segrete corde e nel silenzio fa il divin concento ch'ella può sola. Cammineremo noi ne' tuoi cammini? O imperiale duce, o signore dei culmini, o insonne fabbro d'ale, per la notte che si profonda e per l'alba che ancor non sale noi t'invochiamo! Pel rancore dei forti che patiscono la vergogna, pel tremito delle vergini forze che opprime la menzogna, noi ti preghiamo! Per la quercia e per il lauro e per il ferro lampeggiante, per la vittoria e per la gloria e per la gioia e per le tue sante speranze, o tu che odi e vedi e sai, custode alto dei fari, o Dante, noi ti attendiamo! Al Re Giovine Nella gran bandiera che agitarono i vènti marini a poppa della nave guerriera tutt'armata di ferro gigante contra i ferrei destini, nella gran bandiera di battaglia e di tempesta avvolgi il tuo padre esangue, coprigli la bianca testa, consacragli il petto forte con quella croce raggiante, o tu, della purpurea sorte erede, che navigavi il Mare, Giovine, che assunto dalla Morte fosti re nel Mare! Avvolgi il tuo padre nell'insegna che attese la gloria sopra le acque così lungamente; componilo sul carro scemato del bronzo possente; dàgli a scorta mute squadre che in arme sognino la vittoria pel sangue non vendicato sul deserto ardente; nella luce dell'Urbe fatale, nel silenzio delle scorte e del tuo dolor regale, accompagna il tuo padre clemente, o tu che chiamato dalla Morte venisti dal Mare. Accompagna il padre alla tomba ove già l'avo dorme, nel tempio sublime che alzò su colonne di granito la forza di Roma. La romba degli inni austeri come un turbine all'ultime cime rapisca i tuoi pensieri nuovi, oltre la tomba, oltre l'altare. E i grandi pensieri ti facciano insonne; e Roma e la sua Fortuna dalla chioma terribile ti facciano insonne, Giovine, che assunto dalla Morte fosti re nel Mare. Tu non dormirai se il tuo cuore è degno che lo morda l'avvoltore violento; tu non dormirai se de' tuoi nervi indurati attorca tu la corda per l'arco che t'è innanzi lento; tu non dormirai se tu oda la voce dell'Urbe, sepolcrale e marina, non voce di volubili turbe ma d'immutabili fati, ma dell'anima eterna latina, o tu che chiamato dalla Morte venisti dal Mare. Tu non dormirai se degni sieno i tuoi occhi di contemplar l'orizzonte che il Quirinal discopre al dominatore; tu non dormirai se le tue mani sien pronte alle lotte ed all'opre, alla spada ed al martello, a foggiar per la tua fronte un'altra corona di ferro col ferro d'un altro Salvatore sopra l'incudine d'un altare, Giovine, che assunto dalla Morte fosti re nel Mare. Non dormimmo noi nella notte solenne quando passò per l'ombra d'Italia il funereo convoglio che portava il buono infranto cuore. Non dormimmo. Ascoltammo gli eroi favellare nella notte ingombra. Ascoltammo il fragore dei carri nel vento d'estate. Tremammo. Più del cordoglio poterono le speranze alate. Per l'ombra era un fremito di penne. Lampeggiavano i monti e le coste. Gravido di vita e di morte anelava il Mare. Tremammo di forza chiusa e di volontà raccolta; fummo ebri d'un sogno virile. Sentimmo nei polsi robusti ardere la febbre civile. Sentimmo nel suolo profondo rivivere gli iddii vetusti. Ebri di presagi augusti, vedemmo ancóra sul mondo splendere il latin sangue gentile. Ascoltammo gli indigeti eroi favellare nella notte ingombra. Seguimmo nell'ombra infinita il volo della Morte lungo il patrio Mare. E dicemmo: «Passa lungo il patrio Mare, Maestà della Morte! Alza gli spirti; fa palpitare il popolo che veglia nella notte balenante. Genova ti saluta sul suo golfo magnifica e forte, coronata di baleni. La Spezia ti saluta, in vista dell'Alpe, austera e forte, coronata di baleni. Salutano il tuo passare le due madri delle navi, o Morte, veglianti sul Mare. Più grande saluto avesti tu mai? Ma, giunta alla mèta, tu avrai il saluto del Sole e di Roma. E il nuovo destino, segnato dal sangue regio, avrà nella nuova luce principio solenne». Per l'ombra era un fremito di penne. Lampeggiavano i monti e le coste. E dicemmo: «O Italia, o Italia, non ti vedremo noi su l'alba, per questo buon sangue che ti giova, per la divina prova di questa sacrificale morte, rifiorir nel Mare?». E dicemmo: «O Italia, Italia sonnolente, alfine ti svegli tu dal tuo sonno vile? Ahi sì lungamente sotto il sole giaciuta con l'obbrobrio senile, tra le mani dei vegli scaltri che t'han polluta che di te han fatto strame docile all'ignavia loro e d'ogni tuo nobile alloro una verga per batter la fame, non senti l'odor della morte? Oh nuova sul Mare!». Così noi dicemmo, questo sognammo ascoltando il fragore dei carri nel vento d'estate per la funebre notte recanti alla tomba il re spento, al silenzio di Roma, alla pace. Questo pregò sotto il firmamento ingombro la nostra ansia seguace. Or chi sarà l'eroe che attendiamo, il pastor della stirpe ferace? Tendi l'arco, accendi la face, o tu che chiamato dalla Morte venisti dal Mare, Giovine, che assunto dalla Morte fosti re nel Mare! T'elesse il Destino all'alta impresa combattuta. Guai se tu gli manchi! È perigliosa l'ora. Ma tu sai che il periglio è la cintura pe' fianchi dell'eroe. Dal sangue vermiglio fa che nasca un'aurora! La fortuna d'Italia prese l'ali sul campo d'una battaglia perduta. Ricòrdati d'un altro padre partito per un più triste esiglio, Giovine, che assunto dalla Morte fosti re nel Mare. T'elesse il Destino. Ricòrdati del figliuol vinto che cavalcò quel giorno tra la Sesia e il Ticino verso il bianco maresciallo. Rifiorì l'itala primavera tra i dolci fiumi; e il re sardo scese dal suo cavallo per segnare il duro patto. Tutto fu nemico intorno. Egli disse al suo cuore gagliardo: «Sopporta, o cuore, e spera!». Ricòrdati di quel ritorno tu che chiamato dalla Morte venisti dal Mare. Egli volle Roma, egli ebbe il Campidoglio, egli ha pace nel Tempio romano. Che vorrai tu sul tuo soglio? Quale altura è il tuo segno? Miri tu lontano? È largo quanto il tuo orgoglio il gesto della tua mano? Sai tu come sia bello il tuo regno? Conosci tu le sue sorgenti innumerevoli e la forza nuova o antica delle sue correnti? Ami tu il suo divino mare, Giovine, che assunto dalla Morte fosti re nel Mare? T'elesse il Destino all'alta impresa audace. Tendi l'arco, accendi la face, colpisci, illumina, eroe latino! Venera il lauro, esalta il forte! Apri alla nostra virtù le porte dei dominii futuri! Ché, se il danno e la vergogna duri, quando l'ora sia venuta, tra i ribelli vedrai da vicino anche colui che oggi ti saluta, o tu che chiamato dalla Morte venisti dal Mare, Giovine, che assunto dalla Morte fosti re nel Mare. Alla memoria di Narciso e di Pilade Bronzetti Canta, o Verità redimita di quercia, canta oggi gli eroi al genio d'Italia che t'ode! Al popolo ardente di vita novella tu canta oggi i suoi leoni, il suo sangue più prode che corse la gleba feconda! Tu fa che fiammeggi nell'ode ciascuna ferita e lungi la fiamma s'effonda per tutte le prode, per tutte le cime, per tutta la patria sublime che freme di gloria sepolta! Canta, o Verità redimita di quercia, canta oggi gli eroi al genio d'Italia che ascolta! Ma ascolta dall'ombra dei monti Trento, l'indomata figlia cui la corda non spegne la voce iterata che chiama che chiama la madre nell'orror notturno; e grida: «Ricorda tu prima dell'altre glorie la mia gloria oggi che su l'ardue fronti dell'Alpe volò la Vittoria e che l'Adige taciturno n'ebbe rinnovata promessa! Ricorda Castel di Morone, Tre Ponti con l'Aquila che dal Tifata piombò sul Volturno». Canta dunque, pria che si parta la nova speranza da noi e si spenga il sùbito ardore, canta dunque il fior degli eroi, il prode dei prodi che dorme leggero sul cuore di Brescia fedele, e l'emulo del re di Sparta con i suoi trecento, con i suoi trecento custodi che la dolce Campania tiene; canta oggi la gloria di Trento per lei consolare in catene del vano amor del van dolore, oggi che da mano servile la sua pura corona è sparta come fronda vile. Come vil lordura dal tempio di Roma lo sgherro spazza quella corona pura che tesseano, ideal tesoro, (ancor dunque ai monti si sogna?) fedeltà più dura del ferro, speranza più ricca dell'oro. Giovi ella a crescere lo strame su cui la frode e la paura giaccion come buoi stracchi ruminando menzogna. Giovi ella a crescere il letame che impingua l'annosa vergogna. Ma tu non piangere; tu sogna, anima chiusa, ancor nei tuoi monti. È alto il sole sul Fòro. Cantiamo gli eroi! Non piangere. Aspetta nei monti; poi che non indarno nel libero azzurro sul Gianicolo, alto a cavallo, sta Colui che udisti a Tiarno per te su la via sfolgorata tonare col bronzo. Ma sogna. Come il bianco alburno celandosi sotto la scorza si fa vigor novo del tronco, nell'anima tua sempre alzata il sogno convertasi in forza. Non piangere. Sogna nei monti. Cantiamo la gesta obliata, Castel di Morone, Tre Ponti con l'Aquila che dal Tirata piombò sul Volturno. Cantiamo la vetta ridente su l'antico fiume esperto di strage, la vetta ridente di giovine sangue. Oh tumulo grande che gioiosamente di sé fece l'alta coorte! Ciascun combattente su la sua terribile ebrezza col sole e con l'aria sentiva il guardar leonino del Duce, dell'Onnipresente. Oh vendemmia di giovinezza più forte che il vino! Porpora d'autunno, porpora di morte su la dolce di uve Campania! Non piangere, anima di Trento, la tua calpestata corona. Dimentica il male, se puoi. Non fare lamento. La tua madre non t'abbandona: ha il cuore profondo. Passano i Bonturi e il seguace lor gregge immondo. Durano gli eroi eterni nei fasti d'Italia, e quel Dante che alzasti nel bronzo, al conspetto dell'Alpe dura solo più che le rupi, gran Mésso dei fati venturi signore del Canto sul mondo. Passano i Bonturi e il seguace lor gregge immondo. Non fare lamento. Perdona pel lungo martirio di Dante, perdona pel chiuso dolore di Quegli che disse la grande parola. Sovvienti? Ei ti vide perduta, ei vide tanto sangue invano sparso, tanto fiore di libere vite invano reciso, Trieste come te perduta, come te perduta l'Istria, alla mercé del nemico le porte d'Italia, ottenuta Venezia con man di mendico, laggiù laggiù sola su l'Adria la macchia di Lissa, l'infamia, tutta l'onta; e disse: «Obbedisco». Ah ti sovvenga! Ti sovvenga ancóra di Lui doloroso, col piombo nell'ossa dolenti, combusto dal fuoco di cento battaglie e pensoso già del vasto rogo che alzato ei volea sul selvaggio granito, al conspetto del mare, per dar la sua cenere ai vènti del suo mar selvaggio. Ei disse: «Ah ch'io venga ch'io venga anche all'ultima guerra! Legatemi sul mio cavallo. Ch'io veda brillare le stelle su la Verruca, oda al Quarnaro cantare i marinai d'Italia! Legatemi sul mio cavallo». Verrà, verrà sul suo cavallo, con giovine chioma. Torrà il nero e giallo vessillo dal suo sacro monte che serba il vestigio di Roma. Ridere su l'antica fronte vedrà le sue vergini stelle; più oltre, più oltre verso le marine sorelle, anche udrà anche udrà nel Quarnaro i canti d'Italia sul vento. Non piangere, anima di Trento, la tua calpestata corona. Ribeviti il tuo pianto amaro. Dimentica il male, se puoi. Non fare lamento. Perdona. Prepara in silenzio gli eroi. Per i marinai d'Italia morti in Cina Chi ti vide col suo cuore puro, o Italia liberata, detersa dal sangue e dal pianto, dalla polve e dal sudore, dopo l'alta gesta, alzata nel mare nel sole nel canto? Chi ti vide, dopo l'alta gesta, vivere nel mare col grande tuo corpo fecondo? Chi sentì nella tua calda giovinezza palpitare l'antica speranza del mondo? Forse i figli, forse i figli tuoi migliori, i marinai su l'acque remote, nei porti strani, gli umili tuoi figli che non sai né rivedrai, ti videro e caddero morti. Ah ti videro più bella essi, i tuoi semplici eroi, negli ultimi palpiti sacri! Canterò oggi, per quella tua bellezza, se tu m'odi, il pianto di tutte le madri. Ecco, una madre nell'antica Ichnusa dei pastori, nell'isola diserta che stampa sul Tirreno dalla Nurra al Campidano sua durabile orma, ecco, la madre che filò la nera e bianca lana, ecco, la madre a sera vien su la soglia con la nuora pregna, quando le greggi tornan di pastura. Sta su la soglia con la nuora, e conta le stelle prime nell'aria serena, nell'aria dolce ove il colmigno fuma; e sta con nel suo cor la sua preghiera; e guarda sopra i gioghi di Gallura la falce della luna che tramonta. E guarda verso il mare la Caprera ove dorme il Leone in sepoltura con un respiro che solleva l'onda; e guarda l'ombra della Maddalena, sul dolce mare un'ombra di guerriera che tutta armata a guerreggiare è pronta. E prega, ignara della sua sciagura, e prega e dice: «Chi me l'assicura? Tu, Vergine Maria, Vergine pura, tu guardalo dal male e tu l'aiuta! T'accenderò quant'io potrò di cera, quant'io potrò d'oliva, se sventura non gli accade, se salvo mi ritorna. Guardalo, Vergine, alla madre sua, guardalo alla sua madre e alla sua donna. Dov'è, dov'è? Che fa egli a quest'ora, il buono figliuol mio, mentre che annotta? Lo rivedemmo ch'era primavera. La rondine non era anco venuta. Giunse improvviso, giunsemi alla porta gridando: «O madre, o madre, apri la porta!». Eri al telaio sotto la lucerna...». A lungo a lungo ella così racconta al cuore che ben sa, che ben ricorda, che ben ricorda ch'era primavera. Così racconta la madre canuta; e guarda sopra i gioghi di Gallura la falce della luna che tramonta; e guarda verso il mare la Caprera ove dorme il Leone in sepoltura con un respiro che solleva l'onda. E un'altra madre viene su la soglia d'un'altra casa e guarda un'altra altura e un altro mare, il mar di Siracusa e l'Etna grande che nell'ombra fuma; e prega in cuore e dice: «O creatura del sangue mio, quando ti rivedrò?». Odorano le selve alla riviera con frutta d'oro; cantano alla luna le ciurme prima ch'ella si nasconda: trema la rete, palpita la vela. E un'altra madre viene su la soglia d'un'altra casa, là nella remota Italia, là sul Garda ove Peschiera sorge custode nella sua cintura forte, ove il Mincio memore saluta i campi di battaglia. E un'altra ancóra prega in silenzio e guarda la pianura tra l'Oglio e l'Adda ove la primavera fu cerula di molto lino. E ancóra un'altra prega dalla pampinosa rama dei Monti d'Alba, dalla volsca Velletri che disotto le sue mura vide un mattino tempestar fra l'onda dei cavalli il Leone ebro di Roma. E un'altra ancóra sta su la picena spiaggia, di là dal Tronto, e si ricorda del bel naviglio che la prima volta portò il fanciullo a Spàlato, a Gravosa, a Sebenico, alla latina sponda cui San Marco legò la sua galera e prega in cuore e dice: «O creatura delle mie pene, non ti rivedrò?». Sì penano le madri in su la sera al novilunio, alla dolce frescura. E non, di qua dal Tronto, nella terra d'Abruzzi, nella terra ove riposano i miei maggiori con la rugginosa àncora di speranza e di fortuna, non prega qualche madre per ventura guardando su la placida Maiella tramontare la falce della luna? Guarda greggi passare ad una ad una lungh'esso il lito andando alla pianura dell'Apulia, ai lor paschi, dall'altura del Sannio che laggiù si fa nevosa; migrar le greggi per la via saputa dai primi avi la madre guarda, muta presso la casa ove restò la cuna antica per la nova genitura, la madre veneranda cui virtù di nostra prima gente in grembo dura; e prega in cuore e dice: «O creatura, creatura, che fai mentre che annotta? Se sei grondante, ora chi ti rasciuga? Forse hai tu sete, e la vigna ha tanta uva! Figlio, che fai? Pensi alla madre tua? Pensi alla madre tua che non t'aiuta?». E guarda pel sentiere che s'oscura, e il cor le stringe sùbita paura. Tramontata è la falce della luna; nell'ombra intorno altro non v'è che luca se non il ferro pronto all'aratura. È il mésso quei che per l'erta s'indugia? Gran silenzio negli alberi s'aduna. La madre ascolta, non respira più. S'ode il campano in lontananza ancóra, della greggia che valica la duna; s'ode il passo per l'erta che s'oscura. La madre attende, non palpita più. Morti sono i figli, morti sono i figli, morti sono i figli alla guerra lontana. Pochi erano contro molti. Essi avean pel suolo ignoto lasciata la nave lontana. Morti come sopra il ponte della nave, come sanno marinai dovunque morire. Non il fiume, non il monte, non il piano, essi non hanno veduto la casa e il confine. Veduto non han Gallura né il Mar Ligure né l'Adria morendo su l'orride porte, ma veduto han la figura grande e sola della Patria risplendere sopra la morte. Veduto non hanno i Monti d'Alba o l'Etna, non Peschiera né il Garda, ma l'unica Italia. Morti sono i figli, morti sono intorno alla bandiera d'Italia d'Italia d'Italia. A Roma Aurea Roma, sia testimone dal ciel di settembre la faccia del Sole che mai cosa più grande di te visitò nell'alterno Orbe; sieno testimoni dal confino dell'Agro il Soratte santo apollineo con le sue corone di nubi e il Cimino proclive che dal Tevere al Mare tende le sue cerulee braccia; e testimoni sieno i Monti d'Alba pampinei ridenti al cielo dai profondi occhi dei laghi; e il divino Agro che tace, co' suoi armenti irti, co' suoi pastori biformi dall'aspetto umano ed equino, l'erbifero sepolcro dei regni sia oggi testimone al canto che memora il detto sibillino. «Manca la Madre» disse il carme euboico al sacerdote. O Roma, guerriera senz'arme, ti manca l'universa Idea che sorga, su l'ombre oblique, su le forme vuote di alito, su le cloache ingombre di uomini, generatrice. Manca la Grande Madre. Ti manca il vergine eroe, il nepote ultimo del magnanimo Enea, che con la sua man pura la tragga vivente alle tue mura auguste e instituisca la Festa nova e inizii la nova Epopea. L'ancile di Marte è scodella al mezzano; la meretrice è addetta al fuoco di Vesta; del tuo Campidoglio non resta, o Roma, che la Rupe Tarpea. Ma, sotto il ciel settembrale che riversa il suo calice d'oro ampio dal Celio al Viminale dal Gianicolo al Vaticano dall'Anfiteatro al Fòro, nel dì fausto dell'alta conquista, cantiamo l'avvento fatale, su la torbida acqua corrotta chiamando l'imagine prisca. Contro l'un concistoro che ciancia baratta confisca e l'altro che munge il tesoro di Pietro per l'anima ghiotta, alziamo la statua ideale. Sorse fervido il popolo quando intese il responso canoro: «Manca la Madre. O Romano, che tu chieda la Madre io comando. Com'ella venga, addotta sia da una pura mano». Venne la Magna Madre su la nave alla foce del fiume biondo; e nel limo ristette, immota, incrollabile come una rupe. I cavalieri, il senato, la plebe di Roma, le vergini del fuoco santo accorsero in turba alla foce del fiume incontro alla veneranda Ospite. Ed era ne' cuori letizia. Ma stava nel vado limoso la carena immota simile a una rupestre isola. Legarono all'alta prora una fune gli uomini forti e fecero gran forza di braccia, e con voci iterate aiutavano eglino la vana opera, a trarre la nave dipinta nel Tevere biondo. Ma sedeva la Magna Madre incrollabile sopra la tolda, con la sua corona di mura su le chiome che fingono i flutti del ponto e i solchi dell'agro, con le sue mani invitte benefiche di beni infiniti prone su le ginocchia più salde che le roveri annose nei monti; al conspetto del popolo grande sedeva la Madre dell'aurea fecondità, la nutrice dei mortali e degli immortali, la donatrice delle semenze ineffabili, la dea che moltiplica il sangue animoso, edifica le chiare città, conduce i pensieri i timoni gli aratri, errante sonante in circoli immensi. E la forza degli uomini forti s'accrebbe di tutta la plebe romana, s'accrebbe di tutti i cavalieri romani. E tutti le braccia davano alla fune ritorta e iteravan le voci al travaglio, ma indarno; ché stava immota nel vado la dipinta carena e il simulacro sublime splendeva sopra la tolda nell'aer salino tacente. Attonita interruppe il conato la moltitudine e tacque pavida innanzi al prodigio con supplice cuore. S'udiva fluire il Tevere biondo, addurre all'imperio del Mare la maestà di Roma. Tra il popolo supplice, allora s'avanzò Claudia Quinta vestale. Offendeva lei casta il sospetto del volgo, iniquo rumore. S'avanzò Claudia Quinta e con mani pure attinse l'acqua del fiume; tre volte il capo s'asperse, tre volte levò al cielo le palme; prona nel suo crine giacente, invocò a gran voce la dea. Quindi, alzata, legò il suo cinto alla prora e con lene fatica trasse la Magna Madre nel fiume, trasse la Madre dell'eterna fecondità verso l'arce eterna dell'Urbe. Tonarono i petti romani; sanguinò la bianca giovenca dinanzi alla poppa coronata. Sedente sul plaustro de' buoi la Turrigera, addotta da virtù di vergine pura, entrò per la porta Capena. Così, o Roma nostra, negli anni verrà non dal Dindimo ululante, non pietra esculta in nave dipinta pel Mediterraneo Mare, verrà dagli oceani lontani ove la vita allaccia la vita d'isola in isola per correnti misteriose di voleri umani e di sogni umani che cercano le novelle forme, verrà dai continenti immensi ove ancóra dorme la ricchezza nei misteri delle montagne e delle lande promessa agli insonni messaggeri, verrà dai confini del mondo con l'impeto degli elementi e con l'ordine dei pensieri, verrà dall'alto e dal profondo la Potenza in cui sola tu speri. Così, o Roma nostra, nei tempi un vergine eroe di tua stirpe così la trarrà alle tue mura. Non carena immobile in sirte limosa, non simulacro già venerato in templi estranei trarrà la man pura, ma la Potenza umana, ma il sacro spirito nato dal cuore dei popoli in pace ed in guerra, ma la gloria della Terra nel divino fervore della volontà che la scopre e la trasfigura per innumerevoli opre di luce e d'ombra, d'amore e d'odio, di vita e di morte, ma la bellezza della sorte umana, dell'uomo che cerca il dio nella sua creatura. Però che in te come in un'impronta indistruttibile, debba la Potenza dell'Uomo assumere forma ed effigie, instituita nel Campidoglio e nel Fòro, di contro all'Onta dell'Uomo, su le vestigie della forza e dell'orgoglio che chiesero la Grande Madre alle montagne frigie per lei custodir nelle tue sacre mura che sole credevi tu degne di chiudere l'altrice universa quantunque sì brevi. O Roma, o Roma, in te sola, nel cerchio delle tue sette cime, le discordi miriadi umane troveranno ancor l'ampia e sublime unità. Darai tu il novo pane dicendo la nova parola. Quel che gli uomini avranno pensato sognato operato sofferto goduto nell'immensa Terra, tanti pensieri, tanti sogni, tante opere, tanti dolori, tante gioie, ed ogni diritto riconosciuto ed ogni mistero discoperto ed ogni libro aperto nel giro dell'immensa Terra, tutte le speranze umane volanti da porti sonori, tutte le bellezze umane cantanti per boschi d'allori, vestiranno le forme sovrane, appariranno alla luce eterna, o Roma, o Roma, in te sola. Ai liberi ai forti materna, o dea, spezzerai tu il novo pane dicendo la nova parola. Aurea Roma, o donna dei regni, sien testimoni all'augurale Ode che canta oggi il tuo destino le cose che portano i segni: la nube che sul Palatino sanguigna risplende come porpora imperiale tra gli ardui cipressi; il divino silenzio del vespero che accende i Diòscuri domitori di cavalli sul Quirinale; l'ombra spirante che occupa i Fòri gli Archi le Terme taciturna; la fonte di Giuturna che dalla ruina risale; la tavola delle Leggi sacre che dalla polve riappare; e la mia speranza, o Madre, e il fior del mio sangue latino, e il fuoco del mio focolare. A uno dei mille O vegliardo, consunto come l'usto dell'àncora che troppe volte morse con sue marre i tenaci fondi, pregno del sale amaro, splende la gloria sul tuo vólto adusto quando nelle fortune indaghi l'Orse e t'argomenti di campar tuo legno cercando il faro? Quando torni dall'isola dei Sardi carico, e taciturno al tuo timone stai rugumando il tuo masticaticcio, tese le scotte, a tratti co' tuoi grigi occhi non guardi per l'ombra se tu scorga il tuo Leone fiammeggiare laggiù sul sasso arsiccio contro la notte? E quando poi governi a prender porto, maggio illustrando la città dei Doria, non cerchi tu quella che a Quarto eresse magra colonna la modestia del popolo risorto, per figurarvi in sommo la Vittoria che sul gran cor parea ti sorridesse come tua donna? Tu non rispondi. Solo ascolti i vènti e disputi talor con la tempesta. Hai crudo e breve il motto a dir tua noia, e più non dici. Tua vita va tra due divini eventi, tra bonaccia e fortuna; e quella gesta la scrisser già su le tue vecchie cuoia le cicatrici. Ond'io ti priego che mi sii benigno, o tu che troppo sai d'amaro sale, se consecrarti ardii questi miei carmi tumultuanti. In van chiesi al tuo mar che nel macigno, nell'invitto macigno sepolcrale, volesse per l'eternità foggiarmi strofe giganti. Ma tu vi sentirai correre, sopra al rosso bulicame, odor salmastro; romoreggiar v'udrai l'onda nemica come il frangente; vi rivedrai quale t'apparve all'opra Colui che fu buon calafato e mastro d'ascia, d'ogni arte artiere, dell'antica tirrenia gente. Io ne cercai l'imagine sicura entro gli occhi tuoi tristi, in cor tremando. Eri presso il cordaio per rinnovare tue gomenette; seguivi l'arte della torcitura, il crocile, la pigna, il naspo; quando su le tue labbra le parole amare lessi non dette. «Il torticcio dell'àncora s'è rotto. Rinnovarlo non giova. Orvia, tralascia! Per flagelli e capestri, o cordaio, l'acre canape torci. La terza Italia si distende sotto ogni bertone come una bagascia. E Roma all'ombra delle querci sacre pascola i porci.» La notte di Caprera I. Donato il regno al sopraggiunto re, il Dittatore silenziosamente sul far dell'alba con suoi pochi sen viene alla marina dove la nave attende. Ei si ricorda nell'alba di novembre: quando salpò da Quarto era la sera, sera di maggio con ridere di stelle. Non vede ei stelle ma l'alta accesa gesta dietro di sé nella stagion sì breve. Ei seco porta un sacco di semente. Quella è la nave che all'acque di Sardegna già navigò dal Faro in gran segreto per il soccorso, innanzi ch'ei prendesse Reggio ed i monti, innanzi che Soveria fossegli resa, quando le nuove schiere precipitò nella Calabria estrema e duce fu alle armi, alle carene fu calafato, fu mastro d'ascia, artiere d'ogni arte, pronto ei sempre alla diversa necessità con vólto sorridente. Donato il regno al sopraggiunto re, ora sen torna al sasso di Caprera il Dittatore. Fece quel che poté. E seco porta un sacco di semente. II. Ancóra dorme la città che ululò d'amor selvaggio all'apparito Eroe nel bel settembre. Emmanuele dorme là nella reggia ove tanto tremò l'erede esangue di Ferdinando. Implora Dominedio Francesco di Borbone chiuso in Gaeta con la sua fulva donna, con l'aquiletta bavara che rampogna. «Calatafimi! Marsala!» Chiama a nome i suoi cavalli di guerra il Dittatore, novo nell'alba, gli arabi suoi sul ponte recalcitranti al vento che riscuote il Golfo. Palpa le lor criniere ondose che sanno ancor d'arsiccio, le lor froge palpa, e le labbra frenate onde fioccò la spuma come neve su i moribondi. Ed ei li pensa lungi, franchi del morso, per le ferrigne rupi; e dice: «Anche a voi la libertà!». Quella divina voce odono i due cavalli che hanno i nomi delle Vittorie e lui guatan con occhi di fanciul!i, ecco, obbedienti. Sorge l'aurora. È pronta la nave. Il Dittatore delle tempeste grida: «Salpa!». L'alta onda del dominato Oceano gli torna nella memoria e nella voce. Scioglie l'ultimo capo dell'ormeggio allor con atto che par santo al devoto stuolo. L'anima già per l'acque si diffonde simile al dì. Ripete ei la parola che consolò i suoi laceri prodi: «A Roma, a Roma ci rivedremo! A Roma!». Bello non è come il raggiante vólto del donator di regni il novo Sole. III. Ed or sen va il Ligure pel suo Tirreno. Guarda vigile, dalla prua che non ha rostro, se non vegga la rupe brulla apparir tra i nugoli; o seduto resta sul sacco delle semente a lungo, tutto pensoso della seminatura nei magri solchi e delle sue lattughe anco e de' suoi magliuoli e de' suoi frutti. Novera già col pensier nel suo chiuso la scarsa greggia, e le lane valuta, i negri velli ed i candidi, cui non mai segnò la robbia; alla futura prole sorride, e allarga la pastura sopra il macigno. In quale tempo ei fu pastore? Quando migrò con la tribù su le grandi orme dei padri alle pianure? Quando agli armenti cinse i fuochi notturni, fatta la sosta presso la fonte pura? Mondo di strage, ei beve il vento. I flutti crespi e canuti accorrono ver lui come le bianche pecore per l'azzurra erba; ed ei sa il suono che le aduna. D'antico tempo gli sovviene. Di tutto quel che fu ieri non gli sovviene più. Apre così le braccia la Natura subitamente al buono figliuol suo per riposarlo, sopra il suo petto ignudo, di tanto sangue e di tanta ventura. E il figlio a lei così volge dischiusa la sua divina anima di fanciullo. IV. Ma ecco l'ombra di Caprera. Ecco l'aspra Gallura, i monti aerei nell'aria. Ecco il granito ov'ei riposerà. Ecco la tomba che gli lavorerà l'arte del Mare. Come in petrose tazze, nei grembi cavi l'isola solitaria serba il silenzio ch'è bevanda al pugnace. Quivi placato nella sua verità ei può sognare; né quel silenzio mai gli mancherà, sopra il fragor del Mare. V. Or liberati i cavalli di guerra (ei palpitò forte veggendo selci risfavillar sotto l'urto del ferro, udendo su per le rupi deserte eco del gran galoppo senza freno) or nella bianca stanza è solo con sé il Dittatore, solo con sé fedele. Guarda le bianche mura ch'ei fece, artiere d'ogni arte, dopo che preso e difeso ebbe quelle di Roma. È senza mutamento la povertà, è senza mutamento la pace. Il sacco delle semente è a piè del letto. L'arme, disopra l'origliere, al vacillar della lucerna splende. Palpita e guizza la fiammella. E gran vento alle finestre, gran vento di maestro sul mar che romba nelle anse di Caprera, grande clamore a quando a quando, immenso grido, selvaggio urlo come a Palermo, come a Palermo urlo di popolo ebro. «O cuore, balzi? Placato ancor non sei?» L'Eroe sorride; ma gli occhi del veggente veggono il sole su la città che ferve colui che parla e l'ultimo suo gesto, il furibondo palpito che solleva tutto quel muto popolo come un petto immortale, e tutto il sangue repente sparir dai vólti innumerevoli, e tutte le bocche urlanti, tutte le mani distese in alto alla ringhiera; Piazza Pretoria fatta dal travincente amore vasta come l'Italia intera; l'anima d'un popolo fatta un cielo di libertà, eguale al giorno ardente; una bellezza nuova per sempre accesa nel triste mondo, un'imagine eterna di gloria impressa nel vano velo, eretta un'altra cima, ala data alla Terra! VI. «O cuore, balzi? Non sei placato ancóra?» L'Eroe sorride; ma si tocca la fronte ove in quel dì battevan forte il sole siciliano e il vento dell'ignoto destino e il suo volere. Poi s'accosta al bianco letto che dà i profondi sonni, ove il lin rude par che di sale odori (lavato in mare e torto su lo scoglio?), ma il cuore è insonne, riposare non può. Ei crolla il capo e dice: «Spartirò le mie semente». Si china; piano scioglie la bocca al sacco; e ripone la corda. VII. Seduto sta; le sue semente ei sparte, faville d'oro dall'una all'altra mano. Sparte e col soffio ventila come fa esso il colono che non mai fece altra arte. La man non falla quando l'occhio s'inganna: sa come pesi nella palma il buon grano. Tenne la spada ed or terrà la marra. Mezzo novembre avran repente e chiaro l'opre, poiché non anco Aldebarano sorse dal mare ed ecco il Maestrale porta il sereno a chi vuol seminare. «O cuore, o cuore, entra nella tua pace!» Gli àlbatri intorno soli rosseggeranno, cui tolta fu la terra lavorata. «Guardiamo innanzi, all'alba che verrà!» Chino la fronte, le sue semente ei sparte, faville d'oro dall'una all'altra mano. «Ciò che compimmo altri lo canterà.» VIII. Ma la grandezza di ciò che fu compito s'alza e sovrasta alla notte sublime, sovrasta al cuore di colui che ha sorriso, occupa la solitudine, vince la pace, infiamma l'ombra; non ha confine in breve nome. O Italia, i Mille, i Mille! Ali fulminee delle Vittorie latine, rapidità della forza e dell'ira su le riviere del sangue, alte e succinte vergini d'oro, messaggere vestite di vento, immenso amor di Roma, chi si chiamerà fra voi l'eguale di quella che un volo su da Calatafimi sino al Volturno volò senza respiro e dissetò la sua gran sete alfine sol nelle vene di Leonida ucciso un'altra volta? Pianto alla Porta Pila, silenzioso pianto alla dipartita, coro di donne liguri! Ultimo addio di ferree madri ai giovinetti figli! Divinità rivelata nei cigli umani e primo tremito delle prime stelle nel puro cielo primaverile! Più dolce maggio in terra non fiorì. Navi sospinte nel mare dal respiro stesso dei petti eroici, dal destino e dalla febbre, dalla speranza invitta e dal prodigio, piene di melodìa e di ruggito, nell'oscuro periglio illuminate dai baleni d'un riso silenzioso, con la prora diritta a gloria e a morte, a un punto e all'infinito! Rapida gioia de' bei delfini amici nel solco, méssi d'un rinnovato mito! Stelle augurali dell'Orsa al grande ardire, accesa in cielo bandiera del naviglio! Più alto sogno in Dante non salì. IX. Chino la fronte, sparte le sue semente il Dittatore, sotto la sua lucerna che per le mura d'ombre e di luci crea notturne vite coi lunghi aliti della notte. È gran vento alle finestre: geme, sfida, minaccia, rugge, ulula, intermesso. La man nell'atto a quando a quando trema. Fissi alla gesta son gli occhi del veggente. L'anima eterna è cinta di baleni. Ei vede, ei vede il patrio mare ardente, i suoi vascelli nel fulgido silenzio misteriosi come due giganteschi spiriti, fatti leggieri dall'ebrezza che vi s'aduna, dal sogno che vi ferve, come le navi dei templi dalla prece: e il primo approdo, Telamone col segno dell'Argonauta, le odorifere selve dell'Argentaro, la pallida Maremma tinta del sangue gallico, ove raccese Mario la febbre di Minturno ed il ferro trasse dal piè degli schiavi, ne fece spade battute per la strage crudele. E l'altro monte, e l'altro monte ei vede, l'Erice azzurro, solo tra il mare e il cielo divinamente apparito, la vetta annunziatrice della Sicilia bella! X. Ed ora tutto è baleni, ora tutto folgori e tuoni, furore e sangue, azzurro e sole, ferro e fuoco, aure e profumi. L'inno è nel vento, l'ebrezza è nell'arsura. Ei squassa l'aspre chiome della fortuna in pugno e fa d'ogni uomo una virtù, una virtù d'ardore ch'ei conduce col suo sorriso terribile nell'ultimo impeto al cuor d'un astro. E l'armatura della sua possa è il suo sorriso; e ovunque risplenda, quivi è il prodigio; e nessuno lo vede senza vedere un dio nel suo cielo; e beato colui, quasi fanciullo, che primamente lo vede nella luce e tra le spiche ucciso cade giù. XI. O Verità cinta di quercia, quando canterai tu per i figli d'Italia, quando per tutti gli uomini canterai tu questo canto? Ecco il pane spezzato sotto l'olivo, prima della battaglia; ecco irto d'armi il colle di sì grande nome, nomato il Pianto dei Romani, aspro di sette cerchi, balzo di Dante, per ove gridan come stuol di selvagge aquile sette Vittorie disperate; Alcamo in festa, Partinico fumante; l'avida sosta della falange, al Passo di Renna, in vista della Conca e del Mare; la sete, la fame; la corsa verso Parco nella tempesta e nella notte, inganno meraviglioso; la montagna affocata di Gibilrossa ove ecco ogni uomo par che trasfiguri come se oda parlare una divina voce alla sua speranza; e la discesa muta di sasso in sasso, per gli arsi aromi, lungo le schegge calde, mentre la sera coi richiami lontani de' suoi pastori e coi suoi flauti fa la melodìa dell'obliata pace; e poi la notte vigile di fatali stelle; e poi l'alba, e nell'alba il tonante impeto, l'urto, la furibonda strage, l'inferno al ponte dell'Ammiraglio; il maschio Nullo a cavallo oltre la barricata con la sua rossa torma, ferino e umano eroe, gran torso inserto nella vasta groppa, centàurea possa, erto su la vampa come in un vol di criniere; il grifagno Bixio, il risorto Giovanni delle Bande Nere, temprato animato metallo, voce a saetta, sottil viso che sa la cote come il filo d'una spada laboriosa, ossuta fronte salda come l'ariete che dirocca muraglie, eccolo all'opra che balza da cavallo per trarsi il piombo con le sue stesse mani fuor delle fibre tenaci; ecco espugnata la Porta, data la rotta alle masnade regie col ferro alle reni; le strade ancor nell'ombra, deserte; la città ancor dormente, e la prima campana che suona a stormo verso l'aurora alzata su Gibilrossa; Fieravecchia che batte già colma come un cuor che si rinsangua; Macqueda sotto la grandine mortale; Montalto ai regi tolto dallo spettrale Sirtori; atroci strida, crollar di case, rossor d'incendii; la morte che s'ammassa nella ruina; l'afa delle carni arse, il cielo azzurro su l'urlante fornace; e il Dittatore terribile che passa, il Dittatore sorridente con pace tra quel delirio umano, il dio che guarda, indubitata forza, con nella faccia il sole, il sole del sorriso eternale. Gloria per sempre! Ecco Palermo schiava che si risveglia giovine tra le fiamme, che si solleva, memore della Gancia, nella vendetta e nella libertà. XII. Sotto l'immensa gloria chino la fronte, il Dittatore onniveggente è immoto. Nel sacco rude la sua mano s'affonda e inerte sta, immemore dell'opra. Or è interrotta l'opra del buon colono. Ei più non vede rilucere pe' solchi le sue semente, né ribatte le porche ei con la marra in suo pensiero. Ascolta il vento e il mare nella notte profonda. Ascolta il rombo del suo spirito solo. Non proferì la sua più gran parola quando a quel re sopraggiunto donò il regno e solo poi si ritrasse all'ombra d'un casolare, lungi alla bella scorta, sol con taluno de' suoi laceri prodi? Triste è la bocca nella sua barba d'oro, ché le sovvien del molto amaro sorso. Era laggiù, presso Teano, incontro ai foschi monti del Sannio, il donatore; seduto all'ombra era, su vecchia botte non più capace di contener la forza del vin novello. Era l'autunno intorno; ammutolito sul Volturno il cannone; piegata e rotta la gente di Borbone sul Garigliano; scomparso con la scorta splendida il re sul suo cavallo storno, andato a mensa. Era l'autunno intorno: cadean le foglie dal tremolio dei pioppi; i campi roggi fumigavano sotto l'aratro antico tratto dai bianchi buoi campani cui rauco urgeva il bifolco fasciato le anche dal vello del montone, coperto il bronzeo capo dal frigio corno. Antiche e grandi eran le cose intorno; antico e grande era il cuore dell'uomo seduto in pace su la fenduta botte. Ognun taceva al conspetto dell'uomo meditabondo. Quasi era a mezzo il giorno: era il meriggio muto come la notte. Ognun taceva, ogni anima era prona dinanzi a lui, col silenzio che adora e riconosce: alta preghiera in ora che parve a ognuno scorrere per ignota profondità. E il forte elce nodoso, che negreggiava quivi, fu santo come i dolci olivi dell'orto ove pregò tre volte un altro uomo di fulve chiome. E il donatore, seduto su la doga vile, crollò la testa di leone. Calmo guardò pei fumi il campo roggio, col calmo sguardo cerulo che soggioga il rischio; udì l'anelito dei buoi affaticati per quelle terre sode; seguì un aratro che discendea da un poggio, considerò se fosse dritto il solco dietro l'attrito vomere. Anche ascoltò la lodoletta che facea sua melode. Venne per l'aria il suono d'un rintocco. Allor fu quivi recato da un pastore giovine irsuto di pelli, sopra un moggio, al donator di regni un duro tozzo di pane, e cacio stantìo, di grave odore. Aveva ei seco il suo coltello a scrocco, il suo coltello di marinaio, ancóra raccomandato alla sua vecchia corda; l'aperse pronto, con quello s'affettò il pane e il cacio. Maciullando, guardò l'aratro antico tratto dai bianchi buoi, e giudicò del dritto solco; poi, come il più duro non passava pel gozzo, chiese da bere sorridendo al pastore. Allor fu quivi recato in un orciuolo al donator di regni acqua di pozzo. Avido ei bevve, accostatosi il rozzo vaso alla bocca, ma la bocca schifò. L'acqua putiva, come d'un otro immondo. Senza sdegnarsi ei versò l'acqua al suolo. Poi s'asciugò, tranquillo; e disse: «Il pozzo è infetto. Certo, v'è una carogna al fondo». S'alzò nel detto; e andò pei campi solo. XIII. Or si ricorda ei ben del sorso tristo; e il cuor gli duole d'un lento presagire (riarderà l'agosto su le cime dell'Aspromonte torbido, e di vermiglie bacche il novembre allegrerà le infide macchie a Mentana). Ei vede il buono Elìa col piombo in bocca laggiù su la collina dei sette cerchi; e laggiù sul sottile istmo, a Milazzo, entro i maligni intrichi delle paludi e dei canneti, ritto il suo Missori bellissimo che uccide i cavalieri. Ode il grifagno Bixio che nel più folto della mischia gli grida: «Dunque così voi volete morire?». Subitamente Deodato Schiaffino, quel da Camogli, il biondo, gli apparisce: il marinaio biondo che gli somiglia, occhi cilestri, d'oro la barba e il crino, ma più membruto, più alto, d'una stirpe ingigantita nel travaglio marino. Subitamente gli apparisce supino, a mezzo il colle, nel sangue che invermiglia tutto il pianoro. È caduto così l'alfiere, primo all'assalto. Garrisce dopo lo schianto la bandiera investita, come da un vento d'ira, dal grande spiro: e sul torace come sur un macigno fanti e cavalli s'azzuffano in prodigi di furia, e tutta la virtù dell'estinto ecco risorge viva in un cuore vivo, ed è il torace dell'eroe come un plinto alla grandezza d'un altro eroe. «Così dunque volete morire?» Un leonino fremito scuote il Dittatore. Ei mira sé nel gigante biondo che gli somiglia, nel marinaio ligure che morì com'ei vorrebbe. Cupo aggrotta le ciglia; con gli occhi fissi interroga il Destino. XIV. E dalla morte sorge l'ombra di Roma. Come il pastore dell'Agro spaventoso nel ferin sangue porta germe nascosto d'antica febbre che sùbita riscoppia mentre di sotto l'arco dell'acquedotto inaridito ei guata fuggir l'ora su l'erba e sta con l'anima gravosa ch'ebbe immutata per geniture molte dal tempo quando con solfo e con alloro Pale odorava la pecora feconda: conosce il segno del vigile malore, conosce il gelo che in foco si risolve; dà la sua vita alla vorace forza: ed ei ben sa ch'ella non abbandona se non l'ossame, e guata fuggir l'ora per l'erba e sta con l'anima gravosa e brucare ode la pecora d'intorno: così l'insonne sente dal più profondo sangue salir la febbre sacra, il morbo divino, ardore immedicabile, odio ed amore ambi indomati, onde il corpo arde e la mente, sacra febbre di Roma, ultima vita terribile del suolo esercitato dai padroni del Mondo. XV. Ei lo conobbe come conosce il figlio il sen materno, conobbe il suol latino come colui che alla mammella antica s'abbeverò con sete di giustizia. Vi giacque armato, sotto il seren d'aprile, e di rugiada nell'alba si coprì. Vi colse il fiore dell'asfodelo; misti alle fresche orme vi rinvenne i vestigi dei Fabii; v'ebbe a ginocchio il nemico; vi fu calpesto dai suoi nello scompiglio, dai cavalieri suoi fuggiaschi, ferito dall'unghie dure, di polve e sangue intriso, tremenda impronta, quando del cuore invitto impedimento al terrore improvviso ei fece solo e là, prono, col viso nella carraia, baciò la madre, vivo oltre la morte, e nel fragor sinistro l'urlo supremo della sua Lupa udì. XVI. O Verità cinta di quercia, quando canterai tu per i figli d'Italia, quando per tutti gli uomini canterai tu questo canto? L'umano alito mai più grandemente magnificò la carne misera; mai con émpito più grande l'anima pura vinse il carcame ignavo. L'onta dell'uomo, il corpo che si lagna e trema, che ha sonno, che ha sete fame paura, che ha orrore del suo sangue e delle sue viscere, che si salva, si cela, fugge, cade, invoca pietà, prega soccorso, per soffrire si giace e per morire chiude gli occhi, la salma pesante opaca e fragile, la carne misera e impura, l'onta dell'uomo schiavo, veduta fu sùbito trasmutarsi, al nomar d'un nome, in una sostanza novella, armata d'una vita tenace e numerosa come di germinanti membra e di vene perenni, inebriata di strage come di allegrezza, agitata con risa e grida se molto era la piaga vasta, se orrenda era, come si squassa una bandiera superba a rincuorare stanchi e codardi. Cantami, o Verità cinta di quercia, cantami questo canto! Eccoti innanzi le donne, ecco i vegliardi, ecco i fanciulli: le donne senza pianto, senza vecchiezza i vegliardi, a mortale gioco i fanciulli con la morte che passa; ecco guidato a suon di trombe il ballo dal buon Manara sotto il colle tonante; ecco il Masina, con la sua schiera franca di cavalieri bolognesi, l'uom d'arme e di piacere, ardentissima spada, gioioso a mensa come in campo, che già tinto in vermiglio ritorna al quarto assalto per la Corsina e sprona il suo cavallo su la scalèa, gli dà ferocia ed ali, colpito in petto non fa motto né lai, vuota la sella, stramazza, con le braccia aperte e il ventre prono sul sasso sta; ed ecco i suoi già pronti a dargli bagno di grana e coltre di porpora, le lame battute a freddo, le lance di Romagna, che per ammenda di Velletri han pagato un fiero scotto, eccoli tempestare su l'atterrato per trar dalla battaglia il corpo e dargli sepoltura, gli eguali dei belli Achei corazzati di rame sul corpo di Patroclo nato dal cielo, del caro al Pelìde compagno; mentre dardeggia la voce del grifagno Bixio ferito di piombo all'anguinaglia, voce di scherno, che fischia sfonda e taglia come la spada che tronca gli è rimasta nel pugno; e il fabro d'inni Mameli, il vate soave come Simonide ceo, ma più puro che l'ospite di Tessaglia, guerreggiatore laureato, sul franto ginocchio cade sorridendo; e di vasta anima un altro artefice, il lombardo Induno, alfine cade, giace forato come selvaggio bugno e per tanti varchi non la sua vasta anima dà ma inganna la morte, due volte fatto immortale. Ecco il Bronzetti, ad altri campi sacro, ad altro antico esempio, che il suo caro non abbandona già sotto le calcagna nemiche ma l'ardire e la pietà di Niso ingenuo innova; ecco il toscano Masi, il Sampieri veneto, ecco il lombardo Vismara, il Bacci piceno, l'apuano Giorgieri, duci e gregarii, il romano Spada, e Fulgenzio Fabrizi umbro ammirando al Ponte Milvio, e il conte ravennate Loreta, e il buon Savoia mantovano, e il buon Maestri, il monco, il mutilato di Morazzone, e quel gentil Montaldi già cacciatore al Salto e capitano che navigando laggiù pel guerreggiato fiume fu solo ed ebbe cento braccia a sostener con l'arme l'arrembaggio; ecco l'Anceo, il Silva, il Rodi, il Sacchi, il pro' Daverio, il Mellara, gli Strambio, il più bel fiore del sangue di Romagna e di Liguria e d'Umbria e di Toscana, d'ogni contrada, figli della montagna, figli del piano, figli del litorale, della città e del borgo selvaggio, il più bel fiore fiorito dalle madri nel vaticinio della gesta fatale, speranza e forza della profonda Italia, speranza che arde e forza che combatte, dolor che ride e giubilo che assale, solenne ebrezza, funebre voluttà, il più bel fiore fiorito dalle madri potenti come la terra che bagna il fiammeo flutto ond'è converso il latte robusto dato con compagnia di canti; e il Morosini, e i Dandolo, sonanti nomi nel bronzo della gloria navale, stirpe di dogi, sangue republicano che tinse già di suo colore i fianchi delle galere, il Mare Nostro, Candia, la Morea, Nasso, in cento assedii, e i sacri marmi d'Atene e l'oro di Bisanzio, spoglie del Mondo offerte alla Città. XVII. Villa Corsina, Casa dei Quattro Vènti, fumida prua del Vascello protesa nella tempesta, alti nomi per sempre solenni come Maratona Platèa Crèmera, luoghi già d'ozii di piaceri di melodie e di magnificenze fuggitive, orti custoditi da cieche statue ed arrisi da fontane serene, trasfigurati sùbito in rossi inferni vertiginosi, chi dirà la bellezza che in voi s'alzò dalla ruina e stette su l'Urbe come terribile astro a sera? chi canterà la vostra grande sera? Cadeva il dì crudo su fuoco e ferro. Tre volte e quattro iterato per l'erte scalèe l'assalto: grado per grado, pietra per pietra, preso e perduto e ripreso e riperduto il baluardo orrendo; accumulati i cadaveri a piè degli agrifogli, dei balaustri, delle statue, delle urne; fatto il pendìo riviera del sangue, cupo bulicame di membra lacere; acceso l'incendio; alzato al cielo impallidito il clamore supremo i Legionarii ansanti, arsi di sete e d'ira, armati di tronconi e di schegge neri di fumo e di polvere, belli e spaventosi parvero come quelli che superato avean l'uman potere con la scagliata anima (tale il segno superato è dal dardo veemente) e respiravan dai lor profondi petti piagati l'ansia d'un miracolo ardente. «Avanti!» allora gridò la voce immensa. Erano questi reduci dall'inferno raccolti presso le mura, tra il Vascello e San Pancrazio. Ansavan come belve cacciate innanzi dal fuoco nelle selve incendiate, esausti, dalla sete stretti le fauci; e non avean da bere se non sudore e sangue. Ognun coi denti secchi mozzò l'anelito, e si tese per obbedire. «Avanti!» ripeté la voce immensa. Ed il bianco mantello ondeggiò, come l'onda delle bandiere, su gli aridi occhi. S'udìa, contra il Vascello, spesso il nemico tonar dalle trincere della Corsina come da una fortezza. Perduta omai l'altura; folle impresa tentare un altro assalto; tutta l'erta spazzata; dubbio giungere a mezzo; certa la strage. «Avanti!» gridò la voce immensa e pura come il ciel di primavera sopra le fronti degli uomini promessi. E comandò agli uomini il portento. «Orsù, Emilio Dandolo, riprendete Villa Corsina! Su, di corsa, con vénti dei vostri prodi più prodi, a ferro freddo!» Ed il nomato tremò nel cuore udendo il nome suo in bocca della stessa Gloria. Caduto eragli già il fratello su la scalèa, spento. E disse: «O fratello, teco verrò!». Pronto, fece l'appello dei morituri. E la falange breve mosse all'assalto ultimo. Una gran febbre allora parve palpitare nel vespro, visibil come l'ardore nei deserti quando per l'aere vibra incessantemente. Sorse un clamore terribile nel vespro, terribil come quel dei romani petti che ferì l'aere ed i volanti uccelli quando rostrata salpò la quinquereme di Scipione. Videsi in alto un negro stuolo di corvi sbattere sul funesto Gianicolo, ove scendean le aquile un tempo con i presagi. E nel fuoco e nel ferro il fato della Republica fu certo. I morituri la videro morente nel sangue loro. Un disse: «Vinceremo». XVIII. Veniva, senza squilli, in corsa, alla Porta di San Pancrazio la seconda legione lombarda, quella dal Medici condotta florida schiera giovenile, corona di Lombardia. Il Vascello, dal prode Sacchi difeso fin quasi a mezzo il giorno, quindi tenuto da quel santo e feroce Manara cui serbata era la gloria di Villa Spada, sosteneva il maggiore sforzo nemico. Fervida era già l'opra degli approcci, era imminente già il crollo del fastigio, era già degli uccisi ingombro tutto il palagio. Or veniva al soccorso Giacomo Medici, incrollabile possa, compatto bronzo contra le sorti immoto. Dalla Toscana nel Lazio, senza colpo ferire, avea condotta la legione con disciplina durissima, per prove e patimenti infiniti, veloce e càuto, dando per guanciale al riposo la gleba o il sasso, avendo giorno e notte il rischio sempre alle spalle, di fronte e ai fianchi come dogo o molosso pronto ad azzannare senza latrato. Il sole, il vento, l'erbe, i torrenti, le rocce aveangli fatta selvaggia come un'orda la bella schiera. Ai giovini leoni, tutta la notte nutriti dall'odore della Campagna sacra nel periglioso cammino, Roma era apparita in fondo alla pianura nella sùbita aurora come una nube. Ed un grido era sorto: «O Madre!». Ed ogni cuore in quella parola s'era devoto, con volontà di gloria; e taluno ebro avea sentito forse nelle gramigne rimaste fra le chiome incolte il peso mortale degli allori. Veniva or dunque, senza squilli, alla Porta di San Pancrazio la seconda legione lombarda. Ed ecco, verso la Porta, incontro a lei la fila delle barelle atroce, con i feriti, con i morenti in mostra! Ed i feriti ed i morenti, incontro ai giovinetti floridi, del dolore fecero un riso non umano. E coloro che non avean più pel riso la bocca ma cave piaghe, gittarono dagli occhi il lor baleno; e taluno gittò le bende intrise discoprendo la coscia tronca od il ventre lacerato e gridò: «Resti con voi questo segno!». Ed un monco scosse ridendo il moncherino come un aspersorio di sangue e battezzò gli imberbi. E tutti ridevano di gioia come fanciulli, poiché la morte ai loro terribili atti mesceva un che di dolce, una bontà puerile, un candore di libertà mai detto da parola d'uomo né vinto in terra; e di candore splendevan essi nel dissanguarsi in fondo alle barelle che penetravan l'ombra di Roma fatta più profonda dal rombo che il Campidoglio spandea sonando a stormo. Nell'ombra «Viva la Republica!» urlò l'anima alzata del coro moribondo. E l'urlo sotto la Porta rimbombò. E la legione, scagliata dalla Porta eroica, entrò nella battaglia. Allora, bianco a traverso la bufera del fuoco, bianco sul suo cavallo agile come un tigre dómo, non simile ad un uomo fragile ma simile ad una forza onnipresente espressa dalla lotta stessa dei fati e degli uomini, incontro ai giovinetti venne il Liberatore. Muto trascorse lungh'esse le coorti adolescenti come fa il nembo sopra le spiche ma l'anime ch'ei piegò col suo gran soffio parvero dall'angoscia risollevarsi moltiplicate. Gli occhi erano intenti a lui; e con un solo sguardo ei toccò le anime come un solo baleno tocca le innumerevoli onde. «Avanti!» allora gridò l'immensa voce. Ed il cavallo a un tratto s'arrestò come un torrente precluso che si copre di schiume. Calmo il cavaliere biondo parve più alto, signore delle sorti, sicuro. Spessi fischiavangli d'intorno gli obici senza toccarlo; orrido scroscio facean su i muri del Vascello; talora sordi facean nella legione un solco ove spariva qualche silenzioso capo atterrato. Si protese, raccolse il puro sogno dei giovinetti morti nella sua voce che fu pei vivi come la melodia della materna Roma. «Giovani, avanti, ché vinceremo anche oggi!» Non con lo sprone ma col suo grande cuore ei sollevò il suo cavallo a volo: nel balzo il bianco mantello palpitò come la bianca ala della Vittoria. Il giovenile grido coperse i tuoni del monte, dietro il galoppo senza orma. Nella fumèa del vespro, intorno a Roma, erano ovunque la ruina e la morte. Ma chi morì, morì vittorioso. XIX. Con gli occhi fissi interroga il Destino il Dittatore. Arde tra le apparite stragi, nel grido dei magnanimi figli. Arde, in silenzio, della sua febbre antica. E la grandezza di ciò che fu compito s'alza e sovrasta alla notte sublime. «Ah non invano! Ah non invano!» dice la sua speranza. «Non invano moriste, o dolci figli, latin sangue gentile! Altra rugiada aspettan le gramigne dell'Agro, e avranno altra rugiada, prima che sorga l'alba della novella vita. O Madre, e quel che ti daremo vinca di santità quello che t'offerimmo. Pur t'offerimmo quel ch'era in noi divino.» Ed ecco ei tende la mano, come chi promette, ei tende la mano che spartiva le sue semente con la saggezza antica, la man che già seminò, che al mattino seminerà là dove fu il granito. Per testimone ha l'anima sua. Dice: «Verrò, verrò. Là donde mi partii ritornerò». La trista dipartita ripensa: il luglio torrido; le milizie raccolte in piazza, mute sotto il meriggio muto, al conspetto del Vaticano inviso, come le statue dei portici; il sorriso che gli sgorgò dai precordii alla vista della coorte adolescente; Iddio nei cieli azzurri, il silenzio infinito, l'orazion piccola «Io offro a chi mi vuol seguire fame sete fatiche combattimenti e morte»; poi l'uscita da San Giovanni, tutto il popolo afflitto che lacrimava e le Trasteverine accorse in gara che spargevano i gigli sotto il cavallo dell'eroina Anita a San Giovanni, il sordo calpestio in notte chiara su la Via Tiburtina con la grande ombra di Roma che seguiva i legionarii, la sosta su la cima nuda, l'estremo sguardo, l'estremo addio alla Città già in mano del nemico; e poi la corsa di confine in confine per monti e valli, l'arrivo a San Marino, al bel Titano, con la sua schiera esigua sfuggita a quattro eserciti, la fine dell'alta guerra, il Mare, l'accanito inseguimento per le selvagge rive, per le paludi febbrose, l'agonia della sua donna sotto il sole maligno, il disperato remeggio verso il lido di Chiassi, il dolce corpo su l'erbe arsicce morente, poi l'abbandono improvviso sopra la Costa di Paviero, il supplizio feroce, il caro corpo non seppellito nella calura lùgubre l'infierire di tutti i mali contro l'anima invitta. «O Madre, e quel che ti daremo vinca di santità quello che t'offerimmo» dice l'Eroe che seppe ben patire. Per testimone ha l'anima sua. Dice: «Verrò, verrò. Là donde mi partii ritornerò, Madre, per ben morire». XX. Or s'è placato il cuore in quel suo puro atto di fede e in quell'offerta. Il giusto seminatore, innanzi ch'ei s'induca al meritato sonno, innanzi ch'ei chiuda gli occhi da tanta visione consunti, getta il buon seme del dolore futuro. Ascolta il vento, esplorator notturno che indaga gli antri, che visita le rupi, che parla e poi tace, tace e poi rugge. Pensa il piloto: «Reca lungi l'augurio tu che ben sei vento italico, più nostro che ogni altro, Maestrale, robusto tenditor di vele latine, duro scotitor di latine selve, tu che tra Ponente e Borea spiri, giù dalle Alpi insino al Peloro, per tutta la Italia e segui l'Apennino e le punte dei promontorii tutte sul mare giungi in libertà, Maestrale, tu lungi in questa prima notte reca il saluto dell'uomo a quella che sta nella pianura oltre Argentaro, nell'Agro taciturno che divorò le stirpi, e l'assicura che a lei pensò l'uomo quando la prua sciolse da Quarto, ed a lei quando fu presa la riva, e sempre in ogni pugna a lei, dal Pianto dei Romani, laggiù, da Gibilrossa, dal Faro, dal Volturno. E, come attende l'uomo, tu l'assicura che a lei verrà se pur sempre all'autunno segua l'inverno e dall'inverno surga la primavera. Intanto ei veglia e scruta». Così promette il piloto di altura e di rivaggio, l'uomo tirrenio, instrutto di sapienza pelasga, che misura senza fallire con l'occhio l'azzimutto e su la linea di fede sa condurre il suo naviglio con bussola vetusta, col buon pinàce di manico sicuro, privo dell'ago, dell'ago che si turba strepita impazza smarrisce sua virtù. «Andremo a poggia e all'orza. Orza di punta!» pensa il piloto. E il sorriso si schiude nel suo oro. «Alle mure dei trevi! Mura!» Silenzioso ride: pensa la susta che tiene a segno l'antenna latina. Una minaccia arguta par che il suo riso aguzzi. Ei sa che avrà vento traverso, buffi di vento obliquo; ma sa come si muri. E crolla il capo incolpevole. «Orsù via, che domani si semina!» Nel suo pensiero ondeggia di biade il sasso brullo. S'accosta al letto placido ove il lin rude par che di sale odori, male asciutta vela che quivi posi dalle fortune. Il sacco è a piè del letto; l'arme luce su l'origliere: il sogno eterno illude quella divina anima di fanciullo. XXI. Or mentre giace, sopra il vento intermesso ode un belato. Belare ode un agnello forse smarrito nelle rupi deserte; per la notte ode una voce innocente che chiede prega geme trema si perde. Già sollevato in sul cubito, teso l'orecchio, ascolta nelle pause del vento. La voce trema prega geme. «È un agnello smarrito; cerca la madre» E balza in piedi il Dittatore. Indossa le sue vesti, rapido come allor che il pro' Daverio il tre di giugno entrò dov'ei giaceva pesto e ferito, urlando «La bandiera!». Durano affé i buoni usi di guerra, se bene tace la diana, a Caprera. Anche allora brillavano le stelle. Il Dittatore cammina contravvento. A quando a quando sosta, tende l'orecchio se mai distingua, tra i colpi del maestro, sopra gli schianti della risacca, il segno di quel belare. Conosce dall'altezza dell'Orse l'ora. Tutto il cielo è sereno. Le sette Guardie tramontan sul Tirreno. Il buon piloto mira le chiare stelle dei marinai, le dolci Gallinelle sul collo al Toro, nell'ala pegasèa Markab, in bocca al Cane Sirio ardente, e su la spalla d'Orione Adhaèr, e Vega e Arturo e Canòpo e la Perla. D'antico tempo or gli sovviene. Regge, nella memoria, col pollice l'anello dell'astrolabio e studia come ascenda un astro e come si colchi, nel silenzio dei mari. Gira sul capo il ciel sereno. L'isola acclive è come una galèa grande che sola navighi verso terre lontane. Il vento cade. Ed ecco l'agnello chiama la madre nelle rupi deserte: s'ode la voce che trema prega geme. «O creatura di Dio, dove sei persa?» Ed ecco un che di bianco, un che di lieve nell'ombra, come una falda di neve intiepidita da una pena vivente. L'uomo si china verso la pena, sente il vello, prende con le mani leggiere la creatura di Dio, l'alza, la tiene fra le sue braccia, l'accoglie sul suo petto. Non fu pastore ei forse? Gli sovviene d'antico tempo quando migrò col gregge alle pianure su l'ampia orma paterna, quando di fuochi notturni cinse il gregge, fatta la sosta intorno alla cisterna. L'anima sua ora è come la terra, è come il mare, è come il firmamento, come la forza delle stirpi guerriere e pastorali che nel cominciamento furono, come la verginità fresca del primo sguardo che dalla cosa espresse il mito, come la meraviglia ingenua animatrice che d'ogni cosa fece una bellezza e la favola breve dell'uom fallace converse in gioia eterna. XXII. Col novel peso pianamente sen va alla sua casa, portando nelle braccia la creatura che tuttavia si lagna, che chiama chiama, che chiama la sua madre. Il vento cade, il mare s'abbonaccia, il ciel s'imbianca. Ei sente nella faccia pungere l'uzza mattutina, e la guazza piovere sente su l'oro della barba che si confonde con quella dolce lana. «O creatura, non posso io darti latte» dice il pastore sorridendo al belato che non si placa. «Tu chiami la tua madre. Dove sarà ella? Molto lontana? E veggo già che s'avvicina l'alba; sicché non giova tornare alla mia casa; ma giova a te avere la tua madre che anche ti chiama, che ha la poppa gonfiata di molto latte che tu ti beverai.» Ed ei si gode nel suo cuore piegando a un'altra via, però che bene ei sa la via del chiuso ove la greggia scarsa attende l'ora della pastura. L'alba stampa nel ciel le sue dita rosate quando all'ovile giunge, all'ovile fatto di schiette pietre che scelse di sua mano e poi commesse e legò con la calce e vi coprì tutto il tetto di lastre pulite ed anche vi fece di legname sodo la porta, come artiere d'ogni arte ch'ei fu, che sempre sarà finché le braccia gli reggeranno. Or, mentre giunge, il cane lo riconosce come riconobbe Argo sul concio il dire del molto travagliato Odisseo; sì lo riconosce il sardo mastino, forte, fulvo, e balzagli innanzi e gli fa festa. Ma, dal chiuso, al richiamo della deserta creatura la madre risponde. Senza indugio il pastore apre la porta e càuto depone al limitare di pietra il redo che, su le oblique zampe lanose, come un infante traballa, bela dal roseo muso, per l'ombra calda saltella in cerca della poppa gonfiata. Chino alla porta, dell'avido poppare si gode l'uomo incolpevole; è pago; ché buono ei stima l'odore della calda lana nell'uzza che punge aspra di sale, e invero sol gli rincresce d'un pane, d'un pan che manca alla sua lieta fame sì mattutina. «Ecco che è fatta l'alba. Riconterò le mie pecore.» Taglia una verga, entra nel chiuso, e caccia il branco. Nitrire i suoi cavalli di battaglia ode all'aperto. Respira: «Oh Libertà!». Poi, sufolando ne' modi della Pampa e dell'Oceano, pascola verso il mare. Canti della morte e della gloria I. O Verità cinta di quercia, canta la tristezza del popolo latino, il Sol che muore dietro l'Aventino e la notte che abbraccia l'Arce santa. Ahi che lungi egualmente a Roma, e in quanta lontananza entro l'ombra del destino compiuto, sono i Fabi e il lor divino Crèmera, Villagloria e i suoi settanta! Esausto è il latte della Lupa stracca nelle flaccide mamme, e tutto è spoglio dai ladruncoli il fico ruminale. Acca Larenzia lucra da baldracca. L'oca senz'ale abita il Campidoglio e la talpa senz'occhi il Quirinale. II. Il pastore d'Amulio dal galèro di pel lupigno, Fàustolo che scorse il pico verde e quel seguendo accorse al loco lupercale umido e nero, indi prese i Gemelli, uno leggero, l'altro più grave, e nudi ambo li porse a Larenzia mammosa, non s'accorse che in un pesava il peso dell'impero. Il peso dell'impero e del delitto necessario facea grave il fratello di Remo, sacro all'augurale volo. Ei diede al mondo l'Urbe e al cuore invitto del Guerriero insegnò come sia bello con un sogno di gloria restar solo. III. La gloria fu. L'ultime vite insigni si spengono sul suol di Dante a un tratto come le faci in un festin protratto quando il cielo arde di baglior sanguigni. Vanno lungi da noi l'Aquile e i Cigni: quei ch'ebber pronta la virtù dell'atto e quei ch'ebber nel cuore il sogno intatto; né si vede che il seme lor ralligni. Alziamo gli Inni funebri, sul gregge ignaro, alla Potenza che ci lascia, alla Bellezza che da noi s'esilia. Implacabile è il Canto e la sua legge. E però leva su, vinci l'ambascia, Anima mia. Questa è la tua vigilia. Per la morte di Giovanni Segantini Implorazione dei monti, voci del regno alto e santo, dolor selvaggio dei vènti combattuti, profondo pianto delle sorgenti pure, quando l'ombra discesa da un più alto regno benda la rupe e il ghiacciaio albeggia solo come un cammino che attenda grandi orme venture! Salutazione dei monti, coro delle gioie prime, laude impetuosa dei torrenti, fremito delle cime percosse dalla meraviglia, quando si fa la luce nelle vene della pietra come nelle fibre del fiore perché Demetra rivede la sua figlia! Dominazione dei monti, purità delle cose intatte, forza generatrice delle fiumane pròvvide e delle schiatte armate per l'eterna guerra, mistero delle più remote origini quando un pensiero divino abitava le fronti emerse dai mari! O mistero, purità, forza sopra la Terra! Spenti son gli occhi umili e degni ove s'accolse l'infinita bellezza, partita è l'anima ove l'ombra e la luce la vita e la morte furon come una sola preghiera, e la melodìa del ruscello e il mugghio dell'armento e il tuono della tempesta e il grido dell'aquila e il gemito dell'uomo furon come una sola parola, e tutte le cose furono come una sola cosa abbracciata per sempre dalla sua silenziosa potenza come dall'aria. Partita è su i venti ebra di libertà l'anima dolce e rude di colui che cercava una patria nelle altezze più nude sempre più solitaria. O monti, purità delle cose intatte, forza, mistero sopra la Terra, ella va e ritorna come un pensiero immortale sopra la Terra. O monti, o culmini, il suo dolore fu come la vostra ombra sopra la Terra. La sua gioia sarà oltre la sua tomba un palpito della Terra. Per la morte di Giuseppe Verdi Si chinaron su lui tre vaste fronti terribili, col pondo degli eterni pensieri e del dolore: Dante Alighieri che sorresse il mondo in suo pugno ed i fonti dell'universa vita ebbe in suo cuore; Leonardo, signore di verità, re dei dominii oscuri, fissa pupilla a' rai de' Soli ignoti; il ferreo Buonarroti che animò del suo gran disdegno in duri massi gli imperituri figli, i ribelli eroi silenziosi onde il Destino è vinto. Vegliato fu da' suoi fratelli antichi il creatore estinto. Come la nube, quando è spento il Sole dietro le opache cime, di fulgore durabile s'arrossa: contro all'ombre notturne arde sublime la titanica mole e la notte non ha contro a lei possa: così dalle affrante ossa l'anima alzata contrastò la Morte, avverso il buio perdurò splendente. Dinanzi alla veggente tutte aperte rimasero le porte del Mistero, e la sorte umana fu sospesa su l'alte soglie ove la Forza trema. Sul rombo, nell'attesa, allor sonò la melodìa suprema. La melodìa suprema della Patria in un immenso coro di popoli salì verso il defunto. Infinita, dal Brènnero al Peloro e dal Cìmino al Catria, accompagnò nei cieli il figlio assunto. E colui, che congiunto in terra avea con la virtù de' suoni tutti gli spirti per la santa guerra, pur li congiunse in terra col suo silenzio funerale e proni li fece innanzi ai troni ed ai vetusti altari ove l'Italia fu regina e iddia. Canzon, per i tre mari vola dal cuor che spera e non oblìa! E «Ti sovvenga!» sia la tua parola. Vegliato fu da' suoi fratelli antichi il creator che dorme. E simile alle fronti degli eroi era la fronte, sola e pura come giogo alpestro, enorme. E profonde eran l'orme impresse dal suo piè nella materna zolla, profonde al pari delle antiche; e l'alte sue fatiche erano intese ad una gioia eterna; e come l'onda alterna dei mari fu il suo canto intorno al mondo, per le genti umane. E noi, nell'ardor santo, ci nutrimmo di lui come del pane. Ci nutrimmo di lui come dell'aria libera ed infinita cui dà la terra tutti i suoi sapori. La bellezza e la forza di sua vita, che parve solitaria, furon come su noi cieli canori. Egli trasse i suoi cori dall'imo gorgo dell'ansante folla. Diede una voce alle speranze e ai lutti. Pianse ed amò per tutti. Fu come l'aura, fu come la polla. Ma, nato dalla zolla, dalla madre dei buoi forti e dell'ampie querci e del frumento, nel bronzo degli eroi foggiò sé stesso il creatore spento. E disse l'Alighieri in tra gli eguali nella funebre notte: «O gloria dei Latin', come tramonti!». Quivi bianche parean dalle incorrotte spoglie grandeggiar le ali sotto la fiamma delle vaste fronti. E Dante disse: «O fonti della divina melodia richiusi in lui per sempre, che tutti li aperse! Ecco quei che s'aderse, su la sua gloria, in cieli più diffusi e agli uomini confusi parve subitamente artefice maggior della sua gloria. O natura possente, non conoscemmo noi questa vittoria!». E Leonardo: «Innanzi ebb'io la nuda faccia del Mondo immensa, come quella dell'Uom che a dentro incisi. Creai la luce in Cristo su la mensa e creai l'ombra in Giuda. Dell'Infinito feci i miei sorrisi. Poi, nel vespro, m'assisi calmo alla sommità della saggezza ed ascoltai la musica solenne. Per quali vie convenne meco quest'aspra forza a tale altezza? Come questa vecchiezza semplice e sola attinse il culmine ove regna il mio pensiero? Fratello m'è chi vinse il suo fato e tentò novo sentiero». E il Buonarroti disse: «Io prima oscuro, per opra più perfetta rinascere, di me nacqui modello. Poi mi scolpii nella virtù concetta, come nel marmo puro s'adempion le promesse del martello. E posi me suggello violento sul secolo carnale di grandi cose moribonde carco. Irato apersi un varco nelle rupi all'esercito immortale degli eroi sopra il Male vindici; senza pace, stirpe insonne, anelammo all'alto segno. Ben costui che or si giace tal cuore ebbe, s'armò di tal disdegno». Nella notte così gli eterni spirti riconobbero il Grande cui sceso era pe' tempi il lor retaggio. Il titano giacea senza ghirlande, senza lauri né mirti, sol coronato del suo crin selvaggio. E, come il primo raggio dell'alba fu, la maggior voce disse: «O patria, degna di trionfal fama!». E parve che una brama di rinnovanza dalla terra escisse, e che le zolle scisse dai vomeri altro seme chiedessero a novel seminatore, e che l'onte supreme vendicasse la forza del dolore. Canzon, per i tre mari vola dal cuor che spera oltre il destino, recando il buon messaggio a chi l'aspetta. Aquila giovinetta, batti le penne su per l'Apennino; per l'aere latino rapidamente vola, poi discendi con impeto nei piani sacri ove Roma è sola, getta il più fiero grido e là rimani. Nel primo centenario della nascita di Vincenzo Bellini Nell'isola divina che l'etnèo Giove alla figlia di Demetra antica donò ricca di messi e di cavalli, di lunghe navi e di città potenti, d'aste corusche e di cerate canne, di magnanimi eroi e di pastori melodiosi, dal santo lido ove apparì l'Alfeo terribile che tenne la sua brama immune dentro all'infecondo sale, da Ortigia ramoscel di Siracusa, che fu sorella a Delo e abbeverava nell'orrore notturno la sirena ai fonti ascosi, il re degli inni Pindaro tebano assiso in ferreo trono, invocando le Grazie dal sen vasto e l'Ardire e la Forza e l'Abondanza sopra l'anima pura, celebrò le vittorie dei mortali. Per gli inni trionfali, con l'olivo selvaggio e il bronzeo vaso, i vincitori furono gli eguali dei belli iddii nel sole senza occaso. Inni, rapidi figli del furore e della fiamma, qual degli iddii, quale eroe, quale uomo noi celebreremo oggi al conspetto del religioso popolo accolto che offre alla Potenza generata dal suo dolente grembo una preghiera? Il dio celebreremo noi, pel cuore innumerevole avido di eterna vita, l'eroe celebreremo e l'uomo in una sola forma di bellezza giovenile, rapita negli alti astri ma sempre ritornante in terra come la primavera. Simile al mare procelloso incontro alle foci dei fiumi, che sforza verso le sorgenti prime verso le auguste origini montane la gran copia dell'acque (beve intorno la terra e si feconda), simile al mare l'onda del canto volga impetuosamente questa che palpita anima profonda verso l'antichità di nostra gente. Dove il veglio Stesicoro per Ilio ereditò la cecità di Omero, dove Pindaro assunse ai cieli il carro del re Ierone fondatore d'Etna e Teocrito addusse tra i bifolchi eloquenti le Càriti dal fresco fiato silvano, quivi improvvisa dopo il lungo esilio la doriense Musa ricomparve tra l'immemore popolo, improvvisa animò la siringa dell'occulto Pan, cui la cera dato avea l'odore del miele (appreso aveale a lamentarsi il labbro umano); e il dolore degli uomini e l'amore degli uomini e le cieche speranze e le bellezze della vita e della morte e tutte le virtudi riebbero nel Canto la purità sublime e necessaria. Oh sagliente nell'aria che la nutrì, semplice nuda e sola, come nel tempio la colonna paria, la melodìa che vince ogni parola! Gli Itali palpitaron di novella attesa udendo quella giovenile voce nell'aria limpida salire; e l'olivo che cinge i poggi curvi lungh'essi i patrii mari santo parve alle dischiuse ciglia e ancor più santo parve l'alloro; però ch'eglino, tristi servi, in quella voce riconoscessero l'antica lor giovinezza e la meravigliosa verginità dell'anima primiera che creò nella luce l'immutato ordine e bianco per gli intercolunnii condusse il coro. Cantava inconsapevole, su i giorni e su l'opre comuni il figlio degli Ellèni in false vesti, tra vane moltitudini loquaci, lungi ai marmi natali; e in cor gli ardeva una tristezza ignota, mentre nella remota isola i suoi teatri pel notturno silenzio biancheggiavano e la vota scena attendeva l'urto del coturno. «Egli è morto, l'Orfeo dorico è morto! Sicelie Muse, incominciate il carme fùnebre! O rosignoli, annunziate ad Aretusa ch'egli è morto e il canto morto è con lui, e il latte non fluisce più, né dai favi il miele, ché perito è nella cera per lo dolore; e il verde apio nell'orto langue, e l'aneto aulente; e le montagne son tacite, e le fonti nelle selve plorano, e al mare Cèrilo fa lai. Sicelie Muse, incominciate il carme fùnebre! Varca il doriense Orfeo l'atra riviera.» Non sonò forse questo antico pianto sul trapassato auleta? «Omai chi canterà su le tue canne? Respiran elle come le tue labbra. Pan non si ardisce. E oppresso tu dal silenzio della Terra sei! Ma, se canti a colei che pur pensosa è d'Enna in Acheronte, ella in memoria dei narcissi ennèi ti ridona al tuo mare ed al tuo monte.» Non piansero così forse i selvaggi flauti contesti con la cera e il lino, al mar siciliano e a piè del cavo rogo vulcanio? E le città illustri piangevano, come Ascra per Esiodo, per Archiloco Paro, per Alceo Lesbo su l'acque. Inno di gloria, irràggiati dei raggi più fulgidi recando all'ansiosa moltitudine, accolta nel Teatro riconsacrato dalla reverenza, l'imagine del giovine Cantore. auspice e i testimonii del fatale suolo ove nacque. Alto pel mar duplice ei vien cantando, il figlio degli Ellèni, il subitaneo fiore della Madre Ellade. Ei vien cantando la bellezza e il dolore dell'Uomo. Il genio della stirpe lui conduce, pervigile. La luce è la sua legge. E l'orizzonte immenso, con tutto che la Terra alma produce volgesi a lui come un divin consenso. Saluta, mentr'ei viene, Inno, l'ignita vetta e il lido aretùside, sospiro d'Atene, e le vocali selve, e i fiumi che il chiaro Ionio beve, e Siracusa e Taormina e la natal Catana con l'orme che v'impressero congiunte Ellade e Roma. La luce regna. Una profonda vita anima le ruine respiranti per mille bocche cerule nel mare e nel cielo. L'alta erba occupa i gradi marmorei, ove i secoli silenti e invisibili ascoltano il tragedo che non si noma. Tra il cielo e il mare le deserte orchestre come stromenti cavi s'aprono per accogliere la voce misteriosa cui risponde il coro dei Vènti peregrini. E la tempesta che laggiù percote le grandi rupi immote contra i frangenti, e il tremito del lieve stelo tra i rotti fregi, son le note dell'istessa parola eterna e breve. Italia, Italia, quale messaggero di popoli trarrà da quel silenzio venerando il messaggio che s'attende? Quivi taluno interroga i vestigi? pacato curvasi ad apprender come si tagli il marmo per edificare immortalmente? O altrove, altrove affòrzasi il pensiero liberatore in qualche eroica fronte su cui ventò lo spirito dell'alba promessa? Dove? Dove Leonardo temprò il sorriso, penetrò le ambagi del corpo umano, dominò la forza della corrente? Sotto l'ombra dell'Alpi vigilate? Nella ligure piaggia onde salpò la prua ferrea di cuori? Nella candida pace della valle umbra dove Francesco nutrì di sé le dolci creature? Fra l'alte sepolture della città ch'ebbe di Dante l'ossa e al gran nome sfavilla di future sorti qual fredda selce alla percossa? O nella polve (Inno d'amore, batti l'ale tue forti!) nella sacra polve del Fòro suscitata oggi dai ferri animosi che rompono i suggelli del Tempo e riconducono alla luce dell'Anima e del Sole i testimonii primi dell'Urbe? Ovunque i bei pensieri e i grandi fatti si preparino, quivi arde un altare alla Dea Roma e il buono Eroe s'attende. Inno, che nell'ardore della mia anima come in fervida fucina foggiarono le mie speranze invitte, saluta l'Urbe! Saluta, nella gloria del Cantore fiorito a piè dell'Etna, l'Aventino sul Tevere d'Italia, il monte che salivano i Carmenti aedi del Futuro; però che tutto alla Gran Madre torni e d'ogni raggio s'orni il suo capo che sta sopra la Terra. Sveglia i dormenti e annunzia ai desti: «I giorni sono prossimi. Usciamo all'alta guerra!». Nel primo centenario della nascita di Vittore Hugo Come sopra la forza del monte tra la selva e il fonte, tra la palude e il fiume, in vista all'infaticato mare, nell'altezza dell'etra venerabile, con suon di cetra e di flauto, armoniosamente, l'immune dalla morte Eroe figlio del Nume edificava per l'industre e pugnace sua gente, e pel Fato, la città illustre di molte porte e di molte are; così edificò Egli nella luce e nell'ombra l'opera d'eterne parole che ingombra l'orizzonte umano con la sua mole immensa; e l'abitarono i vegli esperti d'infiniti mali, le vergini vereconde, i lieti pargoli, i guerrieri sanguigni, e i mostri carnali senza fronte, che faceano insonni i profeti ne' lor chiostri di macigni, le onte irte d'artigli e d'ali, di cigli e di rostri. Nazione di Dante, se l'anima tua non è morta, se il tuo braccio ancor vale, se ancor la tua voce risuona, se t'arde nella memoria favilla del romano orgoglio, o custode del Libro immortale, percuoti lo scudo raggiante sospeso alla porta del tuo Tempio ideale, solleva una vasta corona dal tuo Campidoglio, e grida: «Gloria! Gloria! Gloria!» come nei giorni delle tue magnificenze; perocché oggi ritorni l'edificator Titano trasfigurato sopra gli anni e i tiranni, spiriti adducendo di amore su vènti di letizia, nella sua pura vittoria le sacre invocando potenze testimoni al cruciato di Scizia: «O Terra! O Madre! O chiaro Etere! Mutato è in gioia degli uomini quel ch'io soffersi per la Giustizia». Gloria all'esule Eroe che invoco, Nazione di Dante, all'aedo che seppe pur l'altra parola del Portatore-di-fuoco! «Più grato m'è l'esser prigione del sasso, che servo del tuo signore.» E sola eragli intorno la rupe, e solo eragli l'Oceano intorno ululante; e il lamento dei popoli ignavi sul vento ferivagli il cuore ferito; e la nuvola del suo dolore occupava il ciel taciturno procellosa, di folgori spessa; e l'ira indefessa latrava pel tragico lito all'orrore notturno, più trista che Niobe nel mito. Ma egli aspettò la sua vela, ospite sovrumano del granito, come Eschilo a Gela ospite fu del vulcano. E le parole sue costrinsero il Fato lontano a premere la ferrea mano su l'impero di sangue e di lue. O nembo sonante dell'Ode, rischiara dei tuoi rotti lampi l'immensità del suo cuore! La Gallia, distesa tra i campi nubilosi e le prode del Mediterraneo lucente, nel suo cuore è compresa con la profonda Ardenna e la Provenza serena ove canta la cicala d'Apolline all'olivo d'Atena, e la Bretagna silente dai candidi lini che prega rammemora e sogna coronata di giunchi marini, e la Borgogna che al ferro duro partitor di retaggi è madre e alle vigne opime onde fiammea gioia s'esprime. Integro nel suo petto è il suo dolce paese; e nell'anima sua ferve il solco della nave focese che venne recando il perfetto dell'Ellade fiore nel seno petroso ove nacque Massilia a specchio dell'acque. Ma il tutto è in lui. Nel suo petto concluso è il mondo. Ogni raggio, ogni tenebra in lui discende, da lui parte. Il suo spirto selvaggio e divino s'oscura e risplende come la Notte, come il Giorno. Egli è Pan, la sostanza del Cielo della Terra e del Mare, l'Orgiaste, il Sonoro, il Vagabondo, il dio dal piè caprino, dal corno lunare, il signore del coro, il duce dell'eterno ritorno, che sopporta le stelle, incita le stirpi, dischiude la porta delle eterne visioni. Crescono in lui stagioni ineffabili. La polve dei secoli s'anima al fiato della sua bocca e levasi in trombe impetuose. Le tombe gli rendono i morti e i misteri. Dal silenzio Egli trae tutti i suoni. I novi pensieri suoi forti per entro alle selve dei tempi si scagliano come leoni. Sale il monte, scompare nell'atra nube, parla con l'aquile e i vènti. Dietro di sé lascia la turba che latra, la città del sangue e del lucro, la femmina molle; fa sosta ai torrenti. Beve, come i profeti, nel cavo della mano, mentre all'opposta riva rugge il fratel suo flavo. Come l'artefice folle del Macedone, ebro di fasto, emulando con l'arte l'orgoglio, foggia nel monte il colosso del suo desiderio inumano che cerca il dominio più vasto, che anela il più fulgido soglio. Come il dio degli eserciti, grida: «Io ti darò una fronte più dura che le fronti loro». Veggon di lungi le genti torreggiare quel suo simulacro. Dicono: «Chi trasfigura il monte?». I muscoli ingenti constringono l'ardua ossatura terribili come i serpenti che attorsero Laocoonte. Guardan l'aquile il sacro lavoro. Egli sa ciò che deve perire, e il segreto travaglio onde nasce la nova speranza o la nova beltà su la doglia del mondo, ora curvo come sotto il pondo di popoli morti, d'immensi tumuli, d'infami ruine, or raggiante di vite future. Legioni di re, coorti di pontefici e d'imperatori ebri di lutti e d'incensi, lordi di menzogne e di fuchi, torme di carnefici sordi, d'eunuchi infermi di paure, moltitudini di meretrici fameliche come le tombe, si mutano in tacita polve nelle profondità delle vie nascoste; e la polve, sitibonda sorella del fango, riceve il pianto dei cieli; e il suono d'una parola v'è seminato: «La spada si torce, la tiara si offusca, la corona si apre, la catena si spezza, il supplizio si arresta. Gloria alla Terra!». Egli canta: «Gloria alla Terra! Benigna è la madre e severa alle sue schiatte, incorruttibile e certa. Ama il figlio che pensa e che spera, che opera e che combatte; e l'innocenza offerta a tutte le vite è il suo latte, e la giustizia è la sua mammella». Canta: «Ogni alba è novella. La vittoria è nel grembo dell'alba fecondata dal sogno del forte. O Spirto, vinceremo noi l'immite elemento, e la morte informe che in fiumi d'oblio i solchi profondati agguaglia. L'un sotto il giogo dell'uomo si curverà come giumento; l'altra si farà bella del canto che eterna il cuor degli eroi. L'inno del divino ordine sorgerà dal grido rauco, dal fragor della battaglia. E la bianca rondine che vola verso l'eternità, la Speranza del giusto, farà il suo nido nelle fauci inerti del Destino». Canta: «Il bisogno, aratro infaticabile, travaglia le moltitudini folte, fremebonda gleba. Innumerevoli mani levate alla minaccia son le spighe ond'è irto il sanguineo campo fenduto. Noi getteremo, o Spino, il seme per altre raccolte. Bandiremo conviti d'amore con beatitudini molte. Tesseremo la bianca tovaglia con una invisibile spola. Il nostro puro fromento non patirà la mola per convertirsi in pani. Il ramoscel cresciuto all'ombra del dio che consola ornerà, con l'alloro e col mirto, le mense pie di domani. Il lin sincero e la lana rude al conviva saran vestimento. Su la porta che mai non si chiude ove l'uom dice: «Entra e rimani», sarà scritta la grande parola COMINCIAMENTO». Ed Egli tace, nella grazia della terra vestita di cielo, simile al fiume che sazia di sé le moltitudini e i campi. Tutto il Bene è nell'occhio profondo. La pagina del suo vangelo palpita come l'ala che in aere si spazia, splende come velo che avvampi. Tace Egli e guarda. Il suo petto titanico esala il soffio pacato d'un mondo. Tace e contempla. Una scala sorge nel suo sogno, diritta, di crisòlito e di diamante. All'imo un re moribondo v'è senza eredi; e confitta da presso v'è l'onta d'un pastor senza legge, che spinga i suoi cotti piedi come quei nella bolgia di Dante. Ma stirpi ansiose in catena infinita vi salgono. Al sommo dell'ansia il miracolo sta: la suprema bellezza, la gioia suprema, la gloria suprema: nella Luce la Libertà. O libera forza dell'Ode che precipiti sopra le turbe estuose e fai tua rapina dei cuor maschi, e il lor palpito s'ode fra i tuoi gridi intermesso, e teco li traggi ed esalti insino all'ardor che commuta in una adamantìna tempra il desire e il volere, o Ardente!, quali faci arderemo noi, quali fuochi, quali alti roghi, quali incendii vasti accenderemo noi presso e lunge, su i colli dell'Urbe, alle prode del Tevere, nei paschi dell'Agro, oggi, per questo che giunge di torri incoronato ospite del Campidoglio? Ecco le terme, ecco i circhi, gli archi, gli acquedotti roggi, vertebre dei secoli, orridi ossi. Ma se Roma si levi dal soglio per lui onorare, oggi eretta apparirà più grande a questo che vien d'oltremonte fabro di colossi, con fragore di scudi percossi. «Patria! Patria!» gridavan gli Ellèni percotendo gli scudi sospesi alle porte dei templi, quando escivan dal bianco Teatro pieni il petto del ditirambo religioso cui Eschilo dato avea l'angue e la torcia dell'insonne Erinni. «Patria! Patria!» E con ambo le braccia cingean le colonne pure, sorelle degli inni. Percotiamo gli scudi chiamando il dolce e terribile nome, suggello di labbra più sante. Colui che oggi sale il Monte Tarpeo, l'amò d'alto amore ché l'udì dalle labbra di Dante. «Italia! Italia!» Una voce d'iroso dolore dall'adriatico mare, dal mare che chiude altri morti, dal mare che vide altre onte, ripete oggi il grido, ahi, vano. E il cuore anco spera? E la fede non langue? Calpesta dal barbaro atroce, o Madre che dormi, ti chiama una figlia che gronda di sangue. Per la morte di un distruttore F.N. XXV AGOSTO MCM Disse al cuore dell'uomo: «Quando tu fervi, o cuore, largo e pieno, simile alla grande fiumana, beneficio e periglio dei lidi, quivi la tua virtù s'inizia». Disse: «Nel deserto estremo, con risa e con gridi, danzando e cantando, irrompe il mio desiderio e irraggia la sua letizia. Nacque su le montagne eterne la mia saggezza inumana, su le montagne che stanno vergini e sole nel meriggio sereno, nell'ardore solenne; pregna divenne su i culmini prossimi al Sole la mia virtù selvaggia; partorì su gli aridi macigni il più giovine de' suoi figli». Disse: «Nel deserto estremo, nella fulva sabbia, sotto la rabbia del sole, duro, violento, silenzioso, avido di conoscenza come il leone di nutrimento, senza dio, senza nome, senza spavento e spaventoso, con la volontà del leone, con la fame del leone, famelico, sitibondo, infaticabile, padrone del deserto e del mondo fui, e delle mie forze segrete. Inesprimibile e senza nome quel che fu il tormento e il giubilo dell'anima mia, quel che fu la fame e la sete dell'anima mia!». Disse: «Le fonti attossicate, i fuochi graveolenti, i sogni corrotti e i vermi nel pane della vita son necessarii? Non io la mia vita mendicai a frusto a frusto, ma esso il mio disgusto mi diede le forze e l'ale che presentivano le sorgenti dei fiumi solitarii. E per giorni e per notti, di monte in monte, oltre il bene, oltre il male, senza sosta, senza sonno, il mio volo robusto cercò cercò la fonte della gioia; e la trovò in sommo. Avido nelle acque canore s'abbeverò il mio cuore ove arde la mia grande estate. Il mio cuore, ove splende l'estate, s'abbeverò nell'acque gelide e n'ebbe gioia infinita. Tutta la mia vita fu un'alta speranza. O miei fratelli, dove siete? Accorrete, accorrete alla gioia che v'attende. Troppo si piacque della pianura la vostra virtù. Non è sete quella ch'estinguono i ruscelli garruli, quella che alla cisterna empie l'otro e vi s'indugia. Uditemi, o miei fratelli! Poi ch'io bevvi alla fonte apparite, tutta la mia vita fu una speranza eterna, tutti i miei pensieri per mille varchi e mille sentieri migrarono alla terra futura. Oh venite, fratelli in angoscia, perché io vi mostri la sorgente ignota nell'alba che si leva! Scaturisce ella con troppa veemenza e scroscia così che la coppa si riempie e si vuota. V'insegnerò come si beve. Venite a me! Lasciate gli egri e i vili alla bassura. Venite perché io vi rallegri, fratelli, ne' cuori vostri. Grande sarà l'estate su i monti con gelide fonti e silenzio infinito. L'aquile ci porteranno il cibo con i lor curvi rostri. Vivremo come i vènti forti. Negli occhi profondi avremo la terra futura. Venite a me col vostro amore che non soccombe, con la vostra sete che non si placa, quanti siete uomini che v'accresceste di conoscimento e di dolore, che la vita incideste con la vostra vita dura, che osaste abbattere le tombe perché taluno risorgesse, che seguiste il più aspro cammino a cercar le vostre anime stesse, che chiamaste il più crudo nemico per guerreggiar la vostra guerra, che santificaste nei perigli le vostre inesorabili sorti, venite a me su l'ultima altura! Vivremo come i vènti forti. Saremo fedeli alla terra, fedeli alla terra dei figli, fedeli alla terra futura». Disse: «Il mio lavoro fu la guerra, la mia pace fu la vittoria. La mia volontà fu sospesa sul mio capo come una legge, come una gloria, come un nimbo d'oro. In ogni impresa il mio pensiere fu la mia sola face. Sdegnai di bere dove bevve il gregge, sdegnai di rimirare il cielo oscurato dalla cava nube; perch'io sapea che nella rupe aerea tu eri, o sorgente pura, o sorella dell'aria, io sapea l'erta necessaria per rimirarti, o cielo pudico e ardente, libertà, serenità d'oro. O cielo su la mia testa nuda, giocondo abisso, gorgo di luce, festa del sole, o cielo senza nube e senza tuono, ecco la mia innocenza, ecco che io risorgo verso di te mondo di ogni tabe e di ogni lebbra, ecco che io sono colui che afferma e colui che benedice; e per questo lottai su la terra, per questo ebbi tanta guerra tante armi tante ire: per aver libere mani, o serenità liberatrice, miracolo d'oro sul mondo, per avere un giorno le mani libere a benedire! E così benedico: «Essere sopra ogni cosa come il suo proprio cielo, come il suo volubile tetto, come la sua cerulea volta e l'eterna sua pace». E felice colui che benedice così! Però che la sorgente dell'eternità sia il battesimale fonte di tutte le cose, oltre il bene, oltre il male; e il bene e il male sien ombre fuggitive; e su tutte le cose unico si spanda il ridente cielo delle sorti misteriose; e sia la terra una divina tavola al divino gioco degli iddii che tu porti, Eternità, per colui che t'ama. Però che io sia colui che t'ama, o Eternità, colui che brama il tuo anello eternale, colui che vuole da te il nuziale anello del ritorno e del divenire, colui che ti chiama al suo desire ed al suo giorno, o Eternità, per teco generar la sua prole, colui che fu cieco per la possa del tuo sole che a lungo ei mirò fiso, colui che alfine ha un riso vasto come un baleno creatore sul mondo, colui che ama il tuo seno, il tuo seno profondo, o Eternità, colui che t'ama!». Così parlava l'Asceta. Questa parola disse colui che terribilmente visse per la sua terribile mèta. Così parlava su la plebe schiava su la moltitudine morta colui che errò lunghi anni pei labirinti fallaci, per tutte le ambagi dei secolari inganni, e ritrovò la porta antica della Vita bella. Disse: «Insegno al cuore umano una volontà novella». Disse: «Insegno all'uomo non l'amore del prossimo ma del più lontano, del vertice ch'ei s'elegge. Sia l'uomo la sua propria stella, sia la sua legge e il vendicatore della sua legge». E il fiato impuro dell'uomo lo soffocava; lo soffocava il lezzo della bestia inferma e vile. Ed egli andava andava andava, cupo ed ostile, nell'aria gravida di tempesta, emulo del lampo e del tuono, ebro della sua guerra, splendido della sua virtù, irto de' suoi pensieri, tra i sogni grami di mille e mille anime stanche. E disse: «Il tuo spirto e la tua virtù infiammino anche la tua agonia, come il fuoco del tramonto infiamma la terra. Così voglio io morire perché a causa di me tu ami, o fratello, sempre più la terra; così voglio io reddire luminoso alla gran madre terra». Ahi che dal Fato, cui d'evento in evento amò di così gagliardo amore, non gli fu dato morire nel combattimento, morire alzato e pronto al più difficile varco, nell'atto di tendere l'arco lucido ponderoso per l'ultimo dardo, il grande arco d'Ulisse, quello dal nervo che garrisce come la rondine messaggera, quello che tende sol uno contro la schiera innumerevole! Ahi che il notturno Fato l'oppresse a mezzo dell'opra! Ed egli stette nell'ombra senza mutamento, immoto, vacuo, taciturno come un cratère spento. Poi, come l'acqua informe colma i cratèri immemori del fuoco pugnace, la materia eguale l'agguagliò nell'ombra infinita e nei silenzii eterni ove si celano le norme del ritorno e del divenire, ove tutte le forme dell'essere s'aprono in misteri ineffabili e la morte è vita e la vita è morte. O Verità redimita di quercia, cantami la sua vita e la sua morte con la possa delle antiche lire! Canta pei figli degli Ellèni il Barbaro enorme che risollevò gli iddii sereni dell'Ellade su le vaste porte dell'Avvenire! Io lo canterò, io figlio degli Ellèni, con una ode ampia, di possente volo; perché dissi, quando udii la voce di lui solo io solo, dal suo esiglio nel mio esiglio, dissi: «Questi è il mio pari. Questo duro Barbaro che bevve una colma tazza dell'ardente vin campàno ed ebro di dominio e di libertà corse i mari armoniosi agognando il suolo ove l'uomo per la divina etra incedeva al fianco del dio ed entrambi erano Ellèni, questi è il fratel mio. Salutammo le rosse triremi nelle acque di Salamina nutrice di colombe; portammo una corona alle tombe di Maratona». Dissi: «O Vita, egli non sa che vive su le rive sonore un figlio della florida stirpe. Io nasco in ogni alba che si leva. Io so io so come si beva, o Vita. E chi t'amò su la terra con questo furore? Chi più larghe piaghe s'ebbe nella tua guerra e chi ferì con spade di più sottili tempre? Chi di te gioì sempre come s'ei fosse per dipartirsi? Ah tutti i suoi tirsi il mio desiderio scosse verso di te, o Vita dai mille e mille vólti, a ogni tua apparita, come un Tìaso di rosse Tìadi in boschi folti, tutti i suoi tirsi! Io nasco in ogni alba che si leva. Ogni mio risveglio è come un'improvvisa nascita nella luce: attoniti i miei occhi mirano la luce e il mondo. Egli non sa come sien pure le mie pupille, o Vita, mirando il cielo verecondo. Egli non sa come trabocchi il mio cuore, simile alla grande fiumana. Che m'insegnerà egli, o Vita.? Io so come si danzi sopra gli abissi e come si rida quando il periglio è innanzi, e come si compie sotto il rombo della tempesta l'opera austera, e come si combatta con l'ugne e col rostro, e come si uccide, e come si tessan le ghirlande dopo le pugne». Ma riconobbi i suoi pensieri fraterni come il navigatore ansio riconosce i verzieri d'Italia da lungi all'odore che gli recano i vènti. Il tuo sole, il tuo sole, o Italia, colorò la sua fronte, maturò la sua saggezza forte, converse in oro il ferro delle sue saette. Il barbaro pellegrino sotto il tuo cielo alcionio apprese il canto dal coro alato delle tue selve aulenti. O Italia, egli bevve il vino delle tue vigne ambrosio; colse il miele de' tuoi favi meri, le rose de' tuoi roseti gravi di api e di colombe. I piedi suoi divennero leggeri su i prati di violette. La serenità adamantina che s'inarca su i ghiacciai dell'erme Alpi placò la sua furia. Gli proposero enimmi le rupi che nel mar di Liguria si protendono come sfingi coronate di fiori. Come un novo Erme senza caducèo egli portò su la sua spalla Dioniso infante, nelle Terme di Caracalla, nel Fòro, nel Colossèo. Come Eraclito nel tempio efesio, egli meditò la sua dottrina illuminato dagli ori di San Marco nell'ombra marina. E il fresco vento etesio gonfiò la sua vela nei meriggi d'estate, fra Sorrento e Cuma, sul golfo ove il Vesuvio fuma. Quivi, o triste ombra della greca Antigone, anima profonda che gli fosti custode fedele nella notte cieca, o sorella, quivi reca il cadavere dell'eroe, sul golfo lunato e grande come l'arco ch'egli tese. Gli alzeremo un tumulo grande, un'altissima tomba, là dove le coste sono più scoscese e il flutto più rimbomba nelle caverne più nascoste con le eterne risposte alle eterne domande. Gli daremo ghirlande d'ulivo selvaggio e, tra le accese faci, libàmi come all'altare. Gli canteremo in coro una ode misurata al respiro del mare. Canteremo: «Qui dorme, nella sacra Italia, sul mare delle Sirene, sul Mare Nostro, in vista dell'arce cumèa dove il figlio di Venere Enea giunse recando i Penati di Troia ed i Fati di Roma, qui dorme, in vista del fuoco distruttore e creatore che irrompe dal cuor della Terra, vegliato dalle antiche Mire figlie della Notte arbitre sole della nascita e della morte, o prole degli Ellèni, qui dorme, placate le ire dopo tanta guerra, il Barbaro enorme che risollevò gli iddii sereni dell'Ellade su le vaste porte dell'Avvenire». Per la morte di un capolavoro Foreste su i monti, chiome fragorose di oro di porpora e di croco all'aquilone, su l'aeree fronti immense corone che affoca il foco dei tramonti; rosarii di rose nate su i fonti solitarii ancor tiepidi dell'Estate che vi s'immerse; orti, orti conclusi, pomarii soavi cui l'Autunno pone monili più gravi che quelli di Serse poi che su le gemme celate il bel garzone ebro il pomo punico aperse; voluttà della Terra, o fronde, o fiori, o frutti, gioia di tutti, prole delle Stagioni sacre, portento dell'Acqua e del Sole, fronde, fiori, frutti, ecco, ora nati, ora distrutti, chi mai si duole oggi di vostra bella morte? quale corda piange vostri dolci lutti? Vivono le profonde radici nel buio attorte. Ancóra brilleran felici i ramicelli, e il suco acre si farà di miele nelle polpe bionde. Ma la creatura infinita, in cui la mente dell'uom fatto dio continuò l'opera della divina Madre e trasfigurò la vita sotto la specie dell'Eterno; ma l'effigie pura in cui l'uom solo nell'oblìo di sé mutamente svelò la virtù del dolore sotto la specie dell'Eterno; ma il mondo creato sopra la Natura, ove con un gesto l'uom si fe' signore del Fato e congiunse la sua forza antica alla sua bellezza futura sotto la specie dell'Eterno; ma lo specchio dell'Ideale, o Poeti, la misura degli Eroi, la somma dell'Arte, il vertice del Pensiero e del Mistero, il segno visibile dell'Immortale muore, o Poeti, non è più. Perisce e non si rinnovella. Da noi si diparte; non avrà ritorno. S'oscura per sempre nella notte eguale. Fronde fiori frutti nel sereno giorno rivedremo noi, la giovine Terra, la sua genitura, e non l'infinita creatura bella! Piangete, o Poeti, o Eroi, per la luce che non è più, per la gioia che non è più. Umiliato è l'Universo. Menomato è l'orgoglio delle sorgenti. Un grande fiume è inaridito. Un gran potere s'è disperso. Nella memoria delle genti resta la grandezza d'un nome come il nome d'un mito lontano, d'un cielo abolito, d'un dio che parlò nel silenzio degli evi, bianchissimo sopra le nevi, vestito di sua verità. O Poeti, Eroi, volontà meravigliose della giovine Terra, date il canto e il pianto, sopra la guerra, alla meraviglia che non rivivrà. Culmine delle speranze sovrumane alta anima senza compagna, precinta isola dal dolore infinito, solitudine dell'abisso, occhio aperto e fisso nell'interno mare della Bellezza, ebbe Egli un nome per voi? «Chi mangia il pane con me, mi ha alzato contro le sue calcagna» parlava ai suoi il signore del Convito; e il pane azzimo involto nell'erbe amare eragli innanzi, e la tristezza era immensa. «In verità vi dico: quegli che bagna la mano insieme a me nel piatto, quegli mi tradirà.» E la man nell'atto non tremava sopra la mensa. Udiste voi queste parole? Parlò per voi queste parole Egli, il Galileo? Ben le udiste dall'anima sua che fu triste sino alla morte? Ebbe per voi nome Gesù Egli, e il giorno degli azzimi era quello che risplendea dietro la sua testa? Piangete, o Poeti, o Eroi, per la fiamma che non è più, per la gloria che non è più! Era l'eterna primavera, la festa d'ogni ritorno; ed Egli era nel silenzio suo profondo solo col cuor del mondo e con la sua sorte; e gli uomini schiavi e tardi erangli intorno. E disse Egli queste parole: «Dove io vo, tu non puoi seguirmi». Ah queste udimmo noi, fratelli, antiche parole d'eroi che sonarono verso tutte le cime terribili, al nembo ed al sole, per l'erte cui il sogno sublime impresse vestigi che furon suggelli. «Dove io vo, tu non puoi seguirmi.» Udimmo; e non ebbe Egli nome per noi; non lontanar dietro le sue chiome vedemmo la rupe di Scizia o il Calvario; non vedemmo la croce, né l'avvoltore. Ma, solitario tra la sua gente, era Egli sopra il dolore Colui che annuncia che rivela e che inizia; ed eglino erano gli schiavi che non veggono e che non sanno, schiavi eterni della forza e dell'inganno; e la creatura dal viso lene, che soleva adagiarglisi al petto invincibile, il suo diletto femineo giglio reclinato, l'anima dalle soavi labbra, quel sorriso che parve quasi il minor fratello del suo dolore, anche era distante. Ed Egli era solo, il gran cuore era solo, incluso nel petto come in diamante. E non eravi per lui padre né figlio, e non amico, e non amante. «Ah, chi mai lo consolerà?» dicemmo noi nello spavento. «Chi consolerà Colui ch'ebbe a sé testimoni il Sole, il Vento, le sorgenti dei Fiumi, il riso innumerevole delle onde marine, la madre di tutte le cose, la Terra? Chi mai lo consolerà nel dì supremo? L'antico Oceano? Nicodemo con gli aromi della Giudea? Il canto delle Oceanine? Il lamento delle pie donne? Qual parola nata dal sale del mare e del pianto lenirà l'insonne?» E noi leggemmo sol nel gesto delle sue mani e nell'ombra de' suoi cigli: «Non han le case degli uomini giacigli per l'insonne, dov'egli giacersi voglia. Non io m'arresto alla tua soglia. Dove io vo, tu non puoi seguirmi. La mia certezza canta nel mio sentiero ed alza ai perigli colonne trionfali sul limite degli abissi. È il mio pensiero più che il giorno e il domani. So come sia dolce grappoli vermigli premere e bei capei prolissi; so come sia dolce una foglia, e la gola della colomba. Ma beni più lontani cerco, e il silenzio. Non della mia parola io m'inebrio, ma di quel che mai non dissi». O puro Eroe, inalzato sopra il tempo e sopra le favole umane, o segno visibile dell'Immortale, che vale ora il pane che diviso t'è innanzi? Che vale il manto che ti traveste, e il nome che ti fa santo nelle preci vane, e lo stuolo inquieto che ti circonda? Ben lungi sei tu dall'altare frequente. Terreno e celeste, tu sei a te stesso il tuo tempio. Ti creò dalla più profonda verità del suo spirto, dal più bello ardore della sua mente quel segreto artefice che volle foggiarsi le ale ad attingere un ciel novello. A similitudine di sé ti volle quegli ch'ebbe in sé la radice ed il fiore della volontà perfetta con tutto il travaglio del mare e tutte le geniture della terra e le virtù dei saggi e degli antichi iddii e i gèrmini senza forma e senza nome, le semenze delle bellezze future. A similitudine di sé ti fece quel Prometèo meditabondo che immune fu dal supplizio, rapitore inviolabile, modello del Mondo. E tu vivesti, inspirato dal più forte alito della sua bocca che nutrita s'era alla plenitudine della vita e della morte. Vivesti solo su la cima ultima della Conoscenza, sol tu capace di respirarvi, imperiale come il sire della vita e della morte, sì lungi agli uomini e pur sì presso a loro, vedendo il male passare, la speranza durare, la pace seguire alla guerra, il sogno condurre il lavoro, ma senza felicità e senza corona perché tu sapevi che nata non era dalle arti umane la gioia onde avresti tu potuto gioire e nato non era dal sen della Terra l'alloro onde tu avresti potuto incoronarti. Ahi, che rimane oggi fra i cieli e le tombe, nella notte ove s'oscura la tua bellezza, nella gente cui tu raggiavi con la bellezza la tua muta dottrina, nella patria divina ove Leonardo ti fece misura d'eroi, specchio dell'Ideale, norma dell'opre, culmine delle speranze sovrumane, or che rimane per l'ultimo tuo sguardo, che mai ti si scopre se non allegrezza d'irrisori ed onta di schiavi? Il sole declina come te, fra i cieli e le tombe. Su l'ampia ruina inane caligine incombe. E tu così dunque per sempre ti parti dai cuori cui fin la tua ombra fu luce e il tuo segno fu gioia? Ten vai tu forse nel prato d'asfodelo sorridendo verso gli eguali? Trapassi tu di là dal velo a contemplar le cose eterne con fronte indicibile ed occhi immortali? Chi verrà dietro la tua ombra? Ah, per somigliarti una volta, per esser degno del tuo segno, innanzi ch'ei muoia taluno di noi darà al rogo l'error che l'ingombra! E arderà l'anima sua pura in un atto come in un lampo arde il potere di un cielo. Canti della ricordanza e dell'aspettazione Il sole declina fra i cieli e le tombe. Ovunque l'inane caligine incombe. Udremo su l'alba squillare le trombe? Ricòrdati e aspetta. Vedremo all'aurora l'Eroe sollevarsi? Ahi dietro la nube splendori scomparsi! Rilucono selci per fiumi riarsi. Ricòrdati e aspetta. Son nude le selci, son aride e nude ma piene di fato ciascuna in sé chiude per l'urto favilla di grande virtude. Ricòrdati e aspetta. È piena di fato la muta ruina. All'ombra dei marmi la via cittadina si tace pensando che l'ora è vicina. Ricòrdati e aspetta. La polvere è un turbo di gèrmini folti. Il rosso mattone qual sangue che sgorghi fiammeggia novello per case e per torri. Ricòrdati e aspetta. Fra l'erba che cresce davanti ai palagi terribili, spogli dell'armi e degli agi, s'ascondono forse divini presagi. Ricòrdati e aspetta. È figlia al silenzio la più bella sorte. Verrà dal silenzio, vincendo la morte, l'Eroe necessario. Tu veglia alle porte, ricòrdati e aspetta. Le città del silenzio FERRARA, PISA, RAVENNA O deserta bellezza di Ferrara, ti loderò come si loda il vólto di colei che sul nostro cuor s'inclina per aver pace di sue felicità lontane; e loderò la chiara sfera d'aere e d'acque ove si chiude la tua melanconia divina musicalmente. E loderò quella che più mi piacque delle tue donne morte e il tenue riso ond'ella mi delude e l'alta imagine ond'io mi consolo nella mia mente. Loderò i tuoi chiostri ove tacque l'uman dolore avvolto nelle lane placide e cantò l'usignuolo ebro furente. Loderò le tue vie piane, grandi come fiumane, che conducono all'infinito chi va solo col suo pensiero ardente, e quel lor silenzio ove stanno in ascolto tutte le porte se il fabro occulto batta su l'incude, e il sogno di voluttà che sta sepolto sotto le pietre nude con la tua sorte. O Pisa, o Pisa, per la fluviale melodìa che fa sì dolce il tuo riposo ti loderò come colui che vide immemore del suo male fluirti in cuore il sangue dell'aurore e la fiamma dei vespri e il pianto delle stelle adamantino e il filtro della luna oblivioso. Quale una donna presso il davanzale, socchiusa i cigli, tiepida nella sua vesta di biondo lino, che non è desta ed il suo sogno muore; tale su le bell'acque pallido sorride il tuo sopore. E i santi marmi ascendono leggeri, quasi lungi da te, come se gli echi li animassero d'anime canore. Ma il tuo segreto è forse tra i due neri cipressi nati dal seno de la morte, incontro alla foresta trionfale di giovinezze e d'arbori che in festa l'artefice creò su i sordi e ciechi muri come su un ciel sereno. Forse avverrà che quivi un giorno io rechi il mio spirito, fuor della tempesta, a mutar d'ale. Ravenna, glauca notte rutilante d'oro, sepolcro di violenti custodito da terribili sguardi, cupa carena grave d'un incarco imperiale, ferrea, construtta di quel ferro onde il Fato è invincibile, spinta dal naufragio ai confini del mondo, sopra la riva estrema! Ti loderò pel funebre tesoro ove ogni orgoglio lascia un diadema. Ti loderò pel mistico presagio che è nella tua selva quando trema, che è nella selvaggia febbre in che tu ardi. O prisca, un altro eroe renderà l'arco dal tuo deserto verso l'infinito. O testimone, un altro eroe farà di tutta la tua sapienza il suo poema. Ascolterà nel tuo profondo sepolcro il Mare, cui 'l Tempo rapì quel lito che da lui t'allontana; ascolterà il grido dello sparviere, e il rombo della procella, ed ogni disperato gemito della selva. «È tardi! È tardi!» Solo si partirà dal tuo sepolcro per vincer solo il furibondo Mare e il ferreo Fato. Le città del silenzio RIMINI Rimini, dove la cesariese Aquila gli occhi dubbii al Fato avulse col rostro e il diede al Sire che l'impulse verso Roma sì cieco alle contese, in te non cerco i segni delle imprese ma le tombe cui semplici ti sculse pe' i Vati e i Sofi quei che al genio indulse pur tra il furor delle mortali offese. Dormon gli Itali e i Greci lungo il grande fianco del Tempio, ove le caste Parche sospesero marmoree ghirlande. Ignorar voglio i nomi ed ascoltare sol l'antico Pensier rombar nell'arche come il Mar nelle conche del tuo mare. URBINO Urbino, in quel palagio che s'addossa al monte, ove Coletto il Brabanzone tessea l'Assedio d'Ilio, ogni Stagione l'antica istoria tesse azzurra e rossa. E Guidubaldo torna dalla fossa a tener corte, e tornano a tenzone il Bembo e Baldassarre Castiglione, Giuliano de' Medici e il Canossa. Ascolta Elisabetta da Gonzaga a fianco dell'esangue Montefeltro poetar Serafino, il novo Orfeo; o chiede la Gagliarda ond'ella è vaga, ver lei musando l'armillato veltro, al liutista Gianmaria Giudeo. PADOVA Non alla solitudine scrovegna, o Padova, in quel bianco april felice venni cercando l'arte beatrice di Giotto che gli spiriti disegna; né la maschia virtù d'Andrea Mantegna, che la Lupa di bronzo ebbe a nutrice, mi scosse; né la forza imperatrice del Condottier che il santo luogo regna. Ma nel tuo prato molle, ombrato d'olmi e di marmi, che cinge la riviera e le rondini rigano di strida, tutti i pensieri miei furono colmi d'amore e i sensi miei di primavera, come in un lembo del giardin d'Armida. LUCCA Tu vedi lunge gli uliveti grigi che vaporano il viso ai poggi, o Serchio, e la città dall'arborato cerchio, ove dorme la donna del Guinigi. Ora donne la bianca fiordaligi chiusa ne' panni, stesa in sul coperchio del bel sepolcro; e tu l'avesti a specchio forse, ebbe la tua riva i suoi vestigi. Ma oggi non Ilaria del Carretto signoreggia la terra che tu bagni, o Serchio, sì fra gli arbori di Lucca rosso vestito e fosco nell'aspetto un pellegrino dagli occhi grifagni il qual sorride a non so che Gentucca. Le città del silenzio PISTOIA I. T'amo, città di crucci, aspra Pistoia, pel sangue de' tuoi Bianchi e de' tuoi Neri, che rosseggiar ne' tuoi palagi fieri veggo, uom di parte, con antica gioia. Come s'uccida in te, come si muoia i Panciatichi sanno e i Cancellieri. Fin quel de' Sigisbuldi, tra pensieri d'amor, grida: «Emmi tutto 'l Mondo a noia!». Vanni Fucci odo, come nell'Inferno tra i sibili del serpe che l'agghiada, «A te le squadro!» ulular furibondo. Cino rincalza, folle del suo scherno: «E' piacemi veder colpi di spada altrui nel vólto e navi andar al fondo». II. Or placato è nel suo marmo senese, fuor d'ogni parte, il buon Giureconsulto; e stanno intorno a lui nel marmo sculto gli alunni che animò Cellin di Nese. È in pace la Città dal pistolese di lama corta. Intorno al suo sepulto dorme, né vede sul sepolcro occulto sorridere la bella Vergiolese. Là dove il mul nemico a Dio Signore, col Mironne e con Vanni della Monna, involava a Sant'Iacopo il tesauro, ella ride il Digesto e il suo dottore, quasi celata dietro la colonna, Musa furtiva che nasconde il lauro. III. Ma nella sagrestia de' belli arredi io conosco un sorriso più divino. Trema, o Pistoia, in te come il mattino quando nasce su' colli; e tu no 'l vedi. Colselo un giorno Lorenzo di Credi forse in un giovinetto fiorentino, stando con Leonardo e il Perugino presso Andrea che di gloria ebbeli eredi. Dalla tavola al marmo, ove riposa il Forteguerri sotto il grave incarco, si diffonde quel tremito leggero. E la Speranza ha la maravigliosa bocca che il Vinci incurverà com'arco a mirar l'infinito del Mistero. PRATO I. O Prato, o Prato, ombra dei dì perduti, chiusa città, forte nella memoria, ove al fanciul compiacquero la Gloria e la figliuola di Francesco Buti! Spazzavento, alpe delle mie virtuti, che lustri come di ferrigna scoria, ove parvemi svelta alla Vittoria penna di nibbio fra' tuoi sassi acuti! O lapidoso letto del Bisenzio ove cercai le sìlici focaie vigilato dal triste pedagogo, camminando in disparte ed in silenzio, mentre l'anima come le tue ghiaie faceasi dura a frangere ogni giogo! II. Sul petrame ove raro striscia il biacco, rosseggiar come sangue che s'accaglia e incupirsi io vedea l'alta muraglia che il Cardona scalò per dare il sacco. E ogni sera nel verde bronzo il Bacco infante alla nascosta mia battaglia ridea dal fonte. «Il tuo riso mi vaglia contra il compagno scaltro dal cor fiacco!» E amico l'ebbi, il pargolo divino, su l'agil coppa sua, tra i freschi getti. Ei m'insegnava il riso di Lieo. Or fatto è prigioniere nel museo squallido, in mano degli scribi inetti. Io spremo dai miei grappoli il mio vino. III. Ma ancóra pende sopra il capitello florido, al sole e al vento come un grande nido, il pergamo ricco di ghirlande ignude, o Michelozzo, o Donatello! Nel marmo appeso udii cantar l'augello come nel nido; e il Duomo, che in sue bande verdi e bianche chiudea le venerande reliquie, fogliar vidi al sol novello. E non il Sacro Cingolo, che v'è tra le mura cui pinse Agnolo Gaddi, adorai quivi reclinando il capo; ma il metallo che Bruno di Ser Lapo fece di grazie naturato. E caddi in ginocchio dinanzi a Salomè. IV. La figlia d'Erodiade, apparita al Tetrarca, in sua frode e in sua melode magica ondeggia: entro il bacino s'ode bollire il sangue della gran ferita. Frate Filippo, agli occhi tuoi la Vita danza come colei davanti a Erode, voluttuosa; e il tuo desìo si gode d'ogni piacer quand'ella ti convita. Ma il Dolore guardar sai fisamente e la Morte, e le lacrime, e lo strazio delle bocche e l'orror de' vólti muti. Io ti vedea sopra la sabbia ardente schiavo in catene; e ti vedea poi sazio dormir sul seno di Lucrezia Buti. V. Filippino, in sul canto a Mercatale quante volte intravidi pe' razzanti vetri del Tabernacolo i tuoi Santi come i fiori d'un orto angelicale! Fiori tu désti alla città natale: freschi petali i vólti, aiuole i manti. E intorno alla Maria le tue spiranti grazie non ebber mai sì lievi l'ale. Vedevi, oprando, la materna porta ove l'antica suora in atti umìli pregava pel figliuol del suo peccato. Demoniaco segno, il seggio porta al piede, come l'ara dei Gentili, testa bicorne di capron barbato. VI. Tali m'ebb'io maestri. O Giuliano da San Gallo, il tuo tempio fu misura dell'arte a me che la sua grazia pura mirai caldo del fren vergiliano. La croce greca l'ordine soprano reggea della pacata architettura, spaziandosi in ritmo ogni figura come il bel verso al batter della mano. La cupola dai dodici occhi tondi il bianco-azzurro fregio dei festoni i fiori i frutti gli òvoli i dentelli i dorici pilastri dai profondi solchi eran come nelle mie canzoni fronti sìrime volte ritornelli. VII. O grande architettor della Canzone, più anni Convenevole il Grammatico, dal Bisenzio natìo maestro erratico, alunno t'ebbe in Pisa e in Avignone. La fame eragli al fianco assiduo sprone; e tu benigno al vecchierel salvatico fosti, quando per pane e companatico ei mise in pegno il bel tuo Cicerone. Non la foglia di lauro ma d'assenzio rugumando, ei tornò nel tardo autunno alla tua terra che gli diede un'arca. E dalla Sorga a lui verso il Bisenzio mandò la gloria il suo divino alunno. L'epitafio da te s'ebbe, o Petrarca. VIII. E Guido del Palagio, il Fiorentino, non mandò egli sue canzoni al banco di Porta Fuia, al mercatante Bianco, all'orfano di Marco di Datino? Guido le belle rime e l'angioino fiordaliso donavagli il Re franco. Per le terre a far paci, non mai stanco, sen giva il vecchio vestito di lino. «Probitas» scrisse il re nel suo diploma. Cantava Guido: «O gentil popolano, sia chi si vuole, ascolta il mio latino!». E l'orfano di Marco di Datino ripetea, tra la rascia e il pannolano: «Recatevi a memoria l'alta Roma!». IX. Nel novel tempo del Decamerone o Ser Lapo Mazzei, sottil notaio, che buon villico foste e pecoraio e, innanzi Fra Girolamo, piagnone, ogni giorno s'avea vostro sermone «Francesco ricco» in quel giardin suo gaio, alla Porta, fiorito dal denaio dei fondachi di Pisa e d'Avignone. Gli mutaste in bigello ed in albagio i drappi di Damasco e quei d'Aleppo; ond'ei fece del Ciel l'ultimo acquisto. Seguì nel Cielo Guido del Palagio; e l'unta quercia del suo banco in Ceppo ritornò, per i Poveri di Cristo. X. Ma al sol s'allegra in la vita serena Messer Agnolo; e par che gli fiorisca vermiglio il cor se Mona Amorrorisca favelli, o canti Bianca la sirena. Il felice Bisenzio è la sua vena. Discorrer fa la Sapienza prisca negli Animali, sì che le obbedisca il buon re di Meretto Lutorcrena. Oh di nostro parlar limpida fonte in cui mi rinfrescai! Della Bellezza Celso ragiona all'ombra degli allori. Dice: «Le guance bramano bianchezza più rimessa che quella della fronte...». Le tue, Selvaggia che il bel Prato infiori! XI. E nella villa di Lorenzo Segni sopra Sant'Anna, ove a Bernardo è caro meditar le sue Storie o legger Maro, e suoni e balli allegrano i convegni. Tempo non è che d'aspro sangue impregni la polve il Guazzalotro o il Dagomaro; tempo è che il figlio di Fioretta a paro col Firenzuola i molli amori insegni. Ma il Ferrucci stramazza a Gavinana. Scossa da Lorenzino l'ultimo urlo getta la Libertà dalla man mozza. Sotto il maligno agosto, in su l'alfana bolsa cavalca giù da Montemurlo tra gli schemi plebei Filippo Strozza. XII. O Libertà, colui che abbeverasti del tuo latte alla tua sinistra mamma sì che col nutrimento egli la fiamma del tuo gran cor si bevve e i sogni vasti, il Leon primogenito nei Fasti della tua nova genitura, infiamma de' suoi vestigi il suol, dall'alto dramma di Roma escito agli ultimi contrasti. Quivi il Profugo sosta. E la giogaia, la gleba, il fonte, l'albero, la porta ch'egli varca, la mensa ove s'asside, il pan che spezza, l'uomo a cui sorride sono sacri. E il molino di Cerbaia splenderà fin che Roma non sia morta. XIII. O Vaiano, Cammin di Spazzavento, Madonna della Tosse, umili e insigni nomi di luoghi e di fati! I macigni e gli sterpi indagai pien di spavento. Taceva il suolo, senza mutamento Ma non vidi, pe' tramiti ferrigni, passi d'eroe? Me li facea sanguigni tutto il sangue del cor mio violento. Lui seguitai per monti e boschi e fiumi, Lui vidi giungere al Tirreno, ignoto entrar nel mare come un dio marino. E, quando mi chinai su' miei volumi ebro, nel canto omerico il piloto re d'Itaca mi parve men divino. XIV. Lascia che in te s'indugi la mia rima, Città della mia chiusa adolescenza, ove alla fiamma della conoscenza si rivelò la mia bellezza prima. L'anima del fanciullo è fatta opima. Ave, ingigliata figlia di Fiorenza! Quei ch'era ignaro della sua potenza ora combatte a conquistar la cima. Ti mando sette e sette spade acute che recisero i dìttami e gli acanti della Memoria, e n'hanno aulente il ferro. Le promesse ti furon mantenute. Ma il più fiero de' mostri or m'ho davanti. L'onta cada su me, se non l'atterro. Le città del silenzio PERUGIA I. Maschia Peroscia, il tuo Grifon che rampa in cor m'entrò col rostro e con l'artiglio, onde tutto il mio sangue acro e vermiglio delle immortali tue vendette avvampa. Certo segnato fui della tua stampa un dì, tra ferro e fuoco io fui tuo figlio ancor vivo, qual fecemi il Bonfiglio, là sul muro ove Totila s'accampa. Le catene spezzai nelle tue strade, precipitai gli uccisi per isfregio dalle tue torri, usai spiedo e roncone. Brillar vidi tra il rugghio delle spade il mio sogno di re nell'occhio regio di Braccio Fortebraccio da Montone. II. Dal Palagio non scendono, o Peroscia, i tuoi Priori le solenni scale? L'acqua, che ai gradi della Cattedrale terse il sangue degli Oddi, ancóra scroscia. Tace la piazza. Il Gonfalon s'affloscia. Vento d'odio o d'amor più non l'assale? Ecco Astorre Baglione, a Marte eguale, che cavalca con l'asta in su la coscia! Anco viene Gismondo a piè, con tanta levità che assimiglia presta lonza: lo scolare alemanno i passi ammira; e Grifonetto, il figlio d'Atalanta, senza elmo, come il sole che l'abbronza bello: valletti ha il Tradimento e l'Ira. III. Il magnifico Astorre a Porta Sole mena la donna sua del sangue Ursino. Monna Lavinia in veste d'oro fino danza a suono di piffari e viuole. La mensa d'ogni frutto e fior redole, reca d'ogni ragion confetti e vino. In quell'ora il signor di Camerino soffia a Carlo Barciglia sue parole. E il gobbo invesca Filippo di Braccio. Mastro d'inganni è il bastardo: ei sghignazza pensando a Giovan Pavolo e a Zenopia. E, mentre Astorre nel fraterno abbraccio sorride, su Peroscia che gavazza versa una negra iddia la Cornucopia. IV. Dorme col suo bagascio Simonetto che in vita non conobbe mai paura ed Astorre non sa che in sepoltura è per mutarsi il nuzial suo letto. «Griffa! Griffa!» Il perduto giovinetto apre tutte le porte alla congiura. Ecco primo il bastardo. Ei raffigura il grande Astorre al grande ignudo petto. Questi urla: «Misero Astorre che more commo poltrone!». E spira sotto i colpi ciechi d'Ottaviano dalla Corgna. Ma Gian Pavolo, il suo vendicatore che tornerà lione tra le volpi, escito è in salvo per la Porta Borgna. V. Giacciono su la via come vil soma gli occisi. Or qual potenza li fa sacri? Nei corpi è la beltà dei simulacri che custodisce l'almo suol di Roma. Sembrano infusi in un sublime aroma, se ben privi de' funebri lavacri. Quasi letèi papaveri son gli acri grumi, serto di porpora alla chioma. Traggono allo spettacolo le genti, percosse di stupore. Il Maturanzio sogna Achille Pelìde e il Telamonio. Ma nella cerchia di quegli occhi intenti, o Peroscia, è un divino testimonio: talun nomato Rafaele Sanzio. VI. Coi fanti e con le lance alle Due Porte Iovan Pavolo vien sul suo morello. Nitrire ode il corsiero del fratello tradito; e il cor gli rugge: «A morte! A morte!». Di repente rivolgesi la sorte. «Addosso a Corgna! A me Monte Sperello!» D'ogni banda cavalcano al macello i partigiani in arme con le scorte. Entra il gran falco da Sant'Ercolano e incontra il figlio d'Atalanta. «Addio, traditore Grifone: sei pur qua! Non t'ammazzo. Non vo' metter la mano io nel mio sangue. Vattene con Dio.» E sprona innanzi a prender la città. VII. Cade reciso il bello infame fiore. Filippo Cencie con Messer Gintile l'abbatte in su le selci. «O Grifon vile, or tu griffa se puoi, vil traditore» Portato è in piazza su la bara, ad ore ventidue, come Astorre! Il grido ostile tacesi a un tratto. Ecco la giovenile madre china sul figlio che si muore. Ecco Atalanta, la viola aulente, ecco Zenopia, la soave rosa, più belle nell'orror della gramaglia. Inondano di pianto il moriente. E intorno alla bellezza dolorosa sospeso arde il furor della battaglia. VIII. Ben è che dal tuo vertice selvaggio tu guardi a valle il sacro fiume nostro, maschia Peroscia che con l'ugne e il rostro sì togli preda e vendichi l'oltraggio. Dalla Lupa il tuo Grifo ebbe il retaggio. Sempre il tuo sangue splende come l'ostro. Per dardo in torre e per flagello in chiostro sanguina fiammeggiando il tuo coraggio. O Turrena, città pontificale, grande arce guelfa, al Papa e a Dio ribelle, ligia al Sole, devota all'Aquilone, non odi su la porta comunale, nell'irto bronzo contra l'evo imbelle, l'urlo del Grifo e il rugghio del Leone? ASSISI Assisi, nella tua pace profonda l'anima sempre intesa alle sue mire non s'allentò; ma sol si finse l'ire del Tescio quando il greto aspro s'inonda. Torcesi la riviera sitibonda che è bianca del furor del suo sitire. Come fiamme anelanti di salire, sorgon gli ulivi dalla torta sponda. A lungo biancheggiar vidi, nel fresco fiato della preghiera vesperale, le tortuosità desiderose. Anche vidi la carne di Francesco, affocata dal dèmone carnale, sanguinar su le spine delle rose. SPOLETO Spoleto, non la Rocca che ti guarda ghibellina dal Guelfo tuo nemico, né la grandezza di Teodorico che pensosa nel vespro vi s'attarda, non la Borgia onde par che tu riarda subitamente del trionfo antico, né dal vasto acquedotto all'erto vico segno romano ed orma longobarda cerco, ma ne' silenzii dell'Assunta l'arca di Fra Filippo che dai marmi pallidi esala spiriti d'amore mentre nel muro pio la sua defunta Vergine, sciolta dalla morte, parmi piegar sul petto dell'Annunciatore. GUBBIO Agobbio, quell'artiere di Dalmazia che asil di Muse il bel monte d'Urbino fece, l'asprezza tua nell'Apennino guerreggiato temprò con la sua grazia. Or tristo e spoglio il tuo Palagio spazia tra l'azzurro dell'aere e del lino. Ma ne' tuoi bronzi arcani il tuo destino resiste alla barbarie che ti strazia. E, se teco non più ridon le carte di Oderisi cui Dante sotto il pondo vide andar chino tra la lenta greggia, l'argilla incorruttibile per l'arte di Mastro Giorgio splende; e in tutto il mondo l'alta tua nominanza ne rosseggia. SPELLO Spello, qual canto palpita nei petti delle tue donne alzate in su la Porta di Venere? La Dea che non è morta l'arco nudo t'adorna di fioretti. E par che il pafio pargolo saetti nel sol novo ai precordii con accorta ferocia strali dell'antica sorta, come solea negli élegi perfetti. Non l'amico di Cynthia oggi sospira dai prati d'asfodelo i suoi patemi campi che Ottavio diede al veterano? Nelle tue torri imitan quella lira i caldi vènti, mentre negli Inferni sogna l'Umbria il Callimaco romano. MONTEFALCO Montefalco, Benozzo pinse a fresco giovenilmente in te le belle mura, ebro d'amor per ogni creatura viva, fratello al Sol, come Francesco. Dolce come sul poggio il melo e il pesco, chiara come il Clitunno alla pianura, di fiori e d'acqua era la sua pintura, beata dal sorriso di Francesco. E l'azzurro non désti anche al tuo biondo Melanzio, e il verde? Verde d'arboscelli, azzurro di colline, per gli altari; sicché par che l'istesso ciel rischiari la tua campagna e nel tuo cor profondo l'anima che t'ornarono i pennelli. NARNI Narni, qual dorme in Santo Giovenale su l'arca il senatore Pietro Cesi, tal dormi tu su' massi tuoi scoscesi intorno al tuo Palagio comunale. Sogni il buon Nerva in ostro imperiale? o Giovanni tra gli odii in Roma accesi? Io di secoli, d'acque e d'elci intesi murmure che dal Nar fino a te sale. E vidi su la tua Piazza Priora, ove muto anco dura il cittadino orgoglio, alzarsi una grand'ombra armata: grande a cavallo il tuo Gattamelata, sempiterno in quel bronzo fiorentino che gli invidian lo Sforza ed il Caldora. TODI Todi, volò dal Tevere sul colle l'Aquila ai tuoi natali e il rosso Marte ti visitò, se il marzio ferro or parte con la forza de' buoi le acclivi zolle. Ebro de' cieli Iacopone, il folle di Cristo, urge ne' cantici; in disparte alla sua Madre Dolorosa l'arte del Bramante serena il tempio estolle. Ma passa, ombra d'amor su la tua fronte che infoscan gli evi, la figlia d'Almonte, il fior degli Atti, Barbara la Bella. E l'inno del Minor si rinnovella: «Amor amor, lo cor si me se spezza! Amor amor, tramme la tua bellezza!». ORVIETO I. Orvieto, su i papali bastioni fondati nel tuo tufo che strapiomba, sul tuo Pozzo che s'apre come tomba, sul tuo Forte che ha mozzi i torrioni, su le strade ove l'erba assorda i suoni, su l'orbe case, ovunque par che incomba la Morte, e che s'attenda oggi la tromba delle carnali resurrezioni. Gli angeli formidabili di Luca domani soffieran nell'oricalco l'ardente spiro del torace aperto. Stanno sotterra, ove non è che luca, oggi i Vescovi e il gregge. Solo un falco stride rotando su pel ciel deserto. II. Uman prodigio dell'artier da Siena, nel ciel deserto il Duomo solitario risplende come nel reliquiario il Corporal sanguigno di Bolsena. Di grandezze la sua fulva ombra è piena, piena di Dio, piena dell'Avversario. O Angelico, Ugolin di Prete Ilario, Gentile, il respir vostro odesi appena! Sola il vòto dei marmi bianchi e neri occupa e turba la tremenda ambascia dell'artier da Cortona, come un vento. Ruggegli nel gran cor Dante Alighieri; e però di sì dure carni ei fascia il Dolore la Forza e lo Spavento. III. Sfolgorati procombono i Perduti, salgon gli Eletti a ber l'alme rugiade; e gli Arcangeli snudano le spade mentre i Musici toccano i leuti. Ma i re spirtali degli inconosciuti mondi, Empedocle che le vie dell'Ade sforza, l'amor dell'api e delle biade Vergilio che apre al Teucro i regni muti, e l'Alighier grifagno che con ira in foco in sangue in fanghe in ghiacce inerti i peccatori abbrucia attuffa asserra, cantano all'Uomo un inno senza lira dall'alto; e il Tosco ha due volumi aperti, Libro del Cielo e Libro della Terra. Le città del silenzio AREZZO I. Arezzo, come un ciel terrestro è il lino cerulo, il vento aulisce di viola. Ove sono Uguccion della Faggiuola e il cavalier mitrato Guglielmino? Non vedo Certomondo e Campaldino, né Buonconte forato nella gola. Alla tua Pieve il balestruccio vola; in San Francesco è Piero, e il suo giardino. Non vedo nella polve i tuoi pedoni carpone sotto il ventre dei cavalli con le coltella in mano a sbudellarli. Van sonetti del tuo Guitton, canzoni del tuo Petrarca per colline e valli; e con voce d'amore tu mi parli. II. Bruna ti miro dall'aerea loggia che t'alzò Benedetto da Maiano. Fan ghirlanda le nubi ove Lignano e Catenaia e Pietramala poggia. E fànnoti ghirlande i tralci a foggia di quelle onde i tuoi vasi ornò la mano pieghevole del figulo pagano quando per lui vivea l'argilla roggia. Or rivive pel mio sogno il liberto grèculo intento a figurar le tigri l'evie i tripodi i tirsi le pantere. Arar penso i tuoi campi e, nell'aperto solco da' buoi di Valdichiana impigri, discoprir l'ansa infranta del cratere. III. Aste in selva, stendardi al vento, elmetti di cavalieri, Costantin securo, Massenzio in fuga, Cosra morituro, e le chiare fiumane e i cieli schietti! Come innanzi a un giardin profondo io stetti, o Pier della Francesca, innanzi al puro fulgor de' tuoi pennelli; e il sacro muro moveano i fiati dei pugnaci petti. Ma il Vincitore e il Labaro e Massenzio e la bella reina d'Asia oblìa il mio cor; ché levasti più grand'ala! Presso l'arca del crudo Pietramala vidi il fiore di Magdala, Maria. E un greco ritmo corse il pio silenzio. IV. Forte come una Pallade senz'armi, non ella ai piè del mite Galileo si prostrò serva, ma il furente Orfeo dissetò arso dal furor dei carmi. Qui da tristi occhi profanata parmi, mentre a specchio del Ionio o dell'Egeo degna è che s'alzi in bianco propileo come sorella dei perfetti marmi. Ellade eterna! Non il vaso d'olio odorifero è quel di Deianira, ov'essa chiuse il dono del Biforme? Per lei Ristoro ode cantar le torme degli astri, come il Samio; e su la lira Guido Monaco tenta il modo eolio. CORTONA I. O Cortona, l'eroe tuo combattente non è già quel gagliardo che s'accampa giuso in Inferno alla penace vampa ove si torce la perduta gente? Pur le Vergini crea la man possente e i Chèrubi, usa all'affocata stampa, come l'Etrusco orna la dolce lampa e di macigni alza la porta ingente. Chiusa virtù d'antiche primavere, urbe di Giano, irrompe nel tuo Luca. Maravigliosamente in lui tu vigi. Forza del mondo è il tuo robusto artiere. Sparvero come in vortice festuca i tuoi tiranni Uguccio ed Aloigi. II. O Corito, perché la Lampa è priva di nutrimento? Io vidi messaggera, grande come Calliope, leggera come Aglaia, recar l'olio d'oliva. Ecco, nel bronzo la Gorgóne è viva; nuota il delfino, corre la pantera; segue le melodíe di primavera Sileno su la fistola giuliva. Bacco e gli aspetti delle Essenze ascose fan di fecondità ricco il metallo. Or versa nel suo cavo l'olio puro! La vital Lampa in cui l'arte compose tra mostri e iddii l'Onda marina e il Phallo, tu sospendila accesa al dio futuro. III. Dirompendo col vomere l'antica gleba etrusca il bifolco, a Sepoltaglia, all'Ossaia, la spada e la medaglia scopre laddove ondeggerà la spica. Chi sa, nell'ansia della sua fatica sotto l'ignea fersa, non l'assaglia un sùbito furore di battaglia a trionfar la sorte sua nemica! Muzio Attèndolo Sforza nella rovere di Cotignola gitta il suo marrello e ferrato cavalca al gran destino. Sono le glebe tue fatte sì povere, o Italia, che non sórgavi un novello Eroe dall'aspro sangue contadino? BERGAMO I. Bergamo, nella prima primavera ti vidi, al novel tempo del pascore. Parea fiorir Santa Maria Maggiore di rose in una cenere leggera. E per l'aer volar pareano a schiera i chèrubi fuggiti da Trescore, quei che Lorenzo Lotto il dipintore alzò fra i tralci della Vigna vera. Davanti la gran porta australe i sassi deserti verzicavano d'erbetta, quasi a pascere i due vecchi leoni. Dolce correa per la città dei Tassi la melode a destar la verginetta Medea sepolta presso il Coleoni. II. Destarsi la dormente, qual la pose su l'origlier di marmo l'Amadeo: gli occhi aprirsi, le labbra LAUS DEO clamare, le due mani sparger rose: quest'opere vid'io meravigliose del lene April; ma in vetta al mausoleo, tutt'oro l'arme, il gran Bartolomeo pronto imperar tra le Virtù sue spose. Non diemmi forse l'alto Condottiere, benigno a' suoi ed a' nimici crudo, col suo gesto il segnal della riscossa? Oh seme delle nostre primavere! Triplice egli ebbe nell'invitto scudo il carnal segno della maschia possa. III. L'ombra canuta del Guerrier sovrano a Malpaga erra per la ricca loggia, mutato l'elmo nel cappuccio a foggia, tra i rimadori e i saggi in atto umano. E tu, Bergamo, il suo sepolcro vano chiudi. Ma all'aspro vento che da Chioggia sìbila è vivo! Ancor di strage ha roggia l'unghia e la pancia il suo stallon romano. Stretto nel pugno il fólgore di guerra, i fanti contra Galeazzo ei sferra tonando co' mortaro e la spingarda. Arcato il duro sopracciglio, ei guarda di su la manca spalla irta di piastra; e, bronzo in bronzo, nell'arcion s'incastra. CARRARA I. Carrara, morti son vescovi e conti di Luni, e son dispersi i loro avelli; gli Spinola e Castruccio Antelminelli son morti, e gli Scaligeri e i Visconti; ed Alberico che t'ornò di fonti, gli antichi tuoi signori ed i novelli. Ma su quante città regnano i belli eroi nati dal grembo de' tuoi monti! Quei che li armò di soffio più gagliardo, quei fa su te da vertice rimoto ombra più vasta che quella del Sagro. E non il santo martire Ceccardo t'è patrono, ma solo il Buonarroto pel martirio che qui lo fece magro. II. Su la piazza Alberica il solleone muto dardeggia la sua fiamma spessa; e, nel silenzio, a piè della Duchessa canta l'acqua la rauca sua canzone. Dalla Grotta dei Corvi al Ravaccione ferve la pena e l'opera indefessa. Scendono in fila i buoi scarni lungh'essa l'arsura del petroso Carrione. S'ode ferrata ruota strider forte sotto la mole candida che abbaglia, e il grido del bovaro furibondo, ed echeggiar la bùccina di morte come squilla che chiami alla battaglia, e la mina rombar cupa nel fondo. III. Arce del marmo, in te rinvenni i segni che t'impresse la forza dei Romani; sculti al sommo adorai gli Iddii pagani; e dissi: «O Roma nostra, ovunque regni!». Dissi: «O mio cuore, or fa che tu m'insegni la rupe che foggiar volea con mani di foco il grande Artier, sì che i lontani marinai la vedesser dai lor legni». E dal Sagro alla Tecchia, da Betogli al Polvaccio, da Créstola alla Mossa cercai l'arcana imagine scultoria. Tutta l'Alpe splendea d'eterni orgogli. «O cuor» dissi «il tuo sangue sì l'arrossa!» E in ogni rupe vidi una Vittoria. Le città del silenzio VOLTERRA Su l'etrusche tue mura, erma Volterra, fondate nella rupe, alle tue porte senza stridore, io vidi genti morte della cupa città ch'era sotterra. Il flagel della peste e della guerra avea piagata e tronca la tua sorte; e antichi orrori nel tuo Mastio forte empievan l'ombra che nessun disserra. Lontanar le Maremme febbricose vidi, e i plumbei monti, e il Mar biancastro, e l'Elba e l'Arcipelago selvaggio. Poi la mia carne inerte si compose nel sarcofago sculto d'alabastro ov'è Circe e il brutal suo beveraggio. VICENZA Vicenza, Andrea Palladio nelle Terme e negli Archi di Roma imperiale apprese la Grandezza. E fosti eguale alla Madre per lui tu figlia inerme! Bartolomeo Montagna il viril germe d'Andrea Mantegna in te fece vitale. La romana virtù si spazia e sale per le linee tue semplici e ferme. Veggo, di là dalle tue mute sorti, per i palladiani colonnati passare il grande spirito dell'Urbe e, nel Teatro Olimpico, in coorti i vasti versi astati e clipeati del Tragedo cozzar contra le turbe. BRESCIA Brescia, ti corsi quasi fuggitivo, nell'ansia d'una voluttà promessa! Ed ebbi onta di me, o Leonessa, per la vil fiamma che di me nudrivo. Sol cercai nel tuo Tempio il vol captivo della Vittoria, con la fronte oppressa. Repente udii su l'anima inaccessa fremere l'ala di metallo vivo. Bella nel peplo dorico, la parma poggiata contro la sinistra coscia, la gran Nike incidea la sua parola. «O Vergine, te sola amo, te sola!» gridò l'anima mia nell'alta angoscia. Ella rispose: «Chi mi vuole, s'arma». RAVENNA Ravenna, Guidarello Guidarelli dorme supino con le man conserte su la spada sua grande. Al vólto inerte ferro morte dolor furon suggelli. Chiuso nell'arme attende i dì novelli il tuo Guerriero, attende l'albe certe quando una voce per le vie deserte chiamerà le Virtù fuor degli avelli. Gravida di potenze è la tua sera, tragica d'ombre, accesa dal fermento dei fieni, taciturna e balenante. Aspra ti torce il cor la primavera; e, sopra te che sai, passa nel vento come pòlline il cenere di Dante. Canto di festa per calendimaggio Uomini, qual mai voce oggi si spera nei campi della terra taciturna, nelle città fatte silenziose, nei puri solchi del rinato pane e nelle selci delle vie maestre? Qual parlerà vento di primavera mentre si tace l'opera diurna, se il giusto Sole genera le rose presso le soglie e intorno alle fontane, lungo le siepi e su per le finestre? Uomini, qual s'attende messaggera che tra le man sue certe arrechi l'urna dei beni ignoti e, pallida di cose ineffabili, annunzii la dimane alla potenza del dolor terrestre? Uomini operatori, anime rudi ansanti nei toraci vasti, eroi fuligginosi cui biancheggian buoni i denti in fosco bronzo sorridenti e le tempie s'imperlano di stille; voi che torcete il ferro su le incudi il pio ferro atto alle froge dei buoi, alle unghie dei cavalli, atto ai timoni dei carri, atto agli aratri, agli strumenti venerandi delle opere tranquille, voi presso il fuoco avito seminudi artieri delle antiche fogge; e voi negli arsenali ove dà lampi e tuoni il maglio atroce su le piastre ardenti, atleti coronari di faville; e voi anche, nei porti ove la nave onusta approda, onde si parte onusta, che recate su l'òmero servile con vece alterna le ricchezze impure fluttuanti nel traffico del mondo; o voi che a piè delle inesauste cave, pel nobile arco e per la porta angusta, pel tempio insigne e pel fumoso ovile, polite nelle semplici misure la pietra che azzurreggia o il marmo biondo; e voi, destri in quadrar la sana trave pel tetto, in far la madia di robusta quercia e di bosso l'arcolaio gentile, inchini al pianto delle fibre dure sotto la pialla o al tornio fremebondo; uomini solitarii, su l'erbosa via dove giunge suono di campane fioco e quell'erba assorda il passo raro, dati all'opra dei padri, senza pena e senza gioia e senza mutamento; uomini in alleanza minacciosa di volontà ribelli entro l'immane opificio vorace ove l'acciaro con suo moto infallibile balena ostile come nel combattimento; o uomini, oggi che il lavoro posa e il sudore non bagna il vostro pane e letifica tutti gli occhi il chiaro giorno, ascoltate la voce serena che spazia ai campi e alle città sul vento. Or si tace stridore di metalli, rombo d'acque, e il vostro ànsito, operai. Stan mute nel mistero le immortali Forze signoreggiate dai congegni lucidi e vigilate dagli schiavi. Il sol di maggio brilla su i cristalli dei tetti immensi come su i ghiacciai. Tinte in sanguigno, dentro gli arsenali ove marcì la Gloria in vecchi legni, le ferrate carcasse delle navi grandeggiano deserte. O poggi, o valli, o per ovunque nevi di rosai! Rondini su l'argilla dei canali molli! Ombre delle nubi e soffii pregni di pòlline su i pascoli soavi! Torbidi uomini, uscite dalle porte, disertate le mura ove il tribuno stridulo, ignaro del misterioso numero che governa i bei pensieri, dispregia il culto delle sacre Fonti; però che il verbo della nova sorte ultimamente vi dirà sol uno che ascoltato abbia il canto glorioso dei secoli e con gli occhi suoi sinceri contemplato il fulgor degli orizzonti. Sol chi si nutre della terra è forte. Glorificate in voi la Madre! Ognuno la sentirà presente al suo riposo. Di beltà si faran gli animi alteri, di nobiltà s'accenderan le fronti. È tutto il cielo come un fermo sguardo su voi, ma l'erbe un palpito frequente hanno come le ciglia per soverchio lume. E gli olivi son come una veste di verità su i colli inginocchiati. Il fiume lento, simile al vegliardo, reca la verità; pure il silente lago la custodisce nel suo cerchio di rupi; e l'armonia delle foreste l'accompagna, e l'allodola dei prati. Sembra che in ogni gleba un cuor gagliardo pulsi. Ed ecco il passato a voi presente come un sepolcro che non ha coperchio! Ricca è l'antica Madre onde nasceste. La sua mammella abbeveri i suoi nati. Poi, Sol calando, ai reduci dal puro giòlito la Città sembri d'amore ardere co' i palagi e le fucine, co' i lupanari e con le cattedrali, oh come bella, avida e furibonda! Il gesto dell'eroe verso il futuro amplia la piazza; sola erge il vigore d'una gente la torre; alle ruine auguste sopra seggono fatali presagi; sta nell'anima profonda la virtù del pensiero nascituro; la volontà si tempra nel dolore; l'atto sublime sfolgora; divine armonie surgon dai più crudi mali. Glorificate la Città feconda! Quivi restò la testimonianza della forza magnifica e pugnace che ben commetter seppe il marmo, eletto nei monti ad eternar la sua memoria. Uomini, in voi glorificate l'Uomo! Il superbo disìo della possanza quivi trovar soleva la sua pace nell'edificio esculto, ai cieli eretto qual visibile canto di vittoria. Uomini, in voi glorificate l'Uomo! Il vestimento d'ogni alta speranza è la bellezza. Ogni conquista audace non par compiuta, in terra, se un perfetto fior non s'esprima dall'umana gloria. Uomini, in voi glorificate l'Uomo! Or quella torna, ch'era dipartita, del Mare Egeo mirabil Primavera? Par che un ìgneo spirito si mova dal santo lido ad infiammare il mondo. Glorifichiamo in noi la Vita bella! La bellezza escir può dall'incallita mano del fabro, s'ei la sua preghiera alzi verso le Forme dalla nova anima sua piena d'ardor giocondo. Glorifichiamo in noi la Vita bella! Sol nella plenitudine è la Vita. Sol nella libertà l'anima è intera. Ogni lavoro è un'arte che s'innova. Ogni mano lavori a ornare il mondo. Glorifichiamo in noi la Vita bella! Canto augurale per la nazione eletta Italia, Italia, sacra alla nuova Aurora con l'aratro e la prora! Il mattino balzò, come la gioia di mille titani, agli astri moribondi. Come una moltitudine dalle innumerevoli mani, con un fremito solo, nei monti nei colli nei piani si volsero tutte le frondi. Italia! Italia! Un'aquila sublime apparì nella luce, d'ignota stirpe titania, bianca le penne. Ed ecco splendere un peplo, ondeggiare una chioma... Non era la Vittoria, l'amore d'Atene e di Roma, la Nike, la vergine santa? Italia! Italia! La volante passò. Non le spade, non gli archi, non l'aste, ma le glebe infinite. Spandeasi nella luce il rombo dell'ali sue vaste e bianche, come quando l'udìa trascorrendo il peltàste su 'l sangue ed immoto l'oplite. Italia! Italia! Lungo il paterno fiume arava un uom libero i suoi pingui iugeri, in pace. Sotto il pungolo dura anelava la forza dei buoi. Grande era l'uomo all'opra, fratello degli incliti eroi, col piede nel solco ferace. Italia! Italia! La Vittoria piegò verso le glebe fendute il suo volo, sfiorò con le sue palme la nuda fronte umana, la stiva inflessibile, il giogo ondante. E risalìa. Il vomere attrito nel suolo balenò come un'arme. Italia! Italia! Parvero l'uomo, il rude stromento, i giovenchi indefessi nel bronzo trionfale eternati dal cenno divino. Dei beni inespressi gonfia esultò la terra saturnia nutrice di messi. O madre di tutte le biade, Italia! Italia! La Vittoria disparve tra nuvole meravigliose aquila nell'altezza dei cieli. Vide i borghi selvaggi, le bianche certose, presso l'ampie fiumane le antiche città, gloriose ancóra di antica bellezza. Italia! Italia! E giunse al Mare, a un porto munito. Era il vespro. Tra la fumèa rossastra alberi antenne sàrtie negreggiavano in un gigantesco intrico, e s'udìa cupo nel chiuso il martello guerresco rintronar su la piastra. Italia! Italia! Una nave construtta ingombrava il bacino profondo, irta de l'ultime opere. Tutta la gran carena sfavillava al rossor del tramonto; e la prora terribile, rivolta al dominio del mondo, aveva la forma del vomere. Italia! Italia! Sopra quella discese precìpite l'aquila ardente, la segnò con la palma. Una speranza eroica vibrò nella mole possente. Gli uomini dell'acciaio sentirono subitamente levarsi nei cuori una fiamma. Italia! Italia! Così veda tu un giorno il mare latino coprirsi di strage alla tua guerra e per le tue corone piegarsi i tuoi lauti e i tuoi mirti, o Semprerinascente, o fiore di tutte le stirpi, aroma di tutta la terra Italia, Italia, sacra alla nuova Aurora con l'aratro e la prora! LIBRO TERZO ALCYONE La tregua Dèspota, andammo e combattemmo, sempre fedeli al tuo comandamento. Vedi che l'armi e i polsi eran di buone tempre. O magnanimo Dèspota, concedi al buon combattitor l'ombra del lauro, ch'ei senta l'erba sotto i nudi piedi, ch'ei consacri il suo bel cavallo sauro alla forza dei Fiumi e in su l'aurora ei conosca la gioia del Centauro. O Dèspota, ei sarà giovine ancóra! Dàgli le rive i boschi i prati i monti i cieli, ed ei sarà giovine ancóra Deterso d'ogni umano lezzo in fonti gelidi, ei chiederà per la sua festa sol l'anello degli ultimi orizzonti I vènti e i raggi tesseran la vesta nova, e la carne scevra d'ogni male éntrovi balzerà leggera e presta. Tu 'l sai: per t'obbedire, o Trionfale, sì lungamente fummo a oste, franchi e duri; né il cor disse mai «Che vale?» disperato di vincere; né stanchi mai apparimmo, né mai tristi o incerti, ché il tuo volere ci fasciava i fianchi. O Maestro, tu 'l sai: fu per piacerti. Ma greve era l'umano lezzo ed era vile talor come di mandre inerti; e la turba faceva una Chimera opaca e obesa che putiva forte sì che stretta era all'afa la gorgiera. Gli aspetti della Vita e della Morte invano balenavan sul carname folto, e gli enimmi dell'oscura sorte. Non era pane a quella bassa fame la bellezza terribile; onde il tardo bruto mugghiava irato sul suo strame. Pur, lieta maraviglia, se alcun dardo tutt'oro gli giungea diritto insino ai precordii, oh il suo fremito gagliardo! E tu dicevi in noi: «Quel ch'è divino si sveglierà nel faticoso mostro. Bàttigli in fronte il novo suo destino». E noi perseverammo, col cuor nostro ardente, per piacerti, o Imperatore; e su noi non potè ugna né rostro. Ma ne sorse per mezzo al chiuso ardore la vena inestinguibile e gioconda del riso, che sonò come clangore. E ad ogni ingiuria della bestia immonda scaturiva più vivido e più schietto tal cristallo dall'anima profonda. Erma allegrezza! Fin lo schiavo abietto, sfamato con le miche del convito, lungi rauco latrava il suo dispetto; e l'obliqio lenone, imputridito nel vizio suo, dal lubrico angiporto con abominio ci segnava a dito. O Dèspota, tu dài questo conforto al cuor possente, cui l'oltraggio è lode e assillo di virtù ricever torto. Ei nella solitudine si gode sentendo sé come inesausto fonte Dedica l'opre al Tempo; e ciò non ode. Ammonisti l'alunno: «Se hai man pronte, non iscegliere i vermini nel fimo ma strozza i serpi di Laocoonte». Ed ei seguì l'ammonimento primo; restò fedele ai tuoi comandamenti; fiso fu ne' tuoi segni a sommo e ad imo. Dèspota, or tu concedigli che allenti il nervo ed abbandoni gli ebri spirti alle voraci melodìe dei vènti! Assai si travagliò per obbedirti. Scorse gli Eroi su i prati d'asfodelo. Or ode i Fauni ridere tra i mirti. l'Estate ignuda ardendo a mezzo il cielo. Il fanciullo I. Figlio della Cicala e dell'Olivo, nell'orto di qual Fauno tu cogliesti la canna pel tuo flauto, pel tuo sufolo doppio a sette fóri? In quel che ha il nume agresto entro un'antica villa di Camerata deserta per la morte di Pampìnea? O forse lungo l'Affrico che riga la pallida contrada ove i campi il cipresso han per confine? Più presso, nella Mensola che ride sotto il ponte selvaggia? Più lungi, ove l'Ombron segue la traccia d'Ambra e Lorenzo canta i vani ardori? Ma il mio pensier mi finge che tu colta l'abbia tra quelle mura che Arno parte, negli Orti Oricellari, ove dalla barbarie fu sepolta ahi sì trista, la Musa Fiorenza che cantò ne' dì lontani ai lauri insigni, ai chiari fonti, all'eco dell'inclite caverne, quando di Grecia le Sirene eterne venner con Plato alla Città dei Fiori. Te certo vide Luca della Robbia, ti mirò Donatello, operando le belle cantorìe. Tutte le frutta della Cornucopia per forza di scalpello fecero onuste le ghirlande pie. E tu danzavi le tue melodìe, nudo fanciul pagano, àlacre nel divin marmo apuano come nell'aria, conducendo i cori. Figlio della Cicala e dell'Olivo, or col tuo sufoletto incanti la lucertola verdognola a cui sopra la selce il fianco vivo palpita pel diletto in misura seguendo il dolce suono. Non tu conosci il sogno forse della silente creatura? Ver lei ti pieghi: in lei non è paura: tu moduli secondo i suoi colori. Tu moduli secondo l'aura e l'ombra e l'acqua e il ramoscello e la spica e la man dell'uom che falcia, secondo il bianco vol della colomba, la grazia del torello che di repente pavido s'inarca, la nuvola che varca il colle qual pensier che seren vólto muti, l'amore della vite all'olmo l'arte dell'ape, il flutto degli odori. Ogni voce in tuo suono si ritrova e in ogni voce sei sparso, quando apri e chiudi i fóri alterni. Par quasi che tu sol le cose muova mentre solo ti bei nell'obbedire ai movimenti eterni. Tutto ignori, e discerni tutte le verità che l'ombra asconde. Se interroghi la terra, il ciel risponde; se favelli con l'acque, odono i fiori. O fiore innumerevole di tutta la vita bella, umano fiore della divina arte innocente, preghiamo che la nostra anima nuda si miri in te, preghiamo che assempri te maravigliosamente! L'immensa plenitudine vivente trema nel lieve suono creato dal virgineo tuo soffio, e l'uom co' suoi fervori e i suoi dolori. II. Or la tua melodìa tutta la valle come un bel pensiere di pace crea, le due canne leggiere versando una la luce ed una l'ombra. La spiga che s'inclina per offerirsi all'uomo e il monte che gli dà pietre del grembo, se ben l'una vicina e l'altro sia rimoto e l'una esigua e l'altro ingente, sembra si giungano per l'aere sereno come i tuoi labbri e le tue dolci canne, come su letto d'erbe amato e amante, come i tuoi diti snelli e i sette fóri, come il mare e le foci, come nell'ala chiare e negre penne, come il fior del leandro e le tue tempie, come il pampino e l'uva, come la fonte e l'urna, come la gronda e il nido della rondine, come l'argilla e il pollice, come ne' fiari tuoi la cera e il miele, come il fuoco e la stipula stridente, come il sentiere e l'orma, come la luce ovunque tocca l'ombra. III. Sopor mi colse presso la fontana. Lo sciame era discorde: avea due re; pendea come due poppe fulve. E il rame s'udìa come campana. Ti vidi nel mio sogno, o lene aulente. Lottato avevi ignudo contro il torrente folle di rapina. Raccolto avevi piuma di sparviere che a sommo del ciel muto in sue rote ferìa l'aer di strida. Ahi, lungi dalle tue musiche dita gittato avevi i calami forati. Chino con sopraccigli corrugati eri, fanciul pugnace, intento a farti archi da saettare col legno della flèssile avellana. IV. Eleggere sapesti il re splendente nello sciame diviso, ridere d'un tuo bel selvaggio riso spegnendo il fuco sterile e sonoro. Con la man tinta in mele di sosillo traesti fuor la troppa signoria. Cauto e fermo le calcavi. Sporgeva a modo d'uvero di poppa il buon sire tranquillo che fu re delle artefici soavi. Poi franco te n'andavi sonando per le prata di trifoglio, incoronato d'ellera e d'orgoglio, entro la nube delle pecchie d'oro. V. L'acqua sorgiva fra i tuoi neri cigli fecesi occhio che vede e che sorride; fecesi chioma su la tua cervice il crespo capelvenere. Fatto sei di segreto e di freschezza. Fatte son di làtice fluido e d'umide fibre le tue membra. Il tuo spirto, dal fonte come il salice ma senza l'amarezza nato, le amiche naiadi rimembra; tutte le polle sembra trarre per le invisibili sue stirpi. E se gli occhi tuoi cesii han neri cigli, ha neri gambi il verde capelvenere. Converse le tue canne sono in chiari vetri, onde lenti i suoni stillano come gocce da clessidre. S'appressano i colúbri maculosi, gli aspidi i cencri e gli angui e le ceraste e le verdissime idre. Taciti, senza spire, eretti i serpi bevono l'incanto. Sol le bìfide lingue a quando a quando tremano come trema il capelvenere. Sino ai ginocchi immerso nella cupa linfa, alla venenata greggia tu moduli il tuo lento carme. Par che da' piedi tuoi torta sia nata radice e di natura erbida par ti sien fatte le gambe. Ma il fior della tua carne suso come il nenùfaro s'ingiglia. E se gli occhi tuoi cesii han nere ciglia, neri ha gli steli il verde capelvenere. VI. Se t'è l'acqua visibile negli occhi e se il làtice nudre le tue carni, viver puoi anco ne' perfetti marmi e la colonna dorica abitare. Natura ed Arte sono un dio bifronte che conduce il tuo passo armonioso per tutti i campi della Terra pura. Tu non distingui l'un dall'altro volto ma pulsare odi il cuor che si nasconde unico nella duplice figura. O ignuda creatura, teco salir la rupe veneranda voglio, teco offerire una ghirlanda del nostro ulivo a quell'eterno altare. Torna con me nell'Ellade scolpita ove la pietra è figlia della luce e sostanza dell'aere è il pensiere. Navigando nell'alta notte illune, noi vedremo rilucere la riva del diurno fulgor ch'ella ritiene. Stamperai nelle arene del Fàlero orme ardenti. Ospiti soli presso Colòno udremo gli usignuoli di Sofocle ad Antigone cantare. Vedremo nei Propìlei le porte del Giorno aperte, nell'intercolunnio tutto il cielo dell'Attica gioire; nel tempio d'Erettèo, coro notturno dai negricanti pepli le sopposte vergini stare come urne votive; la potenza sublime della Citta, transfusa in ogni vena del vital marmo ov'è presente Atena, regnar col ritmo il ciel la terra il mare. Alcun arbore mai non t'avrà dato gioia sì come la colonna intatta che serba i raggi ne' suoi solchi eguali. All'ora quando l'ombra sua trapassa i gradi, tu t'assiderai sul grado più alto, co' tuoi calami toscani. La Vittoria senz'ali forse t'udrà, spoglia d'avorio e d'oro; e quella alata che raffrèna il toro; e quella che dislaccia il suo calzare. Taci! La cima della gioia è attinta. Guarda il Parnete al ciel, come leggiero! Guarda l'Imetto roscido di miele! Flessibile m'appar come l'efebo, vestito della clamide succinta, che cavalcò nelle Panatenee. Sorse dall'acque egee il bel monte dell'api e fu vivente. Or tuttavia nella sua forma ei sente la vita delle belle acque ondeggiare. Seno d'Egina! Oh isola nutrice di colombe e d'eroi! Pallida via d'Eleusi coi vestigi di Demetra! Splendore della duplice ferita nel fianco del Pentelico! Armonie del glauco olivo e della bianca pietra! Ogni golfo è una cetra. Tu taci, aulete, e ascolti. Per l'Imetto l'ombra si spande. Il monte violetto mormora e odora come un alveare. VII. L'odo fuggir tra gli arcipressi foschi, e l'ansia il cor mi punge. Ei mi chiama di lunge solo negli alti boschi, e s'allontana. Mutato è il suon delle sue dolci canne. Trèmane il cor che l'ode, balza se sotto il piè strida l'arbusto; pavido è fatto al rombo del suo sangue, ed altro più non ode il cor presàgo di remoto lutto. Prego: «O fanciul venusto, non esser sì veloce ch'io non ti giunga!» È vana la mia voce. Melodiosamente ei s'allontana. Elci nereggian dopo gli arcipressi, antiqui arbori cavi. Pascono suso in ciel nuvole bianche. A quando a quando tra gli intrichi spessi le nuvole soavi son come prede tra selvagge branche. E sempre odo le canne gemere d'ombra in ombra roche quasi richiamo di colomba che va di ramo in ramo e s'allontana. «O fanciullo fuggevole, t'arresta! Tu non sai com'io t'ami, intimo fiore dell'anima mia. Una sol volta almen volgi la testa, se te la inghirlandai, bel figlio della mia melancolìa! Con la tua melodìa fugge quel che divino era venuto in me, quasi improvviso ritorno dell'infanzia più lontana. Fa che l'ultima volta io t'incoroni, pur di negro cipresso, e teco io sia nella dolente sera!» Ei nell'onda volubile dei suoni con un gentil suo gesto, simile a un spirto della primavera, volgesi; alla preghiera sorride, e non l'esaude. L'ansia mia vana odo sol tra le pause, mentre che d'ombra in ombra ei s'allontana. Ad un fonte m'abbatto che s'accoglie entro conca profonda per aver pace, e un elce gli fa notte. «O figlio, sosta! Imiterai le foglie e l'acque anche una volta e i silenzii del dì con le tue note. Sediamo in su le prode. Fa ch'io veda l'imagine puerile di te presso l'imagine di me nel cupo speglio!» Ei s'allontana. S'allontana melodiosamente né più mi volge il viso, emulo di Favonio ei nel suo volo. Sol calando, la plaga d'occidente s'infiamma; e d'improvviso tutta la selva è fatta un vasto rogo. Le nuvole di foco ardono gli elci forti, aerie vergini al disìo dei mostri. Giunge clangor di buccina lontana. E un tempio ecco apparire, alte ruine cui scindon le radici errabonde. Gli antichi iddii son vinti. Giaccion tronche le statue divine cadute dai fastigi; dormono in bruni pepli di corimbi. Lentischi e terebinti l'odor dei timiami fan loro intorno. «O figlio, se tu m'ami, sosta nel luogo santo!» Ei s'allontana. «Rialzerò le candide colonne, rialzerò l'altare e tu l'abiterai unico dio. M'odi: te l'ornerò con arti nuove. E non avrà l'eguale. Maraviglioso artefice son io. T'adorerò nel mio petto e nel tempio. M'odi, figlio! Che immortalmente io t'incoroni!» Nel gran fuoco del vespro ei s'allontana. Si dilegua ne' fiammei orizzonti Forse è fratel degli astri. O forse nel mio sogno s'è converso? «Ti cercherò, ti cercherò ne' monti, ti cercherò per gli aspri torrenti dove ti sarai deterso. E ti vedrò diverso! Gittato avrai le canne, intento a farti archi da saettare col legno della flèssile avellana». Lungo l'Affrico nella sera di giugno dopo la pioggia Grazia del ciel, come soavemente ti miri ne la terra abbeverata, anima fatta bella dal suo pianto! O in mille e mille specchi sorridente grazia, che da nuvola sei nata come la voluttà nasce dal pianto, musica nel mio canto ora t'effondi, che non è fugace, per me trasfigurata in alta pace a chi l'ascolti. Nascente Luna, in cielo esigua come il sopracciglio de la giovinetta e la midolla de la nova canna, sì che il più lieve ramo ti nasconde e l'occhio mio, se ti smarrisce, a pena ti ritrova, pel sogno che l'appanna, Luna, il rio che s'avvalla senza parola erboso anche ti vide; e per ogni fil d'erba ti sorride, solo a te sola. O nere e bianche rondini, tra notte e alba, tra vespro e notte, o bianche e nere ospiti lungo l'Affrico notturno! Volan elle sì basso che la molle erba sfioran coi petti, e dal piacere il loro volo sembra fatto azzurro. Sopra non ha sussurro l'arbore grande, se ben trema sempre. Non tesse il volo intorno a le mie tempie fresche ghirlande? E non promette ogni lor breve grido un ben che forse il cuore ignora e forse indovina se udendo ne trasale? S'attardan quasi immemori del nido, e sul margine dove son trascorse par si prolunghi il fremito dell'ale. Tutta la terra pare argilla offerta all'opera d'amore, un nunzio il grido, e il vespero che muore un'alba certa. La sera fiesolana Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscìo che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta su l'alta scala che s'annera contro il fusto che s'inargenta con le sue rame spoglie mentre la Luna è prossima a le soglie cerule e par che innanzi a sé distenda un velo ove il nostro sogno si giace e par che la campagna già si senta da lei sommersa nel notturno gelo e da lei beva la sperata pace senza vederla. Laudata sii pel tuo viso di perla, o Sera, e pe' tuoi grandi umidi occhi ove si tace l'acqua del cielo! Dolci le mie parole ne la sera ti sien come la pioggia che bruiva tepida e fuggitiva, commiato lacrimoso de la primavera, su i gelsi e su gli olmi e su le viti e su i pini dai novelli rosei diti che giocano con l'aura che si perde, e su 'l grano che non è biondo ancóra e non è verde, e su 'l fieno che già patì la falce e trascolora, e su gli olivi, su i fratelli olivi che fan di santità pallidi i clivi e sorridenti. Laudata sii per le tue vesti aulenti, o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce il fien che odora! Io ti dirò verso quali reami d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti eterne e l'ombra de gli antichi rami parlano nel mistero sacro dei monti; e ti dirò per qual segreto le colline su i limpidi orizzonti s'incùrvino come labbra che un divieto chiuda, e perché la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire e nel silenzio lor sempre novelle consolatrici, sì che pare che ogni sera l'anima le possa amare d'amor più forte. Laudata sii per la tua pura morte o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare le prime stelle! L'ulivo Laudato sia l'ulivo nel mattino! Una ghirlanda semplice, una bianca tunica, una preghiera armoniosa a noi son festa. Chiaro leggero è l'arbore nell'aria E perché l'imo cor la sua bellezza ci tocchi, tu non sai, noi non sappiamo, non sa l'ulivo. Esili foglie, magri rami, cavo tronco, distorte barbe, piccol frutto, ecco, e un nume ineffabile risplende nel suo pallore! O sorella, comandano gli Ellèni quando piantar vuolsi l'ulivo, o côrre, che 'l facciano i fanciulli della terra vergini e mondi, imperocché la castitate sia prelata di quell'arbore palladio e assai gli noccia mano impura e tristo alito il perda. Tu nel tuo sonno hai valicato l'acque lustrali, inceduto hai su l'asfodelo senza piegarlo; e degna al casto ulivo ora t'appressi. Biancovestita come la Vittoria, alto raccolta intorno al capo il crine, premendo con piede àlacre la gleba, a lui t'appressi. L'aura move la tunica fluente che numerosa ferve, come schiume su la marina cui l'ulivo arride senza vederla. Nuda le braccia come la Vittoria, sul flessibile sandalo ti levi a giugnere il men folto ramoscello per la ghirlanda. Tenue serto a noi, di poca fronda, è bastevole: tal che d'alcun peso non gravi i bei pensieri mattutini e d'alcuna ombra. O dolce Luce, gioventù dell'aria, giustizia incorruttibile, divina nudità delle cose, o Animatrice, in noi discendi! Tocca l'anima nostra come tocchi il casto ulivo in tutte le sue foglie; e non sia parte in lei che tu non veda, Onniveggente! La spica Laudata sia la spica nel meriggio! Ella s'inclina al Sole che la cuoce, verso la terra onde umida erba nacque; s'inclina e più s'inclinerà domane verso la terra ove sarà colcata col gioglio ch'è il malvagio suo fratello, con la vena selvaggia col cìano cilestro col papavero ardente cui l'uom non seminò, in un mannello. È di tal purità che pare immune, sol nata perché l'occhio uman la miri; di sì bella ordinanza che par forte. Le sue granella sono ripartite con la bella ordinanza che c'insegna il velo della nostra madre Vesta. Tre son per banda alterne; minore è il granel medio; ciascuno ha la sua pula; d'una squammetta nasce la sua resta. Matura anco non è. Verde è la resta dove ha il suo nascimento dalla squamma, però tutt'oro ha la pungente cima. E verdi lembi ha la già secca spoglia ove il granello a poco a poco indura ed assume il color della focaia. E verdeggia il fistuco di pallido verdore ma la stìpula è bionda. S'odon le bestie rassodare l'aia. Dice il veglio: «Nè luoghi maremmani già gli uomini cominciano segare. E in alcuna contrada hanno abbicato. Tu non comincerai, se tu non veda tutto il popolo eguale della messe egualmente risplender di rossore». E la spica s'arrossa. Brilla il fil della falce, negreggia il rimanente, di stoppia incenerita è il suo colore. E prima la sudata mano e poi il ferro sentirà nel suo fistuco la spica; e in lei saran le sue granella, in lei sarà la candida farina che la pasta farà molto tegnente e farà pane che molto ricresce. Ma la vena selvaggia ma il cìano cilestro ma il papavero ardente con lei cadranno, ahi, vani su le secce. E la vena pilosa, or quasi bianca, è tutta lume e levità di grazia; e il cìano rassembra santamente gli occhi cesii di Palla madre nostra; e il papavero è come il giovenile sangue che per ispada spiccia forte; e tutti sono belli belli sono e felici e nel giorno innocenti; e l'uom non si dorrà di loro sorte. E saranno calpesti e della dolce suora, che tanto amarono vicina, che sonar per le reste quasi esigua cìtara al vento udirono, disgiunti; e sparsi moriran senza compianto perché non danno il pane che nutrica. Ma la vena selvaggia e il cìano cilestro e il papavero ardente laudati sien da noi come la spica! L'opere e i giorni O sposo della Terra venerando, è bello a sera noverare l'opre della dimane e misurar nel cuore meditabondo la durabil forza. Veglio, la tua parola su me piove candida come il fior del melo allora che già comincia ad allegare il frutto. Parlami, e dimmi quali sieno l'opre. «Di questo mese m'apparecchio l'aia. La mondo e sarchiellata lievemente la concio con la pula e con la morchia sicché difenda la biada da topi e da formiche e d'altra gente infesta. E poi la piano con la pietra tonda, o con legno; o pur suvvi spargo l'acqua e suvvi metto le mie bestie, e bene co' piedi lor la faccio rassodare; e poi si secca al sole» il veglio dice. E sta su la sua soglia rinnovata di quella pietra ch'è detta serena (nasce del Monte Céceri in gran copia) schietta pietra, pendente nell'azzurro alquanto, di color d'acqua piovana ove cotta la foglia sia del glastro. E dietro la sua faccia, che la grande etade arò con invisibil vomere sì che raggia di curvi e retti solchi qual iugero già pronto alla sementa, sale su per lo stipite di pietra il bianco gelsomin grato alle pecchie, eguale di candore al crin canuto. «Di questo mese nel solstizio, quando il Sol non puote più salire, semino le brasche; le qua' poi di mezzo agosto trapiantar mi bisogna in luogo irriguo. E la bietola e l'appio e il coriandro e la lattuga semino, ed innacquo. Colgo la veccia, e sego per pastura il fien greco. La fava anzi la luce vello, scemante la luna; la fava, anzi che compia lo scemar la luna, batto; e refrigerata la ripongo. Di questo mese inocchio il pesco, impiastro il fico, vòto l'arnia, il condottiero eleggo nel gomitolo dell'api. E prossima si fa la mietitura dell'orzo, la qual compiere mi giova anzi che mi comincino a cascare le spighe, imperocché non son vestite sue granella di foglie, come il grano. Da giovine sei moggia il dì potei segarne!» sorridendo il veglio dice. Ancora armata è la gengiva, salda nel suo sorriso e nella sua favella. E non pur gli vacillano i ginocchi, se ben la falce nell'oprare gli abbia a simiglianza del suo ferro istesso curve le gambe. E sopra il santo petto il lin rude, che l'indaco fe' quasi celeste, crea misteriosamente l'imagine di Pan duce degli astri, cui nel torace si rispecchia il Cielo. L'aedo senza lira Meco ragiona il veglio d'una spezie di pomi. E dice: «Nasce in arbore di mezzana statura, e fior bianchetto. La dolcezza del frutto è mista con asprezza. Non ricusa qualunque terra. I luoghi allegri ama bensì, dolce temperie. Dilettasi del mare. Il vento e il gelo teme. Innestar non si puote. Piccola etade dura. Serbansi i pomi in orci unti di pece. Anco serbansi in cave dell'oppio arbore; ovver tra la vinaccia in pentole, assai bene e lungamente». Così ragiona il veglio; ed in sue lente parole il cor si spazia come in un canto aonio. Risplende un'antichissima virtude, come nel prisco aedo che canta un fato illustre, o Terra, nel tuo bianco testimonio. Il soffio del suo petto paterno è come la bontà dell'aria che fa buona ogni cosa. La vita fruttuosa dell'arbore s'agguaglia alle sorti magnifiche dei regni. Ei parla, e tra due legni tesse la chiara paglia come l'aedo tende le sue corde, create co' minugi degli agnelli, tra i bracci della lira. Vento asolando, spira odor di meliloto il miel dall'ombra, colato nei mondissimi vaselli ove la man spremette i fiali pregni. Ei ragiona e travaglia; e il flavescente culmo non si spezza. A quando a quando mira come chi attenda segni. Ode sciame che romba. Ei parla di battaglia che han l'api in loro ostelli per signorie lor nuove. Gli luce nella barba e ne' capelli alcun filo di paglia che il suo parlar commuove. Al sole oro non è che tanto luca. Appesa alla sua bocca che s'immézza, presso l'aroma della sua saggezza, l'anima nostra è come la festuca. Beatitudine «Color di perla quasi informa, quale conviene a donna aver, non fuor misura». Non è, Dante, tua donna che in figura della rorida Sera a noi discende? Non è non è dal ciel Beatrice discesa in terra a noi bagnata il viso di pianto d'amore? Ella col lacrimar degli occhi suoi tocca tutte le spiche a una a una e cangia lor colore. Stanno come persone inginocchiate elle dinanzi a lei, a capo chino, umìli; e par si bei ciascuna del martiro che l'attende. Vince il silenzio i movimenti umani. Nell'aerea chiostra dei poggi l'Arno pallido s'inciela. Ascosa la Città di sé non mostra se non due steli alzati, torre d'imperio e torre di preghiera, a noi dolce com'era al cittadin suo prima dell'esiglio quand'ei tenendo nella mano un giglio chinava il viso tra le rosse bende. Color di perla per ovunque spazia e il ciel tanto è vicino che ogni pensier vi nasce come un'ala. La terra sciolta s'è nell'infinito sorriso che la sazia, e da noi lentamente s'allontana mentre l'Angelo chiama e dice: «Sire, nel mondo si vede meraviglia nell'atto, che procede da un'anima, che fin quassù risplende». Furit aestus Un falco stride nel color di perla: tutto il cielo si squarcia come un velo. O brivido su i mari taciturni, o soffio, indizio del sùbito nembo! O sangue mio come i mari d'estate! La forza annoda tutte le radici: sotto la terra sta, nascosta e immensa. La pietra brilla più d'ogni altra inerzia. La luce copre abissi di silenzio, simile ad occhio immobile che celi moltitudini folli di desiri. L'Ignoto viene a me, l'Ignoto attendo! Quel che mi fu da presso, ecco, è lontano. Quel che vivo mi parve, ecco, ora è spento. T'amo, o tagliente pietra che su l'erta brilli pronta a ferire il nudo piede. Mia dira sete, tu mi sei più cara che tutte le dolci acque dei ruscelli. Abita nella mia selvaggia pace la febbre come dentro le paludi. Pieno di grida è il riposato petto. L'ora è giunta, o mia Mèsse, l'ora è giunta! Terribile nel cuore del meriggio pesa, o Mèsse, la tua maturità. Ditirambo I Romae frugiferae dic. Ove sono i cavalli del Sole criniti di furia e di fiamma? le code prolisse annodate con liste di porpora, l'ugne adorne di lampi su l'aride ariste? Ove l'aie come circhi le trebbie come pugne, come atleti la rustica prole? Ove sono i cavalli del Sole disgiunti dal carro celeste? Ove le sferze sonanti, le rèdine lunghe sbandite, il tinnir dei metalli, il brillar delle madide groppe? Ove gli urli, ove i canti, ove i balli? Ove la femmina bella coperta di loppe e di reste come d'ori e di gemme? Ove gli scherni, le risse, le nude coltella, il sangue che fuma e che bolle, il giovine ucciso che cade nelle sue biade asperse del suo ricco sangue e del vin suo vermiglio? Ove il tuo nume, o Dionìso, e il tuo riso e il tuo furore e il tuo periglio? Qui scarsa mèsse per piccole vite, aia angusta, fatica molle, mani prudenti, fievoli gole. O Maremme, o Maremme, bellezza immite nata dalla Febbre e dal Sole, o regni diurni di Dite, voi l'anima mia sogna! O Roma, o Roma, la prima davanti alla faccia del Sole, incombustibile forza, semenza di gloria, unica nata dal solco del violento ardua spica opima, te l'anima mia sogna ed agogna in un mar di frumento, dal Cimino solitario ai vitiferi colli dei Volsci, fino a Minturno ov'erra nel limo l'ombra di Mario, fino a Sinuessa ebra di Massico forte, fino alle auree porte della Campania promessa, in un mar di frumento innumerevole come le trionfate stirpi dalla tua guerra! O arce della Terra, nel dipartirmi da te, al cospetto dell'Agro ebbi presagio cruento che m'infiammò d'amore più novo e gagliardo per tutte le tue are e per tutte le tue tombe. Vidi campo di rossi papaveri vasto al mio sguardo come letto di strage, come flutto ancor caldo sgorgato da una ecatombe. Non mai più fervente rossore veduto avean gli occhi miei grandi, e tutta la mia vita tremava dalle radici come s'io mi svenassi sul sacro tuo suolo con vene giganti. E l'anima, che si dipartiva, impetuosamente verso di te si rivolse, incesa da dolor rovente ch'ella udì stridere come tizzo in piaga viva; e tutta verso di te protesa era, gridando il tuo nome al fulgor vermiglio, dal carro strepitoso che la traeva in esiglio. E intollerabile male tra tutti i suoi mali a lei parve la sua dipartita; sentì la sua vita spoglia d'ogni forza e senz'ali, pallida e senza riposo piegata su l'acre ferita, ahi, mirò sé stessa lontana. O Toscana, o Toscana, dolce tu sei ne' tuoi orti che lo spino ti chiude e il cipresso ti guarda; dolce sei nelle tue colline che il ruscello ti riga e l'ulivo t'inghirlanda. E una dura virtude certo nelle tue torri commise e murò per la guerra civile le pietre forti; e carca di grandi morti tu sei ne' tuoi sculti sepolcri, o Fiorenza, o Fiorenza, giglio di potenza, virgulto primaverile; e certo non è grazia alcuna che vinca tua grazia d'aprile quando la valle è una cuna di fiori di sogni e di pace ove Simonetta si giace. Ma cuna dell'anima mia è il solco del carro stridente nella pietra dell'Appia via. A piè del Celio infrequente, sotto la Porta Capena gemere udì l'Acqua Marcia che abbevera l'Urbe affocata. Si mosse di là fra le tombe e i lauri, fra la Morte che guata e la Gloria che perde le frondi, ai colli d'Alba giocondi. Lasciò dietro sé le molli ombre; più non vide la lunga catena rosseggiar degli acquedutti; non vide la fresca Preneste; sdegnò di Tuscolo i frutti, d'Aricia la selva serena; s'affrettò alla spiaggia tirrena ove dura fervente la bava delle tempeste, alle reggie di Circe funeste ove urtò d'Odisseo la carena. Anelante al deserto di luce ove fuma vapor che avvelena e rapisce gli spirti errabondi, scoperse la candida rupe onde Anxur pendente nella truce canicola incombe allo stagno mortifero e al Mare. Appia via, cammino solare incontro all'Austro rapido-ardente, Appia via, dalla Porta Capena cui la recondita vena geme l'assidua stilla, ove condurrai tu la mia anima impaziente che d'avidità risfavilla? Non qui la mia messe è mietuta. A mietere l'alta mia mèsse mille falci indefesse travagliarono solco per solco, dall'aurora al tramonto, per nove aurore e per nove tramonti, in terra sconosciuta. E s'udiva in ogni meriggio venir dagli orizzonti infiammati la voce e il tuono di Pan sopra a noi. E ululava la torma feroce: «O Pan, aiuta, aiuta!» E per la stoppia i buoi candidi, aggiogati ai plaustri contra le biche manomesse, mugghiavano di spavento. O Pan, dammi il mio frumento, dammi l'oro della mia mèsse australe e la furia degli Austri libici e la furia dei cavalli dall'ugne adorne di lampi! Non qui non qui ebbi i miei campi, non qui ebbi i miei plaustri, ma nel grande Lazio tirreno, fino a Minturno, fino a Sinuessa, nella terra ebra di Massico nella terra ebra di Cècubo, a Fondi lacustre, ad Amicle marina, ad Ardea danaèia ov'arde il sangue di Turno, e su la curva spiaggia nomata dalla nutrice eneia, di qua dal rapace Volturno, e presso lo stagno taciturno pingue di calami e d'ulve ove il Latino il lauro vige tra le spiche fatte più fulve, e ad Anzio amor del pirata e della Fortuna crudeli e del crudele Imperatore, e a Ostia, nella sacra bocca del Tevere irta di prore gonfia di vele ingombra de' lunghi granai. Ovunque falciai e trebbiai nel grande Lazio tirreno, alle porte dell'Urbe e al confine estremo, fra il Tevere e il Liri, in ogni più fertile plaga. Ma a te vanno i miei sospiri, a te, ombra del Monte Circèo letifera come il veleno e il carme dell'avida maga che tenne l'insonne piloto re d'Itaca Odisseo nel letto dall'alte colonne. Quivi ancor regna nel Monte l'Iddia callida, figlia del Sole; e spia dal palagio rupestro, tra sue stellate pantere e sue tazze attoscate di suchi. Gemon prigioni i suoi drudi, bestiame del suo piacere, cui ella tocca la fronte con verga e susurra parole. E i suoi pastori astati, prole dell'Evia e del Centauro generata nell'ora dell'estro, di bronzea pelle, di pel sauro, prole furibonda, quivi sotto gettano rauco ululo su la palude e pungono il negro armento dalle code nude, i bufali, irosi mostri profondati nel lutulento pascolo che s'inselva di corna. E, quando aggiorna, tutta la palude ansa e soffia per le froge e per le fauci emerse, occhiuta di mille occhi torvi; e l'acqua putre gorgoglia e bulica occlusa dall'erbe cui sradica il piè bisulco, mentre nube di corvi sinistra offusca e assorda l'aria ove passa in silenzio mortale la Febbre velata di nebbia. Quivi io farò la mia trebbia, quivi batterò la mia mèsse in un'area vasta come campo per oste schierata. Ove sono i cavalli del Sole criniti di furia e di fiamma? le code prolisse annodate con liste di porpora, l'ugne adorne di lampi su l'aride ariste? Ove le sferze sonanti, le rèdine lunghe sbandite, il tinnir dei metalli, il brillar delle madide groppe? Ove gli urli, ove i canti, ove i balli? Ecco, al tripudio, ecco i cavalli! Chi li conduce? Ecco le sferze, ecco i crotali, i cimbali cavi-sonori che vince il rombo dei cuori, le femmine scalze-succinte ebre di luce, i giovini possa-di-tori ebri di strepito. Ecco il fiore del sangue latino. Ecco gli otri gonfi di vino. Ecco la sapa dolce a mescere. Ecco l'arido pane che asseta. Ecco la tazza di creta, foggia antica e ne' secoli bella, ampia come bucranio, rosea come mammella. Ecco tutto il tripudio! Versate i manipoli sul suol vulcanio, versate dal plaustro accline i manipoli come da cornucopia. Tutta la terra è roggia più che sinopia agli occhi torbidi. Il vento turbina, suscita polvere in vortici. Versano i plaustri nell'aia l'oro stridulo. L'oro s'accumula. Dispare il suolo igneo sotto la congerie innumerevole. Sola una bica, solo un aureo monte è la grande area. Tutto il Lazio è una stoppia che arde e solvesi in cenere da Sinuessa massica fino a Roma romùlea. Sola una bica, solo un aureo monte è la grande area; e i cavalli l'ascendono. Scalpita, scalpita! O Roma, questo è il monte di Cerere madre di Prosèrpina, questo è il monte della Magna Madre che navigò pel Tevere. I cavalli terribili erti su l'unghia solida l'ascendono, l'assaltano. Scalpita, scalpita! Crollano i manipoli sotto l'urto, si spezzano i culmi, si sgranano le spiche, le ariste stridono, le loppe volano. Scalpita, scalpita! Le sferze schioccano, per l'aere guizzano come le folgori. Come le gómene della nave in pericolo sotto la ràffica, si tendono le rèdine. Gli umani polsi battono, tremano i muscoli, si gonfiano le arterie. chi osa reggere la forza degli Alipedi? Balzano, s'impennano le fiere, vèrberano l'aere, col ferro quadruplice i cumuli dirompono. Le code intonse inarcansi, le criniere svèntolano come vessilli vividi, le nari spirano fiamma, gli occhi si rigano di sangue, i fianchi pulsano, le vene si palesano, per l'ampie groppe rivoli di sudore fluiscono, nella schiuma dei difficili freni brilla l'iride. Scalpita, scalpita! Tutto il fuoco dell'anima ferina esalasi nell'impeto e nell'ànsito par circonfondere gli acri corpi madidi, sul sudor fremere come un'ala invisibile. Svegliasi nei rapidi cuori l'anelito di Pègaso verso il cammin sidereo? Scalpita, scalpita! Il vento turbina, agita in nugoli vani le spoglie spìcee. Tutto l'aere è volatile oro, per ove le candide e negre e saure e maculate groppe splendono, per ove passano i gridi rauchi, gli schiocchi, i sibili, l'urto dei crotali, il tintinnìo dei cimbali, il mugghio delle bufale, il riso delle femmine umane che Libero èccita. Ma il cielo dilatasi muto e solenne sul tripudio; lungi si tace il Mare Infero ove il figlio di Venere dall'alta prora iliaca gridò: «Italia! Italia!» E l'ombra del re d'Itaca, l'ombra dell'antico nauta esperto degli uomini e dei pelaghi, guata dalla magica rupe se il Fato ferreo lui anco chiami a vincere un più grande pericolo. O Forza, o Abondanza, o Vittoria, voi all'opera terrestre auspici siete e testimonii! Tutto di voi s'illumina il grande Lazio. In purpureo lume il giorno cangiasi. Il vento chiude i suoi turbini. L'aere la terra pènetra. Par nelle cose nascere una vita indicibile, però che i prischi numi italici, subitamente reduci dall'ombra delle Origini, nella gleba rivivano, nell'acqua nell'erba nella silice, e laggiù, entro la reggia del re Latino figlio di Marica e di Fauno, rinverdiscasi il Lauro che fu sacro ad Apolline Febo pria che il vedovo di Creusa da Ilio venisse per congiugnersi con Lavinia vergine fertile. O prodigio! O metamorfosi! Su la grande area, quadrata come la saturnia Urbe nel nascere, la calpesta messe al par d'occidua nuvola s'imporpora. Scalpita, scalpita! E i cavalli son rosei splendenti, come se nell'intimo sangue una sùbita aurora accendasi e per i fumidi fianchi trasparir veggasi. S'ergono e di roseo fuoco il petto e il ventre splendono, ove s'intrecciano le tumide vene come d'edera intrichi per iperborei còrtici. Fiammei spiriti dalle narici esalano. Scalpita, scalpita! Or senton gli uomini che un divin numero modera l'impeto dei solidunguli. O prodigio! O metamorfosi! Ecco, le ali titanie, le solari penne, le lucifere piume, infaticabili flagelli dell'Etere diurno, atefici della rapidità precìpite, cui le trame dei muscoli contro le dure scapule parean constringere, ecco, ecco, si liberano si spiegano s'allargano. Nell'oro e nella porpora aperte palpitano le ali, le ali apollinee. Il vento ch'elle muovono solleva il cuor degli uomini come un peàn che càntino per sacri intercolumnii cetere a miriadi. Io Peàn! Io Peàn! Gloria al Maestro dell'Opere, allo Specchio degli Uomini, al Titan dalla rutila chioma, al Re delle alate parole, al Duce dei cori eliconii! O Forza, Abondanza, Vittoria, e tu, Genio che mai non si doma, voi siatemi qui testimonii. Calpestano i cavalli del Sole il rinato frumento di Roma. Pace Pace, pace! La bella Simonetta adorna del fugace emerocàllide vagola senza scorta per le pallide ripe cantando nova ballatetta. Le colline s'incurvano leggiere come le onde del vento nella sabbia del mare e non fanno ombra, quasi d'aria. L'Arno favella con la bianca ghiaia, recando alle Nereidi tirrene il vel che vi bagnò forse la Grazia, forse il velo onde fascia la Grazia questa terra di Toscana escita della casalinga lana che fu l'arte sua prima. Pace, pace! Richiama la tua rima nel cor tuo come l'ape nel tuo bugno. Odi tenzon che in su l'estremo giugno ha la cicala con la lodoletta! La tenzone O Marina di Pisa, quando folgora il solleone! Le lodolette cantan su le pratora di San Rossore e le cicale cantano su i platani d'Arno a tenzone. Come l'Estate porta l'oro in bocca, l'Arno porta il silenzio alla sua foce. Tutto il mattino per la dolce landa quinci è un cantare e quindi altro cantare; tace l'acqua tra l'una e l'altra voce. E l'Estate or si china da una banda or dall'altra si piega ad ascoltare. È lento il fiume, il naviglio è veloce. La riva è pura come una ghirlanda. Tu ridi tuttavia co' raggi in bocca, come l'Estate a me, come l'Estate! Sopra di noi sono le vele bianche sopra di noi le vele immacolate. Il vento che le tocca tocca anche le tue pàlpebre un po' stanche, tocca anche le tue vene delicate; e un divino sopor ti persuade, fresco ne' cigli tuoi come rugiade in erbe all'albeggiare. S'inazzurra il tuo sangue come il mare. L'anima tua di pace s'inghirlanda. L'Arno porta il silenzio alla sua foce come l'Estate porta l'oro in bocca. Stormi d'augelli varcano la foce, poi tutte l'ali bagnano nel mare! Ogni passato mal nell'oblìo cade. S'estingue ogni desìo vano e feroce. Quel che ieri mi nocque, or non mi nuoce; quello che mi toccò, più non mi tocca. È paga nel mio cuore ogni dimanda, come l'acqua tra l'una e l'altra voce. Così discendo al mare; così veleggio. E per la dolce landa quinci è un cantare e quindi altro cantare. Le lodolette cantan su le pratora di San Rossore e le cicale cantano su i platani d'Arno a tenzone. Bocca d'Arno Bocca di donna mai mi fu di tanta soavità nell'amorosa via (se non la tua, se non la tua, presente) come la bocca pallida e silente del fiumicel che nasce in Falterona. Qual donna s'abbandona (se non tu, se non tu) sì dolcemente come questa placata correntìa? Ella non canta, e pur fluisce quasi melodìa all'amarezza. Qual sia la sua bellezza io non so dire, come colui che ode suoni dormendo e virtudi ignote entran nel suo dormire. Le saltano all'incontro i verdi flutti, schiumanti di baldanza, con la grazia dei giovini animali. In catena di putti non mise tanta gioia Donatello, fervendo il marmo sotto lo scalpello, quando ornava le bianche cattedrali. Sotto ghirlande di fiori e di frutti svolgeasi intorno ai pergami la danza infantile, ma non sì fiera danza come quest'una. V'è creatura alcuna che in tanta grazia viva ed in sì perfetta gioia, se non quella lodoletta che in aere si spazia? Forse l'anima mia, quando profonda sé nel suo canto e vede la sua gloria; forse l'anima tua, quando profonda sé nell'amore e perde la memoria degli inganni fugaci in che s'illuse ed anela con me l'alta vittoria. Forse conosceremo noi la piena felicità dell'onda libera e delle forti ali dischiuse e dell'inno selvaggio che si frena. Adora e attendi! Adora, adora, e attendi! Vedi? I tuoi piedi nudi lascian vestigi di luce, ed a' tuoi occhi prodigi sorgon dall'acque. Vedi? Grandi calici sorgono dall'acque, di non so qual leggiere oro intessuti. Le nubi i monti i boschi i lidi l'acque trasparire per le corolle immani vedi, lontani e vani come in sogno paesi sconosciuti. Farfalle d'oro come le tue mani volando a coppia scoprono su l'acque con meraviglia i fiori grandi e strani, mentre tu fiuti l'odor salino. Fa un suo gioco divino l'Ora solare, mutevole e gioconda come la gola d'una colomba alzata per cantare. Sono le reti pensili. Talune pendon come bilance dalle antenne cui sostengono i ponti alti e protesi ove l'uom veglia a volgere la fune; altre pendono a prua dei palischermi trascorrendo il perenne specchio che le rifrange; e quando il sole batte a poppa i navigli, stando fermi i remi, un gran fulgor le trasfigura: grandi calici sorgono dall'acque, gigli di foco. Fa un suo divino gioco la giovine Ora che è breve come il canto della colomba. Godi l'incanto, anima nostra, e adora! Intra du' Arni Ecco l'isola di Progne ove sorridi ai gridi della rondine trace che per le molli crete ripete le antiche rampogne al re fallace, e senza pace, appena aggiorna, va e torna vigile all'opra nidace, né si posa né si tace se non si copra d'ombra la riviera a sera circa l'isola leggiera di canne e di crete, che all'aulete dà flauti, alla migrante nidi e, se sorridi, lauti giacigli all'amor folle. Ecco l'isola molle. Ecco l'isola molle intra dù Arni, cuna di carmi, ove cantano l'Estate le canne virenti ai vènti in varii modi, non odi?, quasi di nodi prive e di midolle, quasi inspirate da volubili bocche e tocche da dita sapienti, quasi con arte elette e giunte insieme a schiera, su l'esempio divino, con lino attorto e con cera sapida di miele, a sette a sette, quasi perfette sampogne. Ecco l'isola di Progne. La pioggia nel pineto Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove su i pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti, piove su i nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l'anima schiude novella, su la favola bella che ieri t'illuse, che oggi m'illude, o Ermione. Odi? La pioggia cade su la solitaria verdura con un crepitìo che dura e varia nell'aria secondo le fronde più rade, men rade. Ascolta. Risponde al pianto il canto delle cicale che il pianto australe non impaura, né il ciel cinerino. E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancóra, stromenti diversi sotto innumerevoli dita. E immersi noi siam nello spirto silvestre, d'arborea vita viventi; e il tuo volto ebro è molle di pioggia come una foglia, e le tue chiome auliscono come le chiare ginestre, o creatura terrestre che hai nome Ermione. Ascolta, ascolta. L'accordo delle aeree cicale a poco a poco più sordo si fa sotto il pianto che cresce; ma un canto vi si mesce più roco che di laggiù sale, dall'umida ombra remota. Più sordo e più fioco s'allenta, si spegne. Sola una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non s'ode voce del mare. Or s'ode su tutta la fronda crosciare l'argentea pioggia che monda, il croscio che varia secondo la fronda più folta, men folta. Ascolta. La figlia dell'aria è muta; ma la figlia del limo lontana, la rana, canta nell'ombra più fonda, chi sa dove, chi sa dove! E piove su le tue ciglia, Ermione. Piove su le tue ciglia nere sì che par tu pianga ma di piacere; non bianca ma quasi fatta virente, par da scorza tu esca. E tutta la vita è in noi fresca aulente, il cuor nel petto è come pesca intatta, tra le pàlpebre gli occhi son come polle tra l'erbe, i denti negli alvèoli con come mandorle acerbe. E andiam di fratta in fratta, or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i mallèoli c'intrica i ginocchi) chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l'anima schiude novella, su la favola bella che ieri m'illuse, che oggi t'illude, o Ermione. Le stirpi canore I miei carmi son prole delle foreste, altri dell'onde, altri delle arene, altri del Sole, altri del vento Argeste. Le mie parole sono profonde come la radici terrene, altre serene come i firmamenti, fervide come le vene degli adolescenti, ispide come i dumi, confuse come i fumi confusi, nette come i cristalli del monte, tremule come le fronde del pioppo, tumide come la narici dei cavalli a galoppo, labili come i profumi diffusi, vergini come i calici appena schiusi, notturne come le rugiade dei cieli, funebri come gli asfodeli dell'Ade, pieghevoli come i salici dello stagno, tenui come i teli che fra due steli tesse il ragno. Il nome Donna, ebbe il tuo nome una città murata della pulverulenta Argolide. E quivi era, dicesi, un sentier breve per discendere all'Ade avaro, alle tenarie fauci; sì che i natìi non ponean nella bocca dei loro morti il prezzo del tragitto infernale, l'obolo tenebroso pel nocchier dello Stige. Ed ebbe anco il tuo nome la figlia della grande Elena, il fior di Sparta bianco, il sangue di Leda splendido come l'oro, la nata di colei che brillò su la terra come un'altra Stagione, delizia innumerevole, face e specchio di Venere, piaga del combattente. Ermione, Ermione dalla voce sorgevole e talora virente quasi tra capelvenere acqua ombrosa, dagli occhi nutriti di bellezza e di frescura, nati gemelli della Grazia e del Sogno, Ermione cara all'aedo, esperta in tesser la ghirlanda e la lode pel fertile aedo che ti sazia di melodia selvaggia, il tuo nome mi piace tuttavia come un grappolo, come quel flauto roco che a sera è nel cespuglio, mi piace come un grappolo d'uva nera il tuo nome, come il fiore del croco e la pioggia di luglio. Innanzi l'alba Coglierai sul nudo lito, infinito di notturna melodìa, il maritimo narcisso per le tue nuove corone, tramontando nell'abisso le Vergilie, le sorelle oceanine che ancor piangono per Ia lacerato dal leone. Andrem pel lito silenti; sentiremo la rugiada lene e pura piovere dagli occhi lenti della notte moritura, tramontando nel pallore le Vergilie, le sorelle oceanine minacciate dalla spada del feroce cacciatore. Forse volgerò la faccia in dietro talvolta io solo per vedere la tua traccia luminosa, e starem muti in ascolto, tramontando in tema e in duolo le Vergilie, le sorelle oceanine a cui l'Alba asciuga il volto col suo bianco vel di sposa. Vergilia anceps Nella pupilla tua, nel disco dell'occhio aurino la prua, l'acuta prua del navil prisco, come nella medaglia della Tessaglia risplende, come nelle stupende monete del potere marino, come nello statère del porto licio dal pirata fenicio nominato Fasèla. Alla vela! alla vela! E nell'altra pupilla scintilla il grano a fiamma come nel tetradramma di Leontini sul fiume Lisso ubertà di Sicilia dai fromenti divini. E, s'io m'affisso in te, la duplice arte il cor mi parte. O duro suol discisso! Lungo solco navale! E in una e in altra parte la mia virtù si esilia, o mia Vergilia nautica e cereale. I tributarii Questa è la bella foce che oggi ha il color del miele, sì lene che l'Amore te l'accosta alle labbra come una tazza colma. Lodata io l'ho con arte. Ma quante acque in quest'acqua, ma quante acque correnti, quanta forza rapace, o Fluviale, in questa tarda pace! E non è dato a noi votar la colma tazza, distinguerne i sapori. Chi loderà l'Ombrone cui Lorenzo già vide rompere dallo speco dietro le trecce d'Ambra? Ancóra ei grida all'Arno: «In te mia speme è sola. Soccorri presto, ché la ninfa vola». Chi loderà il Bisenzio sì caro a quell'antico favolatore ornato che lodò la bellezza della donna perfetta? E chi la Pescia e l'Era? E chi la Pesa e l'Elsa? Chi la Greve e la Sieve? e i rivi freddi e molli del Casentino giù pe' verdi colli? Strepiti freschi in sassi politi, argille chiare, argini d'erba, file di pioppi alti, vivai di salci giovinetti, cupe conche pescose, ombre che il quadrel d'oro fiede, ambigui meandri, or chi di voi si gode e tempra nel cor suo la vostra lode? Questa è la foce; e quanto paese l'acqua corre, che non godiamo immoti! Le valli sono cave come la man che beve, i monti gonfii come mammella non premuta. Il gregge passa il guado. Il mulino rintrona. Solingo è un fonte nella Falterona. Cade la sera. Nasce la luna dalla Verna cruda, roseo nimbo di tal ch'effonde pace senza parole dire. Pace hanno tutti i gioghi. Si fa più dolce il lungo dorso del Pratomagno come se blandimento d'amica man l'induca a sopor lento. Su i pianori selvosi ardon le carbonaie, solenni fuochi in vista. L'Arno luce fra i pioppi. Stormire grande, ad ogni soffio, vince il corale ploro de' flauti alati che la gramigna asconde. E non s'ode altra voce. Dai monti l'acqua corre a questa foce. I camelli Nostra spiaggia pisana, amor di nostro sangue, vita di sabbie e d'acque silvana e litorana, o ferma creatura nella qual si compiacque un'arte che non langue non trema e non s'offusca, terra lieve e robusta che lineata pare dalla mano sicura del figulo onde nacque il purissimo vaso che vale e non corusca né pesa, specie pura, l'orgoglio della mensa e della tomba etrusca, il fiore delle forme nel cielo senza occaso, or qual mai novo caso fece che dall'immensa Asia o dall'Africa usta sen venisse il deforme somiero a stampar l'orme su la tua levità divina e, come fa il giumento crinito dal tranquillo occhio amico dell'uomo, a someggiare con la sua gobba onusta le spoglie dell'augusta selva tra l'Arno e il Mare? Passano per la macchia, vanno verso la ripa, tra i mucchi di legname, tra i cumuli di stipa, i camelli gibbuti, carichi di fascine di ramaglia e di strame, sì gravi e tristi e muti! Sotto i lor piè distorti scricchiolano le pine aride, gli aghi morti. Ròtea la mulacchia nel cielo ingombro d'afa; e a quando a quando gracchia. Cola e odora la ragia. S'odono su le Lame di Fuore le cavalle nitrire a quando a quando; e più sottil nitrito e più tremulo s'ode rispondere e più fresco, dei puledri novelli. Passano per la macchia gravi e tristi i camelli. Non il lor Barbaresco li guida ma il bifolco toscano, con l'antica voce che i padri suoi usarono pel solco ad incitare i buoi tardi nella fatica. Vanno i callosi cuoi. Giungono alla radura per deporre i lor fasci. Ecco, subitamente ciascun par che s'accasci per esalare il fiato, per quivi infracidire. Si piegan su i ginocchi con un grido sommesso. Poi sbadigliano al sole. Appar la gialla chiostra dei denti aspri, il palato violaceo. S'ode salire nelle gole serpentine e lanose un gorgóglio intermesso. Treman le labbra molli e lacrimano i bruni occhi esanimi, gli specchi inerti dei deserti e dei palmeti. Vecchi sembran della vecchiezza del Mondo questi grandi esuli, oppressi e affranti da tutta la stanchezza che addolora la carne viva sopra la faccia della Terra discorde. S'alzano senza il peso. Lunghe dal fianco spoglio trascinano le corde giù per la traccia. E s'ode quel lor triste gorgóglio. Tali forse li vide in lor piagge natali, e n'ebbe orrore, il buono mercatante pisano che fu predato e tratto prigione dai corsali in paese lontano. Volle la mala sorte ch'egli incappasse in una fusta di Barbareschi, che armava ventidue remi per banda, forte e veloce a saetta. E per le mani ladre perse le robe sue, la cocca a vele quadre e la mercatanzia. E fu messo in ritorte. E schiavo in Barberia gran tempo si rimase. E macinava il grano a braccia, tratto tratto udendo il grido vano del camello percosso, triste sino alla morte. Poi tornò, per riscatto, a Pisa, alle sue case. E fecesi un palagio novo a specchio dell'Arno. Memore del malvagio servire, ALLA GIORNATA scrisse nell'architrave. E l'Arno era soave. Meriggio A mezzo il giorno sul Mare etrusco pallido verdicante come il dissepolto bronzo dagli ipogei, grava la bonaccia. Non bava di vento intorno alita. Non trema canna su la solitaria spiaggia aspra di rusco, di ginepri arsi. Non suona voce, se ascolto. Riga di vele in panna verso Livorno biancica. Pel chiaro silenzio il Capo Corvo l'isola del Faro scorgo; e più lontane, forme d'aria nell'aria, l'isole del tuo sdegno, o padre Dante, la Capraia e la Gorgona. Marmorea corona di minaccevoli punte, le grandi Alpi Apuane regnano il regno amaro, dal loro orgoglio assunte. La foce è come salso stagno. Del marin colore, per mezzo alle capanne, per entro alle reti che pendono dalla croce degli staggi, si tace. Come il bronzo sepolcrale pallida verdica in pace quella che sorridea. Quasi letèa, obliviosa, eguale, segno non mostra di corrente, non ruga d'aura. La fuga delle due rive si chiude come in un cerchio di canne, che circonscrive l'oblìo silente; e le canne non han susurri. Più foschi i boschi di San Rossore fan di sé cupa chiostra; ma i più lontani, verso il Gombo, verso il Serchio, son quasi azzurri. Dormono i Monti Pisani coperti da inerti cumuli di vapore. Bonaccia, calura, per ovunque silenzio. L'Estate si matura sul mio capo come un pomo che promesso mi sia, che cogliere io debba con la mia mano, che suggere io debba con le mie labbra solo. Perduta è ogni traccia dell'uomo. Voce non suona, se ascolto. Ogni duolo umano m'abbandona. Non ho più nome. E sento che il mio vólto s'indora dell'oro meridiano, e che la mia bionda barba riluce come la paglia marina; sento che il lido rigato con sì delicato lavoro dell'onda e dal vento è come il mio palato, è come il cavo della mia mano ove il tatto s'affina. E la mia forza supina si stampa nell'arena, diffondesi nel mare; e il fiume è la mia vena, il monte è la mia fronte, la selva è la mia pube, la nube è il mio sudore. E io sono nel fiore della stiancia, nella scaglia della pina, nella bacca, del ginepro: io son nel fuco, nella paglia marina, in ogni cosa esigua, in ogni cosa immane, nella sabbia contigua, nelle vette lontane. Ardo, riluco. E non ho più nome. E l'alpi e l'isole e i golfi e i capi e i fari e i boschi e le foci ch'io nomai non han più l'usato nome che suona in labbra umane. Non ho più nome né sorte tra gli uomini; ma il mio nome è Meriggio. In tutto io vivo tacito come la Morte. E la mia vita è divina. Le madri Su le Lame di Fuore, nel salso strame, nelle brune giuncaie, nell'erbe gialle, oziano a branchi le saure e baie cavalle di San Rossore. Altre su i banchi di sabbia, altre nell'acqua immerse fino al ventre, s'ammusano; mentre le groppe al sole rilucono, chiare, scure, d'oro, di rame. Su le Lame, cui adduce anatre il verno, oziano nella luce pura le feconde, coi gravidi fianchi immote in una massa placida. Sole su l'acqua bassa le lunghe code con moto eterno ondeggiano. S'ode a quando a quando fremito delle froge umide, sbuffare ansare leggero, tremulo nitrito, nella foce silente; cui dal lito risponde fievole risucchio del mare. Taluna esce del mucchio, annusa l'acqua, s'abbevera lenta; poi guata verso il monte su cui s'aduna fumoso il nembo; poi si rivolge e ammusa. E ondeggiano le code lente sul riposo della mandra ferace. Teco, o Luce pura, teco attendono in pace la genitura le Madri. Lunge per l'aria chiara appar grande e soave cerula e bianca l'Alpe di Carrara, cerula d'ombre bianca di cave. Ma ingombre del muto nembo che si prepara son le cime ov'hanno con l'aquile nido le folgori corusche. Odor di lunge acuto, dalle pinete verdi e fulve, nelle bave rare del vento giunge alla quiete. Ed ecco una nave, ecco le vele etrusche partitesi dal lito di Luni lunato e niveo di marmi. Ecco una nave in vista tra il Serchio e il Gombo. È carica di marmi, è carica di sogni dormenti nel profondo candore ignoti e soli. E il mio spirito evòca il tuo folle Evangelista, o Buonarroti, il figlio della Terra e del Genio che l'affoca; vede la gran persona che si torce nell'angoscia del masso che lo serra, onde si sprigiona a guerra l'aspro ginocchio, e la coscia d'osso e di muscoli enorme. Nella carena dorme l'incarco fecondo di forme, tratto dall'erme cave, rapito al grembo dell'Alpe. Nel grembo della nave dormono le bianche moli. Attendon dai sogni soli la genitura le Madri. Albàsia O mattin nuziale tra il Mar pisano e l'Alpe lunense! O nozze immense e brevi! La nube formosa disposa il monte che a lei sale, l'ombra d'entrambi il piano, la dolce acqua il sale, la canna il tralcio, il salcio la florida stiancia, l'argano la bilancia su la foce pescosa, la mia rima il mio giòlito, l'algosa arena i tuoi piè lievi, o Ermione. E il cielo è nivale come su la tua guancia ondata il velo insolito. Il mare è d'opale con vene di crisòlito, come i mari dell'Asia, immoto albore di gemme fuse. Brillano le meduse a fiore dell'immerso banco. E tutto è bianco, presso e lontano. È grande albàsia da lido a lido, come allor che fa il nido sul Mar sicano la sposa Alcyone. L'Alpe sublime Svégliati, Ermione, sorgi dal tuo letto d'ulva, o donna dei liti. Mira spettacolo novo, gli Iddii appariti su l'Alpe di Luni sublime! Occidue nubi, corone caduche su cime eterne. Ma par che s'aduni concilio di numi grande e solenne tra il Sagro e il Giovo, tra la Pania e la Tambura, e che l'aquila fulva del Tonante su le sante sedi apra tutte le penne. Oh silenzii tirrenii nel destero Gombo! Solitudine pura, senz'orme! Candore dei marmi lontani, statua non nata, la più bella! Dormono i Monti Pisani, grevi, di cerulo piombo, su la pianura che dorme. Altra stirpe di monti. Non han numi, non genii, non aruspici in lor caverne, non impeti d'ardore verso i tramonti, non insania, non dolore; ma dormono su la pianura che dorme. Oh Alpe di Luni, davanti alla faccia del Mare la più bella, rupe che s'infutura, oh Segno che l'anima cerne, grande anelito terrestro verso il Maestro che crea, materia prometèa, altitudine insonne, alata, Inno senza favella, carne delle statue chiare, gloria dei templi immuni, forza delle colonne alzata, sostanza delle forme eterne! Il Gombo L'immensità del duolo, del lutto immedicabile senza fine, terrestre fatta qual Niobe nell'umida rupe, quivi abitava sembra nel lito deserto, nell'alpe ardua, nella selva che piange il suo pianto aromale. Tutto è quivi alto e puro e funebre come le plaghe ove duran nel Tempo i grandi castighi che inflisse il rigor degli iddii agli uomini obliosi del sacro limite imposto all'ansia del lor desiderio immortale. Tre disse quivi immense parole il Mistero del Mondo, pel Mare pel Lito per l'Alpe, visibile enigma divino che inebria di spavento e d'estasi l'anima umana cui travagliano il peso del corpo e lo sforzo dell'ale. Poi che non val la possa della Vita a comprendere tanta bellezza, ecco la Morte che braccia più vaste possiede e silenzii più intenti e rapidità più sicura; ecco la Morte, e l'Arte che è la sua sorella eternale: quella che anco rapisce la Vita e la toglie per sempre all'inganno del Tempo e nuda l'inalza tra l'Ombra e la Luce, e le dona col ritmo il novello respiro: ecco la Morte e l'Arte apparsemi nel cerchio fatale. O Niobe, l'antico tuo grido odo alzarsi repente al cospetto del Mare, e il tuo disperato dolore chiamar le figlie e i figli per l'inesorabile chiostra, e stridere odo l'arco forte e sibilare lo strale. «Tera, Ftia, Cleodossa, Astìoche, Pelòpia, Fedìmo!» Tu chiami; e i dolci nomi, i nomi che furono il miele della tua bocca, o Madre, si frangon nell'ululo crudo come pel mìssile oro l'incolpevole fior filiale. Procombono sul petto sul fianco, procombono i corpi floridi, i giovinetti venusti, le vergini leni; copron la sabbia amara, mescono le chiome alle spume non il sangue: incruenta è la piaga dell'oro letale. Procombono, stanno ai tuoi piedi, o Madre demente! Poi tutto è marmo, immota bellezza, effigiato silenzio. L'immensità del duolo è fatta terrestre e marina. Il Mare il Lito l'Alpe sono il tuo simulacro ferale. O Tantalide audace, io veggo il tuo bellissimo vólto impietrato e il tuo pianto nella solitudine esangue, e il sacrilego orgoglio che feceti chiedere altari per la generatirce virtù del tuo grembo mortale. Tutto è quivi alto e puro e funebre e ai cieli superbo, memore dell'umane grandezze e dei castighi divini. Ed in nessuna plaga con più guerra, ahi, l'anima audace travagliarono il peso del corpo e lo sforzo dell'ale. Anniversario orfico P.B.S. VIII Luglio MDCCCXXII Udimmo in sogno sul deserto Gombo sonar la vasta bùccina tritonia e da Luni diffondersi il rimbombo a Populonia. Dalle schiume canute ai gorghi intorti fremere udimmo tutto il Mare nostro come quando lo vèrberan le forti ale dell'Ostro. E trasalendo «Odi, sorella» io dissi «odi l'annuncio dell'enfiata conca? Forse per noi risale dagli abissi la testa tronca, la testa esangue del treicio Orfeo che, rapita dal freddo Ebro alla furia bassàrica, sen venne dell'Egeo al mar d'Etruria». Quasi fucina il vespro ardea di cupi fuochi; gridavan l'aquile nell'alto cielo, brillando il crine delle rupi qual roggio smalto. Come profusi fuor dell'urne infrante parean ruggir nell'affocato cerchio i fiumi, l'Arno del selvaggio Dante, la Magra, il Serchio. Ed ella disse: «Non l'Orfeo treicio, non su la lira la divina testa, ma colui che si diede in sacrificio alla Tempesta. Oggi è il suo giorno. Il nàufrago risale, che venne a noi dagli Angli fuggitivo, colui che amava Antigone immortale e il nostro ulivo». Dissi: «O veggente, che faremo noi per celebrar l'approdo spaventoso? Invocheremo il coro degli Eroi? Tremo, non oso. Questo naufrago ha forse gli occhi aperti e negli occhi l'imagine d'un mondo ineffabile. Ei vide negli incerti gorghi profondo. E tolto avea Promèteo dal rostro del vùlture, nel sen della Cagione svegliato avea l'originario mostro Demogorgóne!» Disse ella: «Gli versavan le melodi i Vènti dai lor carri di cristallo, il silenzio gli Spiriti custodi bui del metallo, il miel solare nella boccha schiusa le musiche api che nudrito aveano Sofocle, il gelo gli occhi d'Aretusa fiore d'Oceano». Dissi: «Ei ghermì la nuvola negli atrii di Giove, su l'acroceraunio giogo la folgore. Non odi i boschi patrii offrirgli il rogo? Mira funebre letto che s'appresta, estrutto rogo senza la bipenne! Vengono i rami e i tronchi alla congesta ara solenne. E caduto dal ciel l'arde il divino fuoco. Scrosciano e colano le gomme. Spazia l'odor del limite marino all'Alpi somme». Ella disse: «A noi vien per aver pace il nàufrago che il Mar di gorgo in gorgo travolse. Altra nel cielo che si tace anima scorgo. Placa te stesso e l'ospite! Il mortale, ch'evocò la gran Niobe di pietra su dal silenzio e trarre udì lo strale dalla faretra, èvochi presso il nàufrago silente la lacrimata figlia di Giocasta, la regia virgo nelle pieghe lente del peplo casta, Antigone dall'anima di luce, Antigone dagli occhi di viola, l'Ombra che solo nell'esilio truce egli amò sola. Ecco il giglio per quelle morte chiome, il fiore inespugnabile del nudo Gombo, il tirreno fior che ha il greco nome del doppio ludo, ecco il pancrazio». Io dissi: «No, 'l corremo. Intatto sia tra l'uno e l'altro il fiore. Vegli con noi quest'Ombre ed il supremo lor sacro amore». Terra, Vale! Tutto il Cielo precipita nel Mare. S'intenebrano i liti e si fan cavi, talami dell'Eumenidi avernali. Nubi opache sul limite marino alzano in contro mura di basalte. Solo tra le due notti il Mar risplende. presa e constretta negli intorti gorghi, come una preda pallida, è la luce. La tempesta ha divelto con furore i pascoli nettunii dalle salse valli ove agguatano i ritrosi mostri. Alghe livide, fuchi ferrugigni, nere ulve di radici multiformi fanno grande alla morta foce ingombro, natante prato cui nessuna greggia morderà, calcherà nessun pastore. Virtù si cela forse nelle fibre sterili, che trasmuta il petto umano? O mito del mortale fatto nume cerulo, rinnovèllati nel mio desiderio del flutto infaticato! Tutto il Cielo precipita nel Mare. Preda è la luce dei viventi gorghi, forse immolata per l'eternità. Ditirambo II Io fui Glauco, fui Glauco, quel d'Antèdone. Trepidar ne' precordii sentii la deità, sentii nell'intime midolla il freddo fremito della potenza equorea trascorrere di repente, io terrìgena, io mortal nato di sostanza efimera, io prole della polvere! Memore sono della metamorfosi. L'anima si fa pelago nel rimembrare, s'inazzurra ed èstua, e le foci vi sboccano dei mille fiumi che mi confluirono sul capo: nel rigùrgito immenso novamente par dissolversi quest'ossea compagine. O Iddii profondi, richiamate l'esule, però ch'ei sia miserrimo nella sua carne d'acro sangue irrigua, lasso ne' suoi piè debili che per lotosi tramiti s'attardano, dopo ch'ei fu l'indomita forza del flutto convertita in muscoli tòrtili per attorcere, dopo che le correnti dell'Oceano gli furon giogo a tessere le divine di sé vicissitudini come su trama vitrea. O Iddii profondi, richiamate l'esule triste, purificatelo sotto i fiumi lustrali ìnferi e sùperi, la deità rendetegli! Memore sono. Era già fatto il vespero su l'acque; ma i cieli ultimi ardevano d'un foco inestinguibile, e i golfi e i promontorii e l'isole di contro negreggiavano come are senza vittime già notturni, allorché sostai nel pascolo nettunio, presso il limite marino. Onusto di gran preda, sùbito votai su l'erbe i nèssili miei lini a noverar la mia dovizia. Poi del confuso cumulo feci schiere ordinate. E in cor godevami tante squame rilucere veggendo per quel bruno intrico; «I nèssili miei lini e i piombi e i sugheri t'appenderò nel tempio, o dio propizio» in cor disse il grato animo. E allor vidi i pesci più risplendere, vidi le pinne battere e le branchie alitare e per le scaglie lampi di forza correre. E, come quando il nume di Diòniso invade le Bassaridi e si disfrena giù pe' monti il Tìaso, la muta gente parvemi infuriare, cedere a un'incognita virtù, di sacra fervere insania. «Qual prodigio è questo? Ahi misero me!» gridai per grandissimo spavento; ché la preda mia fuggivasi a gara con vipèrea rapidità, balzando e dileguandosi. «Me misero! Un dio fecemi questo? e nell'erba è la possanza?» Attonito mi rimasi. Il silenzio era divino nella solitudine. Era già fatto il vespero, ma lungamente i cieli ultimi ardevano. Udir parvemi bùccina cupa sonar lungh'essi i promontorii selvosi; udire parvemi canti fatali spandersi dall'isole. E quasi inconsapevole la man correami per quell'erba strania, meditando io nell'animo il prodigio. Divelsi dalle radiche gli steli foschi; e, simile a capra di virgulti avida, mordere incominciai, discerpere e mordere. Rigavami le fauci il suco, ne' precordii scendeami, tutto il petto conturbandomi. «O terra!» gridai. Fumida era la terra intorno come nuvola che fosse per dissolversi ne' cieli, sotto i piedi miei fuggevole. E un amore terribile sorgeva in me, dell'infinito pelago, dell'amara salsedine, degli abissi, dei vortici e dei turbini. La mia carne era libera della gravezza terrestre. Nascevami dall'imo cor l'imagine d'un'onda ismisurata e per le pàlpebre mi si svelava il cerulo splendor del sangue novo, e il collo e gli òmeri dilatarsi parevano e le ginocchia giugnersi, le scaglie su per la pelle crescere, gelidi guizzi correre pei muscoli. «Terra, vale!» Precipite caddi nel gorgo, mi sommersi, l'infima toccai valle oceanica, uomo non più, non anco dio, ma immemore della terra e degli uomini. Fiumi correnti, odo il sublime sònito di voi sempre nell'anima, fiumi sgorganti d'ogni scaturigine, leni di pace o rauchi di violenza, caldi come l'aure nove che v'arrecarono l'alluvione copiosa o frigidi come i nivali vertici onde scendeste inviolati, d'auree sabbie flavi o sanguinei d'argille, pingui di limo o più limpidi che l'etere sidereo! Cento e cento passarono passarono sul mio capo. La fluida vita dell'orbe mi fluì su gli òmeri proni, con ineffabile melodìa. L'Acheronte, il gran tartareo pianto, anche sentii volvere su me nel cieco suo pallore i petali rapiti al prato asfòdelo. Tutte l'acque rombarono crosciarono su me sommerso, tolsero ogni terrestrità dal corpo immemore della sua dura nascita. E mi risollevai dio verso l'etere santo; spirai grande alito che una nave d'eroi sospinse. Io auspice apparvi agli Argonauti! Di su la prora chino il cantor tracio raccolse il vaticinio. E presso lui, d'oro chiomato, florido della prima lanugine, (sentendo l'immortalità, saltavagli il cuore sotto il bàlteo splendido) presso Orfeo figlio d'Apolline era il fratello d'Elena. O Iddii profondi, richiamate l'esule, la deità rendetegli! Io fui Glauco, fui Glauco, quel d'Antèdone. La terra m'è supplizio. Ecco, tutta la luce è nel Mare Infero, e per ovunque è tenebra. O nunzia di prodigi Alba oceanica! Nel gorgo mi precipito. L'oleandro I. Erigone, Aretusa, Berenice, quale di voi accompagnò la notte d'estate con più dolce melodìa tra gli oleandri lungo il bianco mare? Sedean con noi le donne presso il mare e avea ciascuna la sua melodìa entro il suo cuore per l'amica notte; e ciascuna di lor parea contenta. E sedevamo su la riva, esciti dalle chiare acque, con beato il sangue del fresco sale; e gli oleandri ambigui intrecciavan le rose al regio alloro su 'l nostro capo; e il giorno di sì grandi beni ci avea ricolmi che noi paghi sorridevamo di riconoscenza indicibile al suo divin morire. «Il giorno» disse pianamente Erigone verso la luce «non potrà morire. Mai la sua faccia parve tanto pura, non ebbe mai tanta soavità.» Era la sua parola come il vento d'estate quando ci disseta a sorsi e nella pausa noi pensiamo i fonti dei remoti giardini ov'egli errò. L'udii come s'io fossi ancor sommerso e la sua voce avesse umido velo. Ma reclinai la gota, e d'improvviso tiepida come sangue dalla conca dell'udito sgorgò l'acqua marina. Pur, profondando nella sabbia i nudi piedi, io sentia partirsi lentamente il buon calor del tramontato sole. E chi recise all'oleandro un ramo? Io non mi volsi, ma l'amarulenta fragranza della linfa della fresca piaga mi giunse alle narici, vinse l'odor muschiato dei vermigli fiori. «O Glauco» disse Berenice «ho sete.» Ed Aretusa disse: «O Derbe, quando fiorì di rose il lauro trionfale?» Ella ben sapea quando, ma non Derbe inesperto in foggiar lucidi miti. Ed il cuore profondo mi tremò, tremò della divina poesia. Ond'io pregava: «O desiderii miei, stirpe vorace e vigile, dormite! E voi lasciate che nel vostro sonno io mi cinga del lauro trionfale!» Tutto allora fu grande, anche il mio cuore. Oh poesia, divina libertà! Ergevasi con mille cime l'Alpe grande, quasi con volo di mille aquile, per il salir d'impetuosa forza dalle sue dure viscere di marmo onde l'uom che non volle umana prole trasse i suoi muti figli imperituri. E le curve propaggini dell'Alpe si protendeano ad abbracciare il mare; ed il mare splendeva di candore meraviglioso nel lunato golfo con la bellezza delle donne nostre. E quella luce un rinascente mito fece di voi sull'irraggiato mondo, Erigone, Aretusa, Berenice! Così ci parve riudire il canto delle Sirene, dalla nave concava di prora azzurra, fornita di ponti, veloce, in un doloroso ritorno spinta dal vento al frangente del mare, né ci difese Odisseo dal periglio con la sua cera; ma il cuore, non più libero, novellamente anelava. II. «O Glauco», disse Berenice «ho sete. Dov'è la fonte? dove sono i frutti? Dov'è Cyane azzurra come l'aria? Dove coglierai tu con le tue mani l'arancia aurata nella cupa fronda? Come ci dissetammo! E tanto era soave il dissetarsi che desiderammo l'ardente sete. Al par di noi chi seppe distinguere il sapore d'ogni frutto e la maturità dal suo colore? distinguere d'ogni acqua la freschezza e ritrovar la sua più fredda vena? e regolar le labbra al vario bere e il sorso modular come una nota? L'imagine di me nell'acque amavi. Dell'amore di me arsi inclinata, sì bella nel ninfale specchio fui. Io fui Cyane azzurra come l'aria. Tu mi ghermisti fra natanti foglie. L'ombra divina mi trasfigurò. Un fiore subitaneo s'aperse tra i miei ginocchi. Vincolata fui da verdi intrichi, fra radici pallide come i miei piedi, con segreto gelo. Il sol divino mi trasfigurò. Anelli innumerevoli alle dita furommi i raggi, pettini ai capelli, monili al collo, e veste tutta d'oro. O Aretusa, perché non ho il tuo nome? Nascesti tu nell'isola di Ortigia come l'amor del violento fiume? La sirena scagliosa abbeveravi, già fatto il vespero, al tacer dei flauti. Diedi io le canne ai flauti dei pastori. Io fui Cyane azzurra come l'aria. L'acqua sorgiva mi resto negli occhi; la lenta correntìa mi levigò. O Glauco, ti sovvien della Sicilia bella?» Ed io più non vidi la grande Alpe, il bianco mare. Io dissi: «Andiamo, andiamo!» «Ti sovvien della bella Doriese nomata Siracusa nell'effigie d'oro co' suoi delfini e i suoi cavalli, serto del mare? Noi scoprimmo un giorno, stando su l'Acradina, la triere che recava da Ceo l'Ode novella di Bacchilide al re vittorioso. Udivasi nel vento il suon del flauto che regolava l'impeto dei remi, or sì or no s'udiva il canto roco del celeùste; ma silenziosa l'Ode, foggiata di parole eterne, più lieve che corona d'oleastro, onerava di gloria la carena. Scendemmo al porto. Ti sovvien dell'ora? Un rogo era l'Acropoli in Ortigia; ardevano le nubi sul Plemmirio belle come le statue sul fronte dei templi; parea teso dalla forza di Siracusa il grande arco marino. E noi gridammo, e un sùbito clamore corse lungo le stoe quando la nave piena d'eternità giunse all'approdo. Portatrice di gloria, ella vivea magnanima, sublime. Giù pe' trasti anelava l'anelito servile; s'intravedean su' banchi sovrapposti i remiganti ignudi unti d'oliva: la lor fatica ansava dai portelli; il giglione del remo ai raggi obliqui lucea come la scapula; un ferigno odore si spandea, quasi di belve. E non di quell'anelito servile era viva la nave, non del sangue e dell'ossa pesanti ne' suoi fianchi; ma sì vivea divinamente d'una cosa ch'ella recava d'oltremare, più lieve che corona d'oleastro: l'Ode, foggiata di parole eterne». «È vero, è vero!» io dissi. «Mi sovviene». Ed il cuore profondo mi tremò, tremò della divina poesia. «Mi sovviene. Era l'Ode trionfale: "Canta Demetra che regna i feraci campi siciliani, e la sua figlia cinta di violette! Canto, o Clio, dispensatrice della dolce fama, la corsa dei cavalli di Ierone! Nike ed Aglaia eran con essi quando trasvolavano..." E l'anima invelata di sogni andava per le lontananze dei tempi verso i gloriosi approdi piena d'eternità come la nave di Ceo. Passammo gli ellesponti, i golfi, l'isole, gli arcipelaghi, le sirti: riverimmo le foci dei paterni fiumi, pregammo i promontorii sacri, salutammo le bianche cittadelle custodite da Pallade rupestri; varcammo l'Istmo pel diolco. Quivi eroi vedemmo e Pindaro con loro. Ed obliammo l'usignuol di Ceo per l'aquila tebana. Era la tua mitica luce sul Tirreno, o madre Ellade, ed era bella come i tuoi monti la nuda Alpe di Luni, o madre Ellade, come i tuoi monti bellissima era, onde a te discesero le stirpi degli Immortali che incedeano al fianco degli Efimeri sopra il dominato dolore, e quelli e questi erano eguali, e tutti erano Ellèni ed una lingua parlavano divina, uomini e iddii. In silenzio guardammo i grandi miti come le nubi sorgere dall'Alpe ed inclinarsi verso il bianco mare. Io vidi allora Pègaso pontare su gli altissimi marmi i piè di vento e balzar nell'azzurro con aperte le immense penne, senza cavaliere; e per il petto e per il ventre vasti trasparia come fiamma palpitante la potenza del sangue gorgonèo. Ardi gridò: "Ecco il teschio d'Orfeo, che vien dall'Ebro!". Ed il solenne lido parve attendere il fato dopo il grido. La sua bellezza s'aggrandì d'orrore. Il flutto nell'insolito splendore era meravigliosamente puro. Splendea sul mondo un giorno imperituro.» III. Ma non sostenne il nostro cuor mortale quel silenzio sublime. Si piegò verso il sorriso delle donne nostre. E Derbe disse ad Aretusa: «Quando fiorì di rose il lauro trionfale?». Era la donna giovinetta alzata, mutevole onda con un viso d'oro, tra gli oleandri; ed il reciso ramo per la capellatura umida effusa, che fingevale intorno al chiaro viso l'avvolgimento dell'antica fonte, intrecciava le rose al regio alloro. Disse Aretusa: «Bene io te 'l dirò» mutevole onda con un viso d'oro. Disse: «Inseguiva il re Apollo Dafne lungh'esso il fiume, come si racconta. La figlia di Penèo correva ansante chiamando il padre suo dall'erma sponda. Correva, e ad ora ad or le snelle gambe le s'intricavan nella chioma bionda. Ben così la poledra di Tessaglia galoppa nella sua criniera falba che fino a terra la corsa le ingombra. Rapido il re Apollo più l'incalza, infiammato desìo, per lei predare. All'alito del dio doventa fiamma la chioma della ninfa fluvïale. "O padre, o padre" grida "tu mi scampa!" Chiama ella il padre suo con grida vane. "Padre, un veloce fuoco mi ghermisce!" E corre, ed ansa, e le sue gambe lisce crescon la furia del desìo predace. "O gran padre Penèo, perduta sono, ché mi si rompono i ginocchi. Salva- mi dalla brama del veloce fuoco che ora mi giunge, ecco, ecco, ora m'abbranca!" Ma il dolce sangue suo in altro suono, la sua bellezza in altro suono parla. Balzale il cuor, si piegano i ginocchi. Ed ecco ella s'arresta, chiude gli occhi e trema e dice: "Or ecco m'abbandono". Una gioia s'aggiunge al suo terrore ignota che il divin periglio affretta. Tremante e nuda dentro la chioma ode la vergine il tinnir della faretra, sente la forza del perseguitore, vede l'ardor pe' chiusi cigli e aspetta d'esser ghermita, e più non chiama il padre. Ma il dio la chiama: "Dafne, Dafne, Dafne!". Ed ella non udì voce più bella. Il dio la chiama: "Dafne, Dafne!" Ed osa ella aprir gli occhi: la rutila faccia vede da presso e la bocca bramosa mentre il dio con le due braccia l'allaccia. Rapita dalla forza luminosa gitta ella un grido che per la selvaggia sponda ultimo risuona, e l'ode il padre. Avido il dio districa la soave nudità dalla chioma che la fascia. Bianca midolla in còrtice lucente, in folti pampini uva delicata! Tenera e nuda il dio la piega, e sente ch'ella resiste come se combatta. Tenera cede il seno; ma dal ventre in giuso, quasi fosse radicata, ella sta rigida ed immota in terra. Attonito, l'amante la disserra. "Ahi lassa, Dafne, ch'arbore sei fatta!" Subitamente Dafne s'impaura: le copre il vólto e il seno un pallor verde. Ella sembra cader, ma la giuntura dei ginocchi riman dura ed inerte. S'agita invano. L'atto della fuga invan le torce il fianco. Si disperde il senso di sua vita nella terra. E l'amante deluso ancor la serra. "Ahi lassa, Dafne, chi ti trasfigura?" Ma non il suo melodioso duolo giova a trarre colei dalla sua sorte. Nell'umidore del selvaggio suolo i piedi farsi radiche contorte ella sente e da lor sorgere un tronco che le gambe su fino alle cosce include e della pelle scorza fa e dov'è il fiore di verginità un nodo inviolabile compone. "O Apollo" geme tal novo dolore "prendimi! Dov'è dunque il tuo desìo? O Febo, non sei tu figlio di Giove? Arco-d'-argento, non sei dunque un dio? Prendimi, strappami alla terra atroce che mi prende e beve il sangue mio! Tutto furente m'hai perseguitata ed or più non mi vuoi? Me sciagurata! Salva mio grembo per lo tuo desìo! Salvami, Cintio, per la tua pietà! Se i miei capelli, che m'avvinsero, ami, de' miei capelli corda all'arco fa! Prendimi, Apollo!" E tendegli le mani, che son fogliute; e il verde sale; e già le braccia sino ai cubiti son rami; e il verde e il bruno salgon per la pelle; e su per l'ombelico alle mammelle già il duro tronco arriva; e i lai son vani. "Aita, aita! Il cuore mi si serra. Vedi atra scorza che il petto m'opprime! O Apollo Febo, strappami da terra! Tanto furente, non sia più ghermire? Nuda mi prenderai su la dolce erba, su la dolce erba e su 'l mio dolce crine. Ardo di te come tu di me ardi. O Apollo, o re Apollo, perché tardi? Già tutta quanta sentomi inverdire." Il dolce crine è già novella fronda intorno al viso che si trascolora. La figlia di Penèo non è più bionda; non è più ninfa e non è lauro ancora. Sola è rossa la bocca gemebonda che del novello aroma s'insapora. Escon parole e lacrime odorate dall'ultima doglianza. O fior d'estate, prima rosa del lauro che s'infiora! Tutto è gia verde linfa, e sola è sangue la bocca che querelasi interrotta- mente. In pallide fibre il cor si sface ma il suo rossore è in sommo della bocca. Desioso dolor preme l'amante. Guarda ei l'arbore sua ma non la tocca; l'ode implorare ma non ha virtù. E chiama: "Dafne, Dafne!" Ella non più implora, non più geme. "Dafne, Dafne!" Ella non più risponde: è senza voce. Pur la gola sonora è fatta legno. Le palpebre son due tremule foglie; li occhi gocciole son d'umor silvestro; bruni margini inasprano le gote; delle tenui nari è appena il segno. Ma nell'ombra la bocca è ancora sangue, sola nel lauro la bocca di Dafne arde e al dio s'offre, virginal mistero. Curvasi Apollo verso quella ardente, la bacia con impetuosa brama. Ne freme tutta l'arbore; s'accende l'ombra intorno alla fronte sovrana; ogni ramo in corona si protende, e la fronte d'Apollo è laureata. Pean! O gloria! Ma sotto i suoi baci or più non sente che foglie vivaci, amare bacche. E Dafne Dafne chiama. "Ahi lassa, Dafne, ch'arbore sei tutta! Ahi chi ti fece al mio desìo diversa? In durissimo tronco e in fronda cupa la dolce carne tua or s'è conversa. La tua bocca vermiglia s'è distrutta, che pareva di fiamma ardere eterna. Come leggieri i piedi tuoi su l'erba, or radicati nella negra terra! M'odi tu? M'odi tu? Dafne, sei muta? Rispondi!" Abbrividiscono le frondi sino alla vetta. Nel silenzio un breve murmure spira. "M'odi tu? Rispondi!" Move la vetta un fremito più lieve. Poi tutto tace e sta. Sotto i profondi cieli le rive alto silenzio tiene. Il bellissimo lauro è senza pianto; il dolore del dio s'inalza in canto. Odono i monti e le valli serene. Odono i monti e le valli e le selve e i fonti e i fiumi e l'isole del mare. Spandesi il canto dall'anima ardente e per tutte le cose generare. La bellezza di Dafne ecco riveste la terra; le sue membra delicate son monti e valli e selve e fiumi e fonti, il suo sguardo inzaffira gli orizzonti, la sua chioma fa l'oro dell'estate. O Dafne, sempre il dio e l'uom cantando non vorranno altro onor che un ramoscello di te! Così l'Arco-d'-argento, quando ha placato il suo cuore nell'immenso inno, pago si giace sotto il sacro lauro ad attendere il suo dì novello. Cade la notte. Sul sonno divino l'arbore luce d'un baglior sanguigno, qual bronzo che si vada arroventando. Scorre la notte. Tra l'Olimpo e l'Ossa una stella tramonta e l'altra sale. Misteriosa l'arbore s'arrossa ma sul suo fuoco piovon le rugiade. Sogna il Cintio la desiata bocca di Dafne, e balza il suo cuore immortale. È l'alba, è l'alba. Il dio si desta: un grido di meraviglia irraggia tutti il lido. Brilla di rose il lauro trionfale!» IV. E così della rosa e dell'alloro parlò quell'Aretusa fiorentina, mutevole onda con un viso d'oro. la sua voce era come acqua argentina che recasse lavandula o pur menta o salvia o altra fresca erba mattutina. Tutto rigato dalla schietta vena «Sol d'oleandro voglio laurearmi» io dissi. Ed Aretusa era contenta; e recise per me altri due rami e fe' l'atto di cingermi le tempie dicendomi: «Pe' tuoi novelli carmi! Che la cerula e fulva Estate sempre abbia tu nel tuo cuore e in te le rime nascano come le sue rose scempie!» E il giorno estivo non potea morire, ma sorrideva sopra il bianco mare silenziosamente senza fine; e la notte, che avea parte ineguale, spiava il bel nemico dalle chiostre dei monti azzurra come te, Cyane. Ebri e tristi d'aver bevuto a troppe fonti e incantato il cor per tutte guise, cercammo il grembo delle donne nostre. Ma la Melancolìa venne e s'assise in mezzo a noi tra gli oleandri, muta guatando noi con le pupille fise. Ed Erigone, ch'ebbe conosciuta la taciturna amica del pensiero, chinò la fronte come chi saluta. E poi disse la Notte e il suo mistero. V. «Il Giorno» disse «non potrà morire. Il suo sangue non tinge il bianco mare. Mai la sua faccia parve tanto pura, non ebbe mai tanta soavità. Giace supino sopra il bianco mare, sorride al cielo ch'ei regnava, attende ei non sa quale morte o voluttà. Pur tanto è dolce che la Notte oscura non già lo spegne ma di lui s'accende, e lui aurato nelle braccia prende, lui cela nella sua capellatura, ma non così che quelle membra d'oro non veggansi pel fosco trasparire e illuminare la serenità. Caldi soffiano i venti al bianco mare, calde passano e lente le riviere in cuore alle terribili città, passano e vanno per ignoti piani, cingono ignoti boschi: i cervi a bere scendono ansanti nella gran caldura; lunghi bràmiti ascoltano lontani; bevono: in qualche tacita radura poi fino a morte si combatterà. O Notte, o Notte, invano tu nascondi ne' tuoi capelli il dolce tuo nemico! Non sono i tuoi capelli sì profondi che non veggasi dai nostri occhi umani fiammeggiarvi per entro il tuo piacere. La terra oppressa respiro non ha. Arde l'ombra. La vigna è come il vino: il grappolo sul tralcio si matura poi che il raggio nell'uva è prigioniere. La terra soffre nell'ebrietà. Arde come una glauca vampa l'ombra. Aduna e vita e morte il bianco mare, immensa cuna il mare, immensa tomba. A lui dal monte la sorgente va. Impallidisce sotto il pianto il coro delle Pleiadi e l'una d'elle è occulta, l'una che seppe la felicità. Orione si slaccia l'armatura, e Boote si volge, e Cinosura vacilla; e l'Orsa anche impallidirà. Oblìa la Notte tutte le sue stelle e il duolo antico degli amanti umani. Che con lei piangeremo ella non sa. O Notte, piangi tutte le tue stelle! il grido dell'allodola domani dall'amor nostro ci disgiungerà». Un'altra era con noi, ma restò muta, tra gli oleandri lungo il bianco mare. Bocca di Serchio ARDI: Glauco, Glauco, ove sei? Più non ti veggo. Ho perduto il sentiere, e il mio cavallo s'arresta. I Pini, i pini d'ogni parte mi serrano. Agrio affonda nella massa degli aghi, come nella sabbia, fino ai garetti. Ove sei, Glauco? Mi vedi? Ho le gambe che sanguinano. Folli fummo entrando nel bosco ignudi come nel mare. I rovi, le schegge, le scaglie feriscono, e i ginepri aspri. Non sanguini anche tu? Oh profumo! Sale a un tratto come una vampa. Il vino dell'Estate! N'ho bevuto una piena coppa, e un'altra ne bevo, e un'altra anche più calda, e un'altra bollente che mi brucia il cuore e fino alla gola mi sazia, fino agli occhi. O Glauco, Glauco, il vino dell'Estate misto di oro di rèsina e di miele! GLAUCO: Io ti veggo, ti veggo, Ardi. Sei bello sul tuo cavallo bianco. Tu non puoi portar clamide, come i cavalieri d'Atene, ma ti giova essere ignudo. Su, spingi Agrio! Non v'è sentiere. I fusti sono fragili come aride canne. Odi? Folo li rompe col suo petto. Dunque or teme le scaglie e i rovi il marmo delle tue gambe? È splendido il tuo sangue, Ardi. Poiché ciascuna cosa in torno le più ricche virtudi e più segrete esprime per farti ebro, non ti dolga di sanguinare come il pino stilla, come il ginepro odora. Avanti, avanti per la boscaglia che rosseggia e cede! Vedesti mai più fulva chioma e spessa? I bei sogni vi restano come api prese nella criniera d'un leone. ARDI: Preso per i capegli sono. Ah, il ramo si rompe e gli aghi piovonmi sul collo, su gli omeri, già coprono la groppa d'Agrio. Vedi? A miriadi, a miriadi! Carichi tutti i rami biforcuti. In ogni congiuntura accumulati a fasci gli aghi morti. Morta sembra tutta la selva, inaridita e cieca. Rompesi come vetro. Il verde è al sommo, invisibile, e fa prigione i raggi nell'intrico; ma l'ombra sua mi cuoce la fronte e mi dissecca la narice. Entreremo nel fiume coi cavalli! Diguazzeremo in mezzo alla corrente! E ancor lontano il Serchio? Tutta l'ombra respira aridità. L'acqua è lontana. E sento che lo zòccolo a traverso gli aghi morti non trova se non sabbia torrida. I coni vacui son neri come carboni spenti, come tizzi consunti. O Glauco, dove mi conduci? GLAUCO: Chiudi gli occhi. Odi il vento? Navigare ti sembra, veleggiar per il deserto mare. Odi il vento tra le sàrtie? Odi il gemito degli alberi allo sforzo delle vele? Si naviga per acque infide verso l'isola di Circe. Negli orciuoli d'argilla non rimane goccia di fonte. Beveremo il sale. Apri gli occhi! Ecco l'atrio della maga tutto riscintillante di prodigi. Larve di stelle adornano la reggia della donna solare, vedi?, simili a foglie macerate dagli autunni che serban lor sottili nervature con la tenuità dei bissi intesti d'aria e di lume. Fili palpitanti le congiungono, l'iride le cangia, indicibile tremito le muove. Circe incantò le stelle eccelse, e l'ebbe, e le votò di lor sostanza ignìta; e qui raduna le lor dolci larve. ARDI: Opre di ragni, arte divina, tele stellari! O Glauco, io n'ho già lacerata una col viso, e un'altra ancóra. Guarda! Per ovunque tessute son le stelle. Siam presi in una rete innumerevole. Férmati! Non distruggere l'incanto. GLAUCO: La radura è vicina. Il sole pènetra fra i rami. Tutto tremola e scintilla. La résina sul tronco è come l'ambra. Di polito metallo è il mirto chiuso. La tamerice sembra quasi azzurra tra i rossi pini. E il tuo volto s'imperla. ARDI: Oh com'è bello Folo che dall'ombra trapassa, maculato di sudore, nella banda del sole! Anche tu sànguini. Non vedesti le vipere fuggire? Qual nome hanno quei lunghi fili d'erba che portano una spiga nera in cima? GLAUCO: Il nome che le labbra ti diletta. Abbandona le rèdini sul collo d'Agrio. Ascolta il cavallo nel silenzio sbuffare. Vola la sua bava e imbianca il mentastro. Perché, Ardi, sol questo empie il mio petto di felicità? ARDI: Forse già fummo i figli della Nuvola. Già l'erba calpestammo con gli zòccoli, cogliemmo il fiore con le dita umane. Un dì, volgendo indietro il torso ignudo, con la concava scorza detergemmo dal pelo della groppa calorosa il sudore che in rivoli colava. Lo spazio immenso era la nostra ebrezza. Senz'ansia il nostro fianco infaticato vinse in numero i palpiti del vento. Tanto di terra in un sol dì varcammo quanto varcava Pègaso di cielo. GLAUCO: Rapidità, Rapidità, gioiosa vittoria sopra il triste peso, aerea febbre, sete di vento e di splendore, moltiplicato spirito nell'òssea mole, Rapidità, la prima nata dall'arco teso che si chiama Vita! Vivere noi vogliamo, Ardi, correndo: passare tutti i fiumi, discoprirli dalle fonti alle foci, lungo i lidi marini l'orma imprimere nel segno sinuoso, nell'argentina traccia che di sé lascia il flutto più recente. ARDI: Dato ci fosse correre senz'ansia l'Universo! Ma troppo il nostro petto è angusto pel respiro della nostra anima. O Glauco, a chi t'ascolta, sei come l'estro implacabile che incìta i tori. E l'orizzonte è come anello vitreo che tu spezzi per disdegno. GLAUCO: Taci, Beviamo il vino dell'Estate, sol dediti all'amore del bel fiume. Verso tutte le selve della Terra sospiro; ma, se in una solitario viver dovessi, in questa, Ardi, vorrei vivere, in questa calda selva australe, in quest'aridità d'ombre estuose. ARDI: È come un rogo pronto a conflagrare. La potenza del fuoco in lei si chiude. Soavemente mormora nell'aura, ma la sua voce vera in lei si tace. Parlerà con le lingue dell'incendio quando la nube nata dal Tirreno le scaglierà la folgore notturna. GLAUCO: Il respiro non passa per le fauci ma per tutte le membra, fino al pollice del piede scalzo; e passano gli aromi per tutti i pori. E sento respirare il mio cavallo, e sento la ferina sua allegrezza, come se nel duplice corpo fervesse l'unico mio cuore. ARDI: Ecco l'erba, ecco il verde, ecco una canna. Ecco un sentiere erboso. Guarda, al fondo, guarda i monti Pisani corrucciati sotto le vaste nuvole di nembo. GLAUCO: Ardi, non odi gracidìo di corvi là verso il mare? Scendono alla foce del Serchio a branchi, e tesa v'è la rete, dissemi il cacciatore di Vecchiano. ARDI: Il Serchio è presso? Volgiti all'indizio. Ecco la sabbia tra i ginepri rari, vergine d'orme come nei deserti. Si nasconde la foce intra i canneti? La scopriremo forse all'improvviso? Ci parrà bella? No, non t'affrettare! Lascia il cavallo al passo. È dolce l'ansia, e viene a noi dal più remoto oblìo, vien dall'antica santità dell'acque. Liberi siamo nella selva, ignudi su i corsieri pieghevoli, in attesa che il dio ci sveli una bellezza eterna. Non t'affrettare, poi che il cuore è colmo. GLAUCO: Bocche delle fiumane venerande! Lungo le pietre d'Ostia è più divino il Tevere. Soave è nei miei modi l'Arno. Il natale Aterno, imporporato di vele, splende come sangue ostile. E l'Erìdano vidi, e l'Achelòo, e il gran Delta, e le foci senza nome ove attardarsi volle invano il sogno del pellegrino. Ma che questa, o Ardi, sia la più bella mi conceda il dio; perché non mai fu tanto armonioso il mio petto, né mai tanto fu degno di rispecchiare una bellezza eterna. ARDI: Oh, mistero! La verde chiostra accoglie i vóti, qual vestibolo di tempio silvano. I pini alzan colonne d'ombra intorno al sacro stagno liminare che ha per suo letto un prato di smeraldi. Nel silenzio l'imagine del cielo si profonda: non ride né sorride, ma dal profondo intentamente guarda. GLAUCO: Odi la melodìa del Mar Tirreno? Tra le voci dei più lontani mari, nell'estrema vecchiezza, nell'orrore del gelo, il sangue mio l'imiterà. E la cerula e fulva Estate sempre io m'avrò nel mio cuore. Odi sommesso carme che ci accompagna per l'esiguo istmo sembiante al giogo d'una lira. ARDI: Tutto è divina musica e strumento docile all'infinito soffio. Guarda per la sabbia le rotte canne, guarda le radici divelte, ancor frementi di labbra curve e di leggiere dita! I musici fuggevoli con elle modulavano il carme fluviale. GLAUCO: Scendi dal tuo cavallo, Ardi. Ecco il fiume, ecco il nato dei monti. Oh meraviglia! Ei porta in bocca l'adunata sabbia fatta come la foglia dell'alloro. T'offriamo questi giovani cavalli, o Serchio, anche t'offriamo i nostri corpi ov'è chiuso il calor meridiano. ARDI: Anelammo d'amore per trovarti! Sgorgar parea che tu dovessi, o fiume, dal nostro petto come un sùbito inno. GLAUCO: Dio tu sei, dio tu sei; noi siam mortali. Ma fenderemo la tua forza pura. La più gran gioia è sempre all'altra riva. Il cervo Non odi cupi bràmiti interrotti di là del Serchio? Il cervo d'unghia nera si sèpara dal branco delle femmine e si rinselva. Dormirà fra breve nel letto verde, entro la macchia folta, soffiando dalle crespe froge il fiato violento che di mentastro odora. Le vestigia ch'ei lascia hanno la forma, sai tu?, del cor purpureo balzante. Ei di tal forma stampa il terren grasso; e la stampata zolla, ch'ei solleva con ciascun piede, lascia poi cadere. Ben questa chiama «gran sigillo» il cauto cacciatore che lèggevi per entro i segni; e mai giudizio non gli falla, oh beato che capo di gran sangue persegue al tramontare delle stelle, e l'uccide in sul nascere del sole, e vede palpitare il vasto corpo azzannato dai cani e gli alti palchi della fronte agitar l'estrema lite! Ma invano invano udiamo i cupi bràmiti noi tra le canne fluviali assisi. Tu non ti scaglierai nel Serchio a nuoto per seguitar la pesta, o Derbe; e il freddo fiume non solcherà duplice solco del tuo braccio e del tuo predace riso, fieri guizzando i muscoli nel gelo. Inermi siamo e sazii di bellezza, chini a spiare il cuor nostro ove rugge, più lontano che il bràmito del cervo, l'antico desiderio delle prede. Or lascia quello il branco e si rinselva. Forse è d'insigni lombi, e assai ramoso. Ei più non vessa col nascente corno le scorze. Già la sua corona è dura; e il suo collo s'infosca e mette barba, e fra breve sarà gonfio del molto bramire. Udremo a notte le sue lunghe muglia, udremo la voce sua di toro; sorgere il grido della sua lussuria udremo nei silenzii della Luna. L'ippocampo Vimine svelto, pieghevole Musa furtivamente fuggita del Coro lasciando l'alloro pel leandro crinale, mutevole Aretusa dal viso d'oro, offri in ristoro il tuo sal lucente al mio cavallo Folo dagli occhi d'elettro, dal ventre di veltro, ch'è solo l'eguale del sangue di Medusa ahi, ma senz'ale! Offrigli il sale, sonoro al dente, o Aretusa, nella palma dischiusa e nuda, senza spavento ché, per prendere il dono, ha labbra più leggiere delle sue gambe di vento. Appena ti lambe, come per bere! Del suo piacere ti bagna; e la tua palma appena sente, dietro le labbra, il fresco suo dente di puledro, che brucar l'erba calma può sì dolcemente e rodere il ferro difficile quando serro la rapidità focace pe' solitarii lidi io senza pace. Come per te, furace fauna dei pomarii, un bugno di miel redolente non vale simiana acerba, così per lui biada opima non vale un pugno di sale mordace. Troppo gli piace, Aretusa. Ingordo n'è come capra sima. Forse ha un ricordo marino il sangue di Folo. Egli è forse figliuolo degli Ippocampi dalla coda di squamme. Ora è fiamme e lampi, ma prima era forse argentino o cerulo o verdastro come il flutto, gagliardo come il flutto decumano. E nel vespero tardo, all'apparir dell'astro che cresce, al levar della brezza, tutto acquoso e salmastro venuto in su la proda, mansuefatto, battendo con la coda di pesce l'arena per la dolcezza, sogguardando in atto d'amore, gocciando bava, prono la schiena, mangiava piano l'aliga nella mano cava della Sirena. L'onda Nella cala tranquilla scintilla, intesto di scaglia come l'antica lorica del catafratto, il Mare. Sembra trascolorare. S'argenta? s'oscura? A un tratto come colpo dismaglia l'arme, la forza del vento l'intacca. Non dura. Nasce l'onda fiacca, sùbito s'ammorza. Il vento rinforza. Altra onda nasce, si perde, come agnello che pasce pel verde: un fiocco di spuma che balza! Ma il vento riviene, rincalza, ridonda. Altra onda s'alza, nel suo nascimento più lene che ventre virginale! Palpita, sale, si gonfia, s'incurva, s'alluma, propende. Il dorso ampio splende come cristallo; la cima leggiera s'arruffa come criniera nivea di cavallo. Il vento la scavezza. L'onda si spezza, precipita nel cavo del solco sonora; spumeggia, biancheggia, s'infiora, odora, travolge la cuora, trae l'alga e l'ulva; s'allunga, rotola, galoppa; intoppa in altra cui 'l vento diè tempra diversa; l'avversa, l'assalta, la sormonta, vi si mesce, s'accresce. Di spruzzi, di sprazzi, di fiocchi, d'iridi ferve nella risacca; par che di crisopazzi scintilli e di berilli viridi a sacca. O sua favella! Sciacqua, sciaborda, scroscia, schiocca, schianta, romba, ride, canta, accorda, discorda, tutte accoglie e fonde le dissonanze acute nelle sue volute profonde, libera e bella, numerosa e folle, possente e molle, creatura viva che gode del suo mistero fugace. E per la riva l'ode la sua sorella scalza dal passo leggero e dalle gambe lisce, Aretusa rapace che rapisce le frutta ond'ha colmo suo grembo. Subito le balza il cor, le raggia il viso d'oro. Lascia ella il lembo, s'inclina al richiamo canoro; e la selvaggia rapina, l'acerbo suo tesoro oblìa nella melode. E anch'ella si gode come l'onda, l'asciutta fura, quasi che tutta la freschezza marina a nembo entro le giunga! Musa, cantai la lode della mia Strofe Lunga. La corona di Glauco MÉLITTA: Fulge, dai maculosi leopardi vigilata, una rupe bianca e sola onde il miele silentemente cola quasi fontana pingue che s'attardi. Quivi in segreto sono i miei lavacri dove il mio corpo ignudo s'insapora e di rosarii e di pomarii odora e si colora come i marmi sacri. Io son flava, dal pollice del piede alla cervice. Inganno l'ape artefice. Porto negli occhi mie le arene lidie. Per entro i variati ori la lieve anima mia sta come un fiore semplice. Melitta è il nome della mia flavizie. L'ACERBA: Non io del grasso fiale mi nutrico. Lascio la cera e il miele nel lor bugno. Ma spicco la susina afra dal prugno semiano, e mi piace l'orichico. E il latte agresto piacemi del fico primaticcio che nérica nel giugno. Ti do due labbra fresche per un pugno di verdi fave, e il picciol cuore amico! Vieni, monta pe' rami. Eccoti il braccio. Odoro come il cedro bergamotto se tu mi strizzi un poco la cintura. Quanto soffii! Tropp'alto? Non ti piaccio? Ah, ah, mi sembri quel volpone ghiotto che disse all'uva: Tu non sei matura. NICO: I tuoi piè bianchi sono i miei trastulli nella gracile sabbia ove t'accosci, bianchi e piccoli come gli aliossi levigati dal gioco dei fanciulli. - Ahi, ahi, misera Nico, i miei piè brulli! Su la sabbia di foco i piè mi cossi. Tu ridi, costassù, tu ridi a scrosci! Ma, s'io ti giungo, vedi come frulli. - Ingrata, ingrata, con che arte il foco ti rilieva le vene in pelle in pelle e il pollice t'imporpora e il tallone! - Bada; Non aliossi pel tuo gioco ma ho in serbo per te, schiavo ribelle, una sferza di cuoio paflagone. NICARETE: Glauco di Serchio, m'odi. Io, Nicarete le canne con le lenze e gli ami sgombri che non preser già mai barbi né scombri t'appendo alla tua candida parete. E t'appendo le nasse anco, e la rete fallace con suoi sugheri e suoi piombi che non pescò già mai mulli né rombi ma qualche fuco e l'alghe consuete. Amaro e avaro è il sale. O Glauco, m'odi. Prendimi teco. Evvi una bocca, parmi, sinuosa nell'ombra de' miei bùccoli. Teco andare vorrei tra lenti biodi e coglier teco per incoronarmi l'ibisco che fiorisce a Massaciùccoli A NICARETE: Nicarete dal monte di Quiesa a Montramito i colli sono lenti come i tuoi biodi, all'aria obbedienti, fatti anch'elli d'un oro che non pesa. E quella lor soavità, sospesa tra i chiari cieli e l'acque trasparenti, tu non la vedi quasi ma la senti come una gioia che non si palesa. Sorge, splendore del silenzio, il disco lunare. O Nicarete, ecco, e s'adempie mentre nel lago la ninfea si chiude. Prima è rosato come il fior d'ibisco che t'inghirlanda le tue dolci tempie ma dopo assempra le tue spalle ignude. GORGO: Ospite sempre memore, io son Gorgo e l'odor delle Cicladi vien meco. Tutte l'uve e le spezie, ecco, ti reco in questo lino aereo d'Amorgo. Glauco, e ti reco il vin di Chio nell'otro, quel che bevesti un dì sul tuo fasèlo, quel che in argilla si facea di gelo pendula a soffio di ponente o d'ostro. E una corona d'ellera e di gàttice ti reco, per un'ode che mi piacque di te, che canta l'isola di Progne. Io voglio, nuda nell'odor del màstice, danzar per te sul limite dell'acque l'ode fiumale al suon delle sampogne. A GORGO: Gorgo, più nuda sei nel lin seguace. La tua veste ti segue e non ti chiude. Fra l'ombelico e il depilato pube il ventre appare quasi onda che nasce. Ombra non è su le tue membra caste: dall'ìnguine all'ascella albeggi immune. Polita come il ciòttolo del fiume sei, snella come l'ode che ti piacque. Danzami la tua molle danza ionia mentre che l'Apuana Alpe s'inostra e il Mar Tirreno palpita e corusca. L'Ellade sta fra Luni e Populonia! E il cor mi gode come se tu m'offra il vin tuo greco in una tazza etrusca. L'AULETRIDE: Io rinvenni la pelle dell'incauto Frigio nomato Marsia appesa a un pino, sul suol roggio il coltello del divino castigatore e, presso, il doppio flauto. Questo raccolsi trepidando, o Glauco. E, immemore del flebile destino, io son osa talor nel mio giardino chiuso carmi dedurre sotto il lauro. Rivolgomi sovente e guardo s'Egli non apparisca a un tratto, l'Immortale. Ma non mi trema il mio labbro fasciato. Vivon nell'orror sacro i miei capegli ma per l'angustia del mio petto sale il superbo di Marsia antico afflato. BACCHA: Ah, chi mi chiama? Ah, chi m'afferra? Un tirso io sono, un tirso crinito di fronda, squassato da una forza furibonda. Mi scapiglio, mi scalzo, mi discingo. Trascinami alla nube o nell'abisso! Sii tu dio, sii tu mostro, eccomi pronta. Centauro, son la tua cavalla bionda. Fammi pregna di te. Schiumo, nitrisco. Tritone, son la tua femmina azzurra: salsa com'alga è la mia lingua; entrambe le gambe squamma sonora mi serra. Chi mi chiama? La bùccina notturna? il nitrito del Tessalo? il tonante Pan? Son nuda. Ardo, gelo. Ah, chi m'afferra? Stabat nuda aestas Primamente intravidi il suo piè stretto scorrere su per gli aghi arsi dei pini ove estuava l'aere con grande tremito, quasi bianca vampa effusa. Le cicale si tacquero. Più rochi si fecero i ruscelli. Copiosa la résina gemette giù pe' fusti. Riconobbi il colùbro dal sentore. Nel bosco degli ulivi la raggiunsi. Scorse l'ombre cerulee dei rami su la schiena falcata, e i capei fulvi nell'argento pallàdio trasvolare senza suono. Più lungi, nella stoppia, l'allodola balzò dal solco raso, la chiamò, la chiamò per nome in cielo. Allora anch'io per nome la chiamai. Tra i leandri la vidi che si volse. Come in bronzea messe nel falasco entrò, che richiudeasi strepitoso. Più lungi, verso il lido, tra la paglia marina il piede le si torse in fallo. Distesa cadde tra le sabbie e l'acque. Il ponente schiumò ne' suoi capegli. Immensa apparve, immensa nudità. Ditirambo III O grande Estate, delizia grande tra l'alpe e il mare, tra così candidi marmi ed acque così soavi nuda le aeree membra che riga il tuo sangue d'oro odorate di aliga di résina e di alloro, laudata sii, o voluttà grande nel cielo nella terra e nel mare e nei fianchi del fauno, o Estate, e nel mio cantare, laudata sii tu che colmasti de' tuoi più ricchi doni il nostro giorno e prolunghi su gli oleandri la luce del tramonto a miracol mostrare! Ardevi col tuo piede le silenti erbe marine, struggevi col tuo respiro le piogge pellegrine, tra così candidi marmi ed acque così soavi alzata; e grande eri, e pur delle più tenui vite gioiva la tua gioia, e tutto vedeva la tua pupilla grande: le frondi delle selve e i fusti delle navi, e la ragia colare, maturarsi nelle pine le chiuse mandorlette e la scaglia che le sigilla pender nel fulvo, e l'orme degli uccelli nell'argilla dei fiumi, l'ombre dei voli su le sabbie saline vedea, le sabbie rigarsi come i palati cavi, al vento e all'onda farsi dolci come l'inguine e il pube amorosamente, imitar l'opre dell'api, disporsi a mo' dei favi in alveoli senza miele, e l'osso della seppia tra le brune carrube biancheggiar sul lido, tra le meduse morte brillar la lisca nitida, la valva tra il sughero ed il vimine variar la sua iri, pallida di desiri la nube languir di rupe in rupe lungh'essi gli aspri capi qual molle donna che si giaccia co' suoi schiavi, scorrere la gómena nella rossa cùbia, sorgere la negossa viva di palpitanti pinne, curvarsi al peso vivo la pertica, la possa dei muscoli, gonfiarsi nelle braccia vellute, una man rude tendere la scotta, al garrir della vela forte piegarsi il bordo, come la gota del nuotatore, la scìa mutar colore, tutto il Tirreno in fiore tremolar come alti paschi al fiato di ponente. O Estate, Estate ardente, quanto t'amammo noi per t'assomigliare, per gioir teco nel cielo nella terra e nel mare, per teco ardere di gioia su la faccia del mondo, selvaggia Estate dal respiro profondo, figlia di Pan diletta, amor del titan Sole, armoniosa, melodiosa, che accordi il curvo golfo sonoro come la citareda accorda la sua cetra, dolore di Demetra che di te si duole ne' solstizii sereni per Proserpina sua perduta primavera! O fulva fiera, o infiammata leonessa dell'Etra, grande Estate selvaggia, libidinosa, vertiginosa, tu che affochi le reni, che incrudisci la sete, che infurii gli estri, Musa, Gorgóne, tu che sciogli le zone, che succingi le vesti, che sfreni le danze, Grazia, Baccante, tu ch'esprimi gli aromi, tu che afforzi i veleni, tu che aguzzi le spine, Esperide, Erine, deità diversa, innumerevole gioco dei vènti dei flutti e delle sabbie, bella nelle tue rabbie silenziose, acre ne' tuoi torpori, o tutta bella ed acre in mille nomi, fatta per me dei sogni che dalla febbre del mondo trae Pan quando su le canne sacre delira (delira il sogno umano), divina nella schiuma del mare e dei cavalli, nel sudor dei piaceri, nel pianto aulente delle selve assetate, o Estate, Estate, io ti dirò divina in mille nomi, in mille laudi ti loderò se m'esaudi, se soffri che un mortal ti domi, che in carne io ti veda, ch'io mortal ti goda sul letto dell'immensa piaggia tra l'alpe e il mare, nuda le fervide membra che riga il suo sangue d'oro odorate di aliga di résina e di alloro! Versilia Non temere, o uomo dagli occhi glauchi! Erompo dalla corteccia fragile io ninfa boschereccia Versilia, perché tu mi tocchi. Tu mondi la persica dolce e della sua polpa ti godi. Passò per le scaglie e pe' nodi l'odore che il cuore ti molce. Mi giunse alle nari; e la mia lingua come tenera foglia, bagnata di sùbita voglia, contra i denti forti languìa. Sapevi tu tanto sagaci nari, o uomo, in legno sì grezzo? Inconsapevole eri, e del rezzo gioivi e de' frutti spiccaci e dell'ombre cui fànnoti gli aghi del pino, seguendo il piacere de' vènti, su gli occhi leggiere come ombre di voli su laghi. Io ti spiava dal mio fusto scaglioso; ma tu non sentivi, o uomo, battere i miei vivi cigli presso il tuo collo adusto. Talora la scaglia del pino è come una palpebra rude che subitamente si schiude, nell'ombra, a uno sguardo divino. Io sono divina; e tu forse mi piaci. Non piacquemi l'irto Satiro sul letto di mirto, e il panisco in van mi rincorse. Ma tu forse mi piaci. Aulisce d'acqua marina la tua pelle che il Sol feceti fosca. Snelle hai gambe come bronzo lisce. Offrimi il canestro di giunco ricolmo di persiche bionde! Poiché non mi giovano monde, riponi il tuo coltello adunco. Io so come si morda il pomo senza perdere stilla di suco. Poi co' miei labbri umidi induco il miele nel cuore dell'uomo. Riponi il ferro acre che attosca ogni sapore. Tu non pregi i tuoi frutti. I peschi, i ciriegi, i peri, i fichi in terra tosca son di dolcezza carchi, e i meli, gli albricocchi, i nespoli ancora! E tu li spogli in su l'aurora velati dei notturni geli. Da tempo in cuor mio non è gaudio di tal copia. Ahimè, sono scarsi i doni. E tu vedi curvarsi i rami del susino claudio! Ma io non ho se non la terra pigna dal suggellato seme. E a romper la scaglia che il preme non giovami pur una pietra. O uomo occhicèrulo, m'odi! Lascia che alfine io mi satolli di queste tue persiche molli che hai nel cesto intesto di biodi. Ti priego! La pigna malvagia mi vale sol per iscagliarla contro la ghiandaia che ciarla rauca. Non s'inghiotte la ragia. Ma se le mastichi negli ozii, quantunque ha sapore amarogno, allor che il tuo cuore nel sogno si bea lungi ai vili negozii, certo ti piace, o uomo; ed io te ne darò della più ricca. Tu la persica che si spicca, e ne cola il suco giulìo, dammi, ch'io mi muoio di voglia e da tempo non ebbi a provarne. Non temere! Io sono di carne, se ben fresca come una foglia. Toccami. Non vello, non ugne ricurve han le tue mani come quelle ch'io so. Guarda: ho le chiome violette come le prugne. Guarda: ho i denti eguali, più bianchi che appena sbucciati pinocchi. Non temere, o uomo dagli occhi glauchi! Rido, se tu m'abbranchi. Abbrancami come il bicorne villoso. La frasca ci copra, i mirti sien letto, di sopra ci pendano l'albe viorne. Ma come, Occhiazzurro, sei cauto! Forse amico sei di Diana? Ora scende da Pietrapana il lesto Settembre col flauto, se cruenta nel corniolo rosseggi la cornia afra e lazza. Odo tra il gridìo della gazza il richiamo del cavriuolo. Sei tu cacciatore? Sei destro ad arco, esperto a cerbottana? Ora scende da Pietrapana Settembre. Tu dammi il canestro. Eh, veduto n'ho del pél baio verso il Serchio correre il bosco! Tu dammi il canestro. Conosco la pesta se ben non abbaio. Accomanda il nervo alla cocca. Ne avrai della preda, s'io t'amo! Imito qualunque richiamo con un filo d'erba alla bocca. La morte del cervo Quasi era vespro. Atteso avea soverchio alla posta del cervo, quatto quatto fra le canne; e vinceami l'uggia. A un tratto vidi l'uom che natava in mezzo al Serchio. Un uomo egli era, e pur sentii la pelle aggricciarmisi come a odor ferigno. Di capegli e di barba era rossigno come saggina, folte avea le ascelle; ma pél diverso da quel delle gote sotto il ventre parea che gli cominciasse, bestial pelo, e che le parti basse fossero enormi, cosce gambe piote, come di mostro, tanto era il volume dell'acqua che movea il natatore se ben tenesse ambe le braccia fuore con tutto il busto eretto in su le spume. Un uomo era. A una frotta d'anitroccoli sbigottita egli rise. Intesi il croscio. Repente si gittò su per lo scroscio della ripa, saltò su quattro zoccoli! Lo conobbi tremando a foglia a foglia. Ben era il generato dalla Nube acro e bimembre, uom fin quasi al pube, stallone il resto dalla grossa coglia. Il Centauro! Di manto sagginato era, ma nella groppa rabicano e nella coda, di due piè balzàno, l'equine schiene e le virili arcato. Ritondo il capo avea, tutto di ricci folto come la vite di racimoli; e l'inclinava a mordicare i cimoli dei ramicelli, i teneri viticci con la gran bocca usa alla vettovaglia sanguinolenta, a tritar gli ossi, a bere d'un fiato il vin fumoso nel cratère ampio, sopra le mense di Tessaglia. Levava il braccio umano, dal bicipite guizzante, a côrre il ramicel d'un pioppo. Repente trasaltò, di gran galoppo sparì per mezzo agli arbori precipite. Il cor m'urtava il petto, in ogni nervo io tremando. Ma, nella mia latèbra umida verde, l'anima erami ebra d'antiche forze. E udii bramire il cervo! L'udii bramir di furia e di dolore come s'ei fosse lacero da zanne leonine. Balzai di tra le canne, vincendo a un tratto il corporale orrore, agile divenuto come un veltro pe' gineprai, per gli sterpeti rossi, con silenzio veloce, quasi fossi in sogno, quasi avessi i piè di feltro. O Derbe, la potenza che desidero è nei metalli che il gran fuoco ha vinto. Eternato nel bronzo di Corinto ti darò quel che i lucidi occhi videro? Il Centauro afferrato avea pei palchi delle corna il gran cervo nella zuffa, come l'uom pe' capei di retro acciuffa il nemico e lo trae, finché lo calchi a terra per dirompergli la schiena e la cervice sotto il suo tallone, o come nella foia lo stallone la sua giumenta assal per farla piena. Erto alla presa della cornea chioma, con le due zampe attanagliava il dorso cervino, superandolo del torso, premendolo con tutta la sua soma. Furente il cervo si divincolava sotto, gli occhi riverso, il bruno collo gonfio d'ira e di mugghio, in ogni crollo crudo spargendo al suol fiocchi di bava. Era del più vetusto sangue regio, di quelli che ammansiva il suon del sufolo, vasto e robusto il corpo come bufolo, di vénti punte in ogni stanga egregio. Quanti rivali, oh lune di Settembre, cacciati avea da' freschi suoi ricoveri e infissi nella scorza delle roveri, pria d'abbattersi al Tassalo bimembre! Si scrollò, si squassò, si svincolò. E le muglia sonavan d'ogni intorno. In pugno al mostro un ramo del suo corno lasciando, corse un tratto; e si voltò. Si voltò per combattere, le vampe delle froge soffiando e le vendette. Il Tassalo gittò la scheggia; e stette guardingo, fermo su le quattro zampe. Un fil di sangue gli colava giù pel viril petto, giù per il pelame cavallino il sudore. Come rame gli brillava la groppa or meno or più al sole obliquo che ferìa lontano pe' tronchi, variato dalle frondi. S'era fatto silenzio nei profondi boschi. Il soffio s'udìa ferino e umano. Gli aghi dei pini ardere come bragia parean sul campo del combattimento. E l'aspro lezzo bestial nel vento si mesceva all'odore della ragia. Pontata a terra la sua forza avversa, il cervo, come fa nel cozzo il tauro, bassò l'arme. La coda del Centauro tre volte battè l'aria come fersa. Una rapidità fulva e ramosa si scagliò con un bràmito di morte. O Derbe, ancor ne freme per la sorte del petto umano l'anima ansiosa. Credetti udire il gemito dell'uomo su l'impennarsi del caval selvaggio. Ma il Tessalo con inuman coraggio il cervo avea pur quella volta dómo! Preso l'avea di fronte, alle radici delle corna, e gli avea riverso il muso. Entrambi inalberati, l'un confuso con l'altro in un viluppo, i due nemici, tra luci ed ombre, sotto il muto cielo saettato da sprazzi porporini, lottavano; e su i due corpi ferini, se le zampe le punte il fitto pelo il crino irsuto il prepotente sesso, io vedea con angoscia il capo alzarsi di mia specie, agitare i ricci sparsi quel vento d'ira sul mio capo istesso. E, gonfio il cor fraterno, d'un antico rimorso, tesi l'arco dell'agguato. Ma l'uom co' pugni avea divaricato e divelto le corna del nemico. Udii lo schianto stridulo dell'osso infranto, aperto sino alla mascella. Fumide giù dal cranio le cervella sgorgarono commiste al sangue rosso. L'erto corpo piombò nel gran riposo con urto sordo; sanguinò silente; senza palpito stette; del cocente flutto bagnò l'arsiccio suol pinoso. Rise il Centauro come a quella frotta lieve natante giù pel verde Serchio. Poi levò, grande nel silvano cerchio, il duplice trofeo della sua lotta. Fiutò il vento. Ma prima di partirsi colse tre rami carichi di pine; e due n'avvolse attorno alle cervine corna, e sì n'ebbe due notturni tirsi. Del terzo incurvo fece un serto sacro e se ne inghirlandò le tempie umane ove le vene, enfiate dall'immane sforzo, ancor cupe ardeangli di sangue acro. Precinto, armato dei due tirsi foschi, sollevò la gran bocca a respirare verso il Cielo. S'udìa remoto il Mare seguir col rombo il murmure dei boschi. Sola una Nube era nell'alte zone dell'Etere qual dea scinta che dorma. Venerava il Nubìgena la forma cui fecondò l'audacia d'Issione. Bellissimo m'apparve. In ogni muscolo gli fremeva una vita inimitabile. repente s'impennò. Sparve Ombra labile verso il Mito nell'ombre del crepuscolo. L'asfodelo GLAUCO: O Derbe, approda un fiore d'asfodelo! Chi mai lo colse e chi l'offerse al mare? Vagò sul flutto come un fior salino. O Derbe, quanti fiori fioriranno che non vedremo, su pe' fulvi monti! Quanti lungh'essi i curvi fiumi rochi! Quanti per mille incognite contrade che pur hanno lor nomi come i fiori, selvaggi nomi ed aspri e freschi e molli onde il cuore dell'esule s'appena poi che il suon noto per rendergli odore come foglia di salvia a chi la morde! DERBE: Io so dove fiorisce l'asfodelo. Là nel chiaro Mugello, presso il Giogo di Scarperia, lo vidi fiorir bianco. Anche lo vidi, o Glauco, anche lo colsi in quell'Alpe che ha nome Catenaia e all'Uccellina presso l'Alberese nella Maremma pallida ove forse ei sorride all'imagine dell'Ade morendo sotto l'unghia dei cavalli. GLAUCO: O Derbe, anch'io errando su i vestigi della donna letèa, vidi fiorire tra Populonia e l'Argentaro il fiore della viorna. Tutto le sorelle bianche il bosco aspro nelle delicate braccia tenean tacendo, e i negri lecci e i sóveri nocchiuti al sol di giugno dormivan come venerandi eroi entro veli di spose giovinette. DERBE: In Populonia ricca di sambuchi io conobbi il marrubbio che rapisce l'odor muschiato al serpe maculoso e l'ebbio che colora il vin novello di sue bacche e lo scirpo che riveste il gonfio vetro dove il vin matura. GLAUCO: La madreselva come la viorna intenerire del suo fiato i tronchi vidi a Tereglio lungo la Fegana, e il giunco aggentilir la Marinella di Luni, e su pe' monti della Verna l'avornio tesser ghirlandette al maggio. DERBE: I gigli rossi e crocei ne' monti, alla Frattetta sotto il Sangro, io vidi; anche alla Cisa in Lunigiana, e all'Alpe di Mommio dove udii nel ciel remoto gridar l'aquila. Spiriti immortali pareano i gigli nell'eterna chiostra. La bellezza dei luoghi era sì cruda che come spada mi fendeva il petto. Con un giglio toccai la grande rupe, che non s'aperse e non tremò. Mi parve tuttavia che un prodigio si compiesse, o Glauco, e andando mi sentii divino. GLAUCO: Nella Bocca del Serchio, ove la piana sabbia vergano oscuramente l'orme dei corvi come segni di sibille, il narcisso marino io colsi, mentre l'ostro premea le salse tamerici, i cipressetti dell'amaro sale. Lo smìlace conobbi attico; e al Gombo anche conobbi il giglio ch'è nomato pancrazio, nome caro ai greci efèbi; e tanto parve ai miei pensieri ardente di purità, che ai Mani dell'Orfeo cerulo io lo sacrai, al Cuor dei cuori. DERBE: O Glauco, noi facemmo della Terra la nostra donna ed ogni più segreta grazia n'avemmo per virtù d'amore. Come il Sole entri nella Libra eguale, ti condurrò sui monti della Pieve di Camaiore, e alla Tambura, e ai fonti del Frigido, e lungh'essa la Freddana dietro Forci, e nell'Alpe di Soraggio, ché tu veda fiorir la genzïana. GLAUCO: Bella è la Terra o Derbe, e molto a noi cara. Ma quanti fiori fioriranno che non vedremo, nelle salse valli! Le Oceanine ornavan di ghirlande i lembi della tunica a Demetra piangente per il colchico apparito. Com'entri nello Scòrpio il Sole, o Derbe, ti condurrò su i pascoli del Giovo in mezzo ai greggi delle pingui nubi, perché tu veda il colchico fiorire. Madrigali dell'estate IMPLORAZIONE Estate, Estate mia, non declinare! Fa che prima nel petto il cor mi scoppi come pomo granato a troppo ardore. Estate, Estate, indugia a maturare i grappoli dei tralci su per gli oppi. Fa che il colchico dia più tardo il fiore. Forte comprimi sul tuo sen rubesto il fin Settembre, che non sia sì lesto. Sòffoca, Estate, fra le tue mammelle il fabro di canestre e di tinelle. LA SABBIA DEL TEMPO Come scorrea la calda sabbia lieve per entro il cavo della mano in ozio il cor sentì che il giorno era più breve. E un'ansia repentina il cor m'assale per l'appressar dell'umido equinozio che offusca l'oro delle piagge salse. Alla sabbia del Tempo urna la mano era, clessidra il cor mio palpitante, l'ombra crescente di ogni stelo vano quasi ombra d'ago in tacito quadrante. L'ORMA Sol calando, lungh'essa la marina giunsi alla pigra foce del Motrone e mi scalzai per trapassare a guado. Da stuol migrante un suono di chiarina venìa per l'aria, e il mar tenea bordone. Nitrì di fra lo sparto un caval brado. Ristetti. Strana era nel limo un'orma. Però dall'alpe già scendeva l'ombra. ALL'ALBA All'alba ritrovai l'orma sul posto, selvatica qual pesta di cerbiatto; ma v'era il segno delle cinque dita. Era il pollice alquanto più discosto dall'altre dita e il mignolo ritratto come ugnello di gàzzera marina. La foce ingombra di tritume negro odorava di sale e di ginepro. Seguitai l'orma esigua, come bracco che tracci e fiuti il baio capriuolo. Giunsi al canneto e mi scontrai col riccio. Livido si fuggì per folto il biacco. Si levarono due tre quattro a volo migliarini già tinti di gialliccio. Vidi un che bianco; e un velo era dell'alba. Per guatar l'alba dismarrii la traccia. A MEZZODÌ A mezzodì scopersi tra le canne del Motrone argiglioso l'aspra ninfa nericiglia, sorella di Siringa. L'ebbi su' miei ginocchi di silvano; e nella sua saliva amarulenta assaporai l'orìgano e la menta. Per entro al rombo della nostra ardenza udimmo crepitar sopra le canne pioggia d'agosto calda come sangue. Fremere udimmo nelle arsicce crete le mille bocche della nostra sete. IN SUL VESPERO In sul vespero, scendo alla radura. Prendo col laccio la puledra brada che ancor tra i denti ha schiuma di pastura. Tanaglio il dorso nudo, alle difese; e per le ascelle afferro la naiàda, la sollevo, la pianto sul garrese. Schizzan di sotto all'ugne nel galoppo gli aghi i rami le pigne le cortecce. Di là dai fossi, ecco il triforme groppo su per le vampe delle fulve secce! L'INCANTO CIRCEO Tra i due porti, tra l'uno e l'altro faro, bonaccia senza vele e senza nubi dolce venata come le tue tempie. Assai lungi, di là dall'Argentaro, assai lungi le rupi e le paludi di Circe, dell'iddìa dalle molt'erbe. E c'incantò con una stilla d'erbe tutto il Tirreno, come un suo lebete! IL VENTO SCRIVE Su la docile sabbia il vento scrive con le penne dell'ala; e in sua favella parlano i segni per le bianche rive. Ma, quando il sol declina, d'ogni nota ombra lene si crea, d'ogni ondicella, quasi di ciglia su soave gota. E par che nell'immenso arido viso della pioggia s'immilli il tuo sorriso. LE LAMPADE MARINE Lucono le meduse come stanche lampade sul cammin della Sirena sparso d'ulve e di pallide radici. Bonaccia spira su le rive bianche ove il nascente plenilunio appena segna l'ombra alle amare tamerici. Sugger di labbra fievole fa l'acqua ch'empie l'orma del piè tuo delicata. NELLA BELLETTA Nella belletta i giunchi hanno l'odore delle persiche mézze e delle rose passe, del miele guasto e della morte. Or tutta la palude è come un fiore lutulento che il sol d'agosto cuoce, con non so che dolcigna afa di morte. Ammutisce la rana, se m'appresso. Le bolle d'aria salgono in silenzio. L'UVA GRECA Or laggiù, nelle vigne dell'Acaia, l'uva simile ai ricci di Giacinto si cuoce; e già comincia a esser vaia. Si cuoce al sole, e detta è passolina, anche laggiù su l'istmo, anche a Corinto, e nella bianca di colombe Egina. In Onchesto il mio grappolo era azzurro come forca di rondine che vola. All'ombra della tomba di Nettuno l'assaporai, guardando l'Elicona. Feria d'agosto Espero sgorga, e tremola sul lento vapor che fuma dalla Val di Magra. Un vertice laggiù, nel cielo spento ultimo flagra. Emulo della stella e della vetta, arde il Faro nell'isola di Tino. Dóppiano il Capo Corvo una goletta e un brigantino. Or sì or no la ragia con la cuora si mescola nel vento diforàno. Dell'agrore salmastro s'insapora l'odor silvano. Àlbica il mar, di cristalline strisce varia, su i liti ansare odesi appena. Ed ecco, il promontorio s'addolcisce come l'arena. Ogni cosa più gran dolcezza impetra. Tutto avvolve l'immensa pace urania. Fin, nell'aere tenue, si spetra la cruda Pania. O fanciullo, inghirlanda l'architrave; salda la cera ai tuoi calami arguti; rinfondi nella lampada il soave olio di Buti. Fa grido e aduna i tuoi compagni auleti, che rechino le fìstole sonore composte con le canne dei canneti di Camaiore. Sette di pino belle faci olenti e sette di ginepro irsuto appresta, a rischiarare gli ospiti vegnenti per la foresta. Fresche delizie avranno elli da scerre bene accordate su la stoia monda: l'uva sugosa delle Cinque Terre e nera e bionda, l'uva con i suoi pampani e i suoi tralci, le pèsche e i fichi su la chiara stoia, e le ulive dolcissime di Calci in salamoia. Infra l'ombrìna e il dèntice la triglia grassa di scoglio veggan rosseggiare, e il vino di Vernazza e di Corniglia nelle inguistare. Anche avremo di miele e di friscello la focaccia che fu grata a Priapo, e ghirlanda di cùnzia e d'alberello per ogni capo. O fanciulli, e per voi saremo lauti. Io farò sì che ognun di voi ricordi la mia feria d'agosto, ma se i flauti non sien discordi. Accendete le faci, e andiam nel bosco a rischiarare l'ospite che viene. Odo tinnire un riso ch'io conosco, ch'io mi so bene. È di quella che fùstiga i miei spirti, d'una che acerba ride e dolce parla. Accendete le faci e andiam tra i mirti ad incontrarla. Non vi stupite già che la crocòta sia guisa d'oggidì tra Serchio e Magra. Quest'ospite è d'origine beota, vien di Tanagra. Ma ben la grazia onde succinge il giallo bisso e i sandali scopre è maraviglia (porta anelli d'elettro e di cristallo alla caviglia) mentre il suo capo sottilmente ordito piega, ove ferma un lungo ago l'intreccio, fulvo come i ginepri che sul lito morde il libeccio. Rugge e odora il ginepro nella teda. Or configgete in terra acceso il fusto. Flauti silvestri, e il nume vi conceda il tono giusto. Fanciulli, attenti! Fate un bel concerto. Pan vi guardi da nota roca o agra. Quest'ospite che v'ode ha orecchio esperto; vien di Tanagra. (Data di composizione sconosciuta) Il policefalo Spezzate i flauti. Il lino che connette le canne è quel medesmo degli astuti lacci, e la cera troppo sa di miele. Il suono puerile è breve oblìo pel cor prestante che non ama il gioco facile né cattare il sonno lieve. Né tu sei cittadino d'Agrigento nomato Mida, vincitore in Delfo. Né t'insegnò la Cèsia il grande carme. Pallade Atena dai fermi occhi chiari prima inventò tal melodìa, nel giorno in cui Medusa tronca fu dall'arpe. Udì le grida e i pianti ch'Euriàle mettea tra il sibilare dei serpenti verso la strage; udì l'orrendo ploro. I gemiti di Steno come dardi fendeano l'etra, e tutti gli angui eretti minacciavan l'eroe nato dall'oro. Così la Melodìa di Mille Teste nacque in giorno sanguigno; e la raccolse Pallade Atena e modulò per l'uomo. Le canne dei canneti d'Orcomèno ella guarnì con làmine di bronzo e sì ne fece più possente il tuono. Spezzate i flauti esigui, auleti imberbi, poi che non han potenza al grande carme. Cercatemi nel mare i nicchi intorti. V'insegnerò davanti alle tempeste dedurre dalle bùccine profonde la melodìa delle mie mille sorti. Il tritone Il Tritone squammoso mi fu mastro. S'accoscia su la sabbia ove la schiuma bulica; e al sole la sua squamma fuma. Giùngogli ov'è tra il pesce e il dio l'incastro. Ha il gran torace azzurro come il glastro ma l'argento sul dorso gli s'alluma. Sceglie tra l'alghe la più verde, e ruma; e gli cola il rigurgito salmastro. Con la vasta sua man palmata afferra la sua conca, v'insuffla ogni sua possa, gonfio il collo le gote gli occhi istrambi. Va il rimbombo pel mare e per la terra. L'Alpe di Luni cròllasi percossa. Bàlzano nel mio petto i ditirambi. L'arca romana Alpe di Luni, e dove son le statue? I miei spirti desìan perpetuarsi oggi sul cielo in grandi simulacri. O antichi marmi in grandi orti romani! Stan per logge e scalèe di balaustri, con le lor verdi tuniche di muschi. Negreggiano i cipressi i lecci i bussi intorno alla fontana ove il Silenzio col dito su le labbra è chino a specchio. Vede apparire dal profondo il teschio dell'eterna Medusa, la Gorgóne vede sé fiso nel divino orrore. Lamenta i fati il grido del paone. Tutto è immobilità di pietra, vita che fu, memoria grave, ombra infinita. Un sarcofago eleggo, ov'è scolpita in tre facce una pugna d'Alessandro; pieno è di terra, e porta un oleandro. Quivi masticherò la foglia amara del mio lauro, seduto su quell'arca. Quivi disfoglierò la rosa vana dell'amor mio, seduto su quell'arca. L'alloro oceanico Oleandro d'Apollo, ambiguo arbusto che d'ambra aulisci nell'ardente sera; melagrano, e il tuo rosso balausto quasi fiammella in calice di cera; nautico pino, e il tuo scoglioso fusto e i coni entro la chioma tua leggera; olivo intorto da dolor vetusto, e l'oliva tua dolce che s'annera; ginepro irsuto, mirto caloroso, lentisco, terebinto, caprifoglio, cento corone dell'Estate ausonia; ma te, sargasso, re del Marerboso, vasto alloro del gorgo, anche te voglio, che bacche fai come la fronda aonia. Il Prigioniero Ardi, sei triste come il Prigioniero ignudo che il titano Buonarroto cavò da quel che or splende àvio e rimoto Sagro, per il pontefice guerriero. Constretto anche tu sei del tuo mistero, vittima consacrata al Mare Ignoto; e la bocca tua bella grida a vòto contra il fato che tolseti l'impero. Tiranno fosti in Gela, trionfale nell'ode pitia re? Traesti schiavi da Tespe uomini e marmi alla tua Tebe? O sul cavallo bianco eri a Micale, presso il padre di Pericle, e pugnavi con l'altra gioventù nel nome d'Ebe? La vittoria navale Se quella ch'arma di sue grandi penne la prua della trière samotrace venir dee verso me che senza pace persèvero lo sforzo mio ventenne, non altrove ma fra le vive antenne di questa selva nata dal focace lito, in vista dell'Alpe che si tace gloriosa di suo candor perenne, l'attenderò dicendo: «Ben mi vieni dalla piaggia che i Càbiri nutrica, dall'isola che sta di contro all'Ebro. Io son l'ultimo figlio degli Elleni: m'abbeverai alla mammella antica; ma d'un igneo dèmone son ebro». Il peplo rupestre Mutila dea, tronca le braccia e il collo, la cima dell'Altissimo t'è ligia. È tua la rupe onde alla notte stigia discese il bianco aruspice d'Apollo. La cruda rupe che non dà mai crollo, o Nike, il tuo ventoso peplo effigia! La violenza delle tue vestigia eternalmente anima il sasso brollo. Quando sul mar di Luni arde la pompa del vespro e la Ceràgiola è cruenta sotto il monte maggior che la soggióga, sembra che dispetrata a volo irrompa tu negli ardori e sul mio capo io senta crosciar la gioia dell'immensa foga. Il vulture del sole S'io pensi o sogni, se tal volta io veda quasi vampa tremar l'aria salina, se nel silenzio oda piombar la pina sorda, strider la ragia nella teda, sonar sul loto la palustre auleda, istrepire il falasco e la saggina, subitamente del mio cor rapina tu fai, di me che palpito fai preda, o Gloria, o Gloria, vulture del Sole, che su me ti precipiti e m'artigli sin nel focace lito ove m'ascondo! Levo la faccia, mentre il cor mi duole, e pel rossore de' miei chiusi cigli veggo del sangue mio splendere il mondo. L'ala sul mare Ardi, un'ala sul mare è solitaria. Ondeggia come pallido rottame. E le sue penne, senza più legame, sparse tremano ad ogni soffio d'aria. Ardi, veggo la cera! È l'ala icaria, quella che il fabro della vacca infame foggiò quando fu servo nel reame del re gnòssio per l'opera nefaria. Chi la raccoglierà? Chi con più forte lega saprà rigiugnere le penne sparse per ritentare il folle volo? Oh del figlio di Dedalo alta sorte! Lungi dal medio limite si tenne il prode, e ruinò nei gorghi solo. Altius egit iter L'ombra d'Icaro ancor pe' caldi seni del Mar Mediterraneo si spazia. Segue di nave solco che più ferva. Ogni rapidità di vènti agguaglia. Voce d'uom che comandi ama nel turbine. Ode clamor di nàufraghi iterato e n'ha disdegno, ché silenzioso fu quel rimoto suo precipitare. Io la vidi laggiù, verso l'occaso. Era nel palischermo io co' miei due remi. A prora il mio Dèspota seduto era, e guatava fiso la mia cura. Tra quegli e me subitamente vidi ignuda l'ombra d'Icaro apparire. Quasi il color marino aveano assunto le sue membra, ma gli occhi eran solari. Sul petto giovenile intraversate ancor gli stavan le due rosse zone, già per gli òmeri vincoli dell'ale, simili a inermi bàltei di porpora. «O Dèspota, costui» dissi «è l'antico fratel mio. Le sue prove amo innovare io nell'ignoto. Indulgi, o Invitto, a questa mia d'altezze e d'abissi avidità!». Ditirambo IV Icaro disse: «La figlia del Sole a me poggiata come ad un virgulto sul limite dei paschi guatava il candido armento dei buoi pascere lungo il Cèrato rupestro. Mi si piegava il destro òmero sotto la mano regale umida di sudor gelido; e, dentro me, tremavano tutte le midolle, negli orecchi fragore sonavami sì forte ch'io temeva udir dal sacro Dicte i Coribanti atroci e il rombo del bronzo percosso. E la città di Cnosso splendea di mura còttili e di blocchi oltre l'irto canneto atto a far dardi. "O Pasife, che guardi?" chiese il Re sopraggiunto. Ed anelava nella sua barba violetta come l'uva cidònia; ché membruto egli era e gravato di giallo adipe il fianco. "Io guardo il toro bianco, quello che tu non désti a Posidone" la figlia di Perseide rispose. E le vette nevose dell'Ida biancheggiavan men del toro niveo diniegato al dio profondo. "Perché sì tremebondo sei tu, figlio di Dedalo?" il Re chiese. E allor Pasife: "Questo ateniese giovinetto somiglia ad Androgèo che non torna d'Atene; e per ciò mi sostiene, il cor triste mi folce; per ciò tanto m'è dolce le dita porre nel suo crin prolisso". Io rividi l'Ilisso, i platani gli allori gli oleandri che l'adombrano, e il bosco degli ulivi presso Colono caro all'usignuolo. Rividi il patrio suolo entro l'anima mia subitamente, come colui ch'è presso alla sua fine; perocché nel mio crine ponea le dita la donna solare, e l'ossa mie flagrare parean nel suo sorriso accosto accosto siccome rami cui fiamma s'appicchi quando i legni sien ricchi d'aroma e inariditi dall'Estate. E le navi lunate coi rematori seduti agli scalmi in fila a battere il flutto diviso, e l'Eracleo, l'Amniso, i due porti ricurvi, e il fiume, e i monti e tutta quanta l'isola selvosa con le vigne col dìttamo e col miele ardere in quel sorriso vidi per mezzo ai cigli miei morenti. E il sire degli armenti udii mugghiare in quel foco sonoro, mugghiare il bianco toro diniegato al gran Padre enosigèo». Icaro disse: «Poi che l'ombra cadde (il vertice dell'Ida solitario nell'etra rosseggiava come il fiore del dìttamo crinito) nascostamente ritornai su' paschi, gonfio d'odio il cuor tacito; e scagliai contra il toro le selci acuminate dell'àlveo del Cèrato divulse e imposte alla mia frombola cretese. Il boaro m'intese e mi rincorse ratto su per l'erbe con la verga di còrilo a minaccia. Ma perse la mia traccia nell'ombra che cadea; né mi conobbe, né l'erbe verdi tenner le vestigia. L'infanda cupidigia per ovunque era sparsa! Palpitare parea pur anco nelle stelle vaghe! Il vento perea piaghe sùbite aprire nel mio corpo nudo acerbe sì che non sarìami valso a medicarle il dìttamo dell'Ida. E piena era di grida compresse la mia gola nell'arsura, quando giunsi alle mura del Labirinto ove il mio padre aveva ambage innumerevole di vie riempiuta d'error laborioso. Quivi ristetti ascoso perocché vidi il duro fabro alzato su la soglia difficile in silenzio e la figlia del Sole in gran segreto favellare con lui senza sorriso, marmorea nel viso, come chi chieda all'arte del mortale una cosa tremenda e non ne tremi». Icaro disse: «L'officina arcana era in un orto a vista del recurvo porto Eracleo frequente di ben costrutte navi dalla prora dipinta; e gli utensìli erano acuti, e la fronte del fabbro era contratta. Sorgea la forma esatta della falsa giovenca nella luce del dì, quasi che sazia di pastura spirasse dalle froge il fiato olente di cìtiso, tranquilla su' piè fessi. Con tale arte commessi eran gli sculti legni e ricoperti di fresca pelle, che parean felici d'ubertà non fallibile i bei fianchi e le mamme in sul punto di gonfiarsi all'affluir d'un latte repentino. Furtiva nel giardino venìa Pasife senza le sue donne a rimirar l'opera fabrile ch'ella infiammava della sua lussuria impaziente; e seco avea l'irsuto boaro come giudice perfetto. Costui rise: il difetto scorse nella giogaia. Il grande artiere fu docile al consiglio dell'uom rude. Pasife con le nude braccia premette gli òmeri miei nudi, s'abbandonò su me come su fulcro insensibile, assorta nel suo sogno inumano, perduta nel portento. Saliva un violento foco dal suolo ov'eran le radici della mia forza, e tutto m'avvolgea, e tutto come arbusto resinoso parea vi crepitassi e vi splendessi. Oh giardino di spessi aromi, carco di cera e di miele, carco di gomma e d'ambra, ove s'udìa scoppiar la melagrana come un riso che scrosci e quasi mosto si liquefaccia in una bocca d'oro! Recava l'Austro il coro delle femmine ancelle dal palagio remoto, che sedevano ai telai o tingevan di porpora le lane o i semplici isceglieano al beveraggio o di carni ammannivan la vivanda per la figlia del Sole, ignare ch'ella fosse innanzi al Sole preda schiumosa d'Afrodite infanda». Icaro disse: «La figlia del Sole amai, che per libidine soggiacque alla bestia di nerbo più potente. Splendea divinamente la sua carne quand'ella penetrava nel simulacro per imbestiarsi. Io chiuso in me riarsi. Io, quando vidi il callido boaro la prima volta addurre alla falsa giovenca il toro bianco che si batteva il fianco sonoro con la fersa della coda adorno i corni brevi d'una lista di porpora, balzai gridando: «O Sole, a te consacrerò, sopra la rupe inconcussa, oggi un'aquila sublime!» E andai verso le cime con la bipenne l'arco e le saette, ben coturnato, a far le mie vendette». Disse: «Da prima vidi l'ombra vasta palpitar su la torrida petraia. Fulvo il macigno, cerula era l'ombra. E dopo udii la romba delle penne per l'aer verberato. Gridò verso il suo fato ella repente, ferma su le penne; la corda mia nel tendersi stridette; il grido parve lacerare il cielo e lo stridor fu lieve qual garrito di rondine ma il tèlo che si partì fu forte e fu cruento. Sentii sul viso il vento del volo che fece impeto a salire, poi si fiaccò, girò come in un turbo, piombò verso lo scrìmolo del monte. Mi cadde su la fronte una goccia di sangue larga e calda come goccia di nuvolo d'agosto quando lampeggia e tuona. L'aquila s'abbattè sul sasso prona il petto, aperta l'ali crude che strepitarono sul sasso, erta sùbito il rostro alla difesa. La roccia discoscesa ardeva nel meriggio come il ferro nella fucina, sotto i miei coturni. La fronda dei viburni era come la scoria dei metalli liquefatti, e la fronda degli avorni. S'udìano i capricorni belare in mezzo al dìttamo crinito, e l'odore dell'erba vulneraria mescevasi nell'aria tremula con l'odor dell'aquilino sangue che d'ogni sangue è più vermiglio. Col rostro e con l'artiglio fu pronta la satellite di Giove a combattere contra il feditore su la rupe inconcussa. Allora io dissi: "Augusta, se tu sei senza volo, io sia senz'armi". E disdegnai ritrarmi qual uomo a saettarla di lontano. Ma gittai l'arco; e mi fasciai la mano con il corame della mia faretra, mi fascia la man destra a difesa degli occhi minacciati dal becco adunco. Feci impeto, entrai in un selvaggio fremito di penne; in un orrendo strepito di penne come in un nembo fulvo preso fui dalla possa grifagna; sentii fuggirmi sotto le calcagna la rupe e gridai forte. Combattemmo nel rombo della morte. Io con la destra le afferrai la strozza robusta come tronco di serpente, e strinsi e strinsi; e con la manca trassi dalla ferita fresca il dardo primo, più volte e più nell'imo fegato lo confissi. Combattemmo sul ciglio degli abissi, in cospetto del Sole, a mezzo il giorno. Gloria d'Icaro! Intorno alla zuffa ogni bàttito di penne sprizzava mille stille di sangue come porpora in faville accesa ed isvolata via per festa. A gloria la mia testa pareva di faville incoronarsi. E le piume dei tarsi e del petto e del collo e delle ascelle isvolavan su l'Ostro. E un rivolo purpureo dal rostro colava sul mio braccio imporporato fino al cùbito. E làcera dai colpi delle rampe la destra coscia m'era sì che la messaggera Nike, se mai sostò sul solitario vertice andando verso Atene mia a recar le corone dell'oleastro, fece il paragone tra l'aquilino sangue e il sangue icario. Ah, non temetti il suo giudicio, o Sole. Parvemi, quando apersi il pugno ostile e la nemica ricoprì la rupe alfine spenta, parvemi che tutta la sua virtute aligera mi fosse nelle braccia e negli òmeri trasfusa e m'agitasse i fragili precordii una immortale avidità di volo. L'alto vertice solo e l'esanime preda eran con meco, e il dio della lucifera quadriga. Pregai: "Divino auriga, questa vittima t'offro in olocausto perché tu mi sii fausto se dato mi sarà tentar le vie dove agiti le tue criniere bianche. Il torace le viscere le branche e il gran capo rostrato in un fuoco di sterpi e d'erbe io t'ardo e la canna del dardo. Concedi, o dio magnifico, se m'odi, concedimi che immuni dalla brace io dell'aquila serbi l'ali forti e con meco le porti perché le veda entrambe il padre mio Dedalo d'Eupalàmo ateniese, artefice sagace, perché due me ne foggi a simiglianza l'uomo di molti ingegni, ma più forti, ma con più grande numero di penne". E tolsi la bipenne che al cinto appesa avea dietro le reni: con ella diedi nelle congiunture, di muscoli e di tendini gagliarde così che resisteano al doppio taglio. "Ahi che l'incudine e il maglio e l'industria paterna non varranno a radicarmi la virtù dell'ala nella scapula somma" io mi pensai considerando, come il citarista inchino su le corde, la tenacia del nesso tendinoso che biancheggiava di color di perla nel cruore. E la mente ne fu trista. E trista fu la mozza ala, a vederla. E, nel fuoco di sterpi fumigando la residua carne offerta al Sole, io mi pensai: "Si duole il dio solingo sul suo carro ardente e non cura l'insolito libame. La figlia sua nel simulacro infame ei vide, onniveggente; e dell'arte di Dedalo si cruccia e mi scopre nel cor la piaga acerba, nel cor che non si lagna, cui dìttamo né stebe non mi vale". Mi gravai d'ambo l'ale congiunte con la stringa del mio cinto; e l'alta volontà fu la compagna della doglia fatale quando, scorto dal dio, di sangue tinto, scesi dal monte verso il Labirinto». Icaro disse: «L'officina arcana era in una caverna del dirupo, dietro il porto d'Amniso a levante di Cnosso, erma sul mare. S'udiva starnazzare e stridere d'uccelli senza tregua, pe' fóri dello scoglio ferrugigno. Il suolo di macigno consparso era d'antichi dolii rotti e di fimo biancastro. Rimbombavano al Giàpice salmastro le concave pareti come le curve targhe dei Cureti all'urto delle picche furibonde. Sotto, il fragor dell'onde avea lunga eco per ambagi ignote quando l'Apeliote enfiava i verdazzurri otri del sale. Quivi all'innaturale opera intento era il mio padre, quivi i congegni del volo oprava senza incude e senza maglio. Ben gli diedi travaglio e affanno, ché pareami troppo tarda la sua fatica per il mio desìo e sempre poche mi parean le penne adunate dinanzi a lui che oprava. Per lui la cera flava, stretta in pani, col pollice e col fiato ammollii; dispennai la copiosa cacciagione; sollecito le penne separai dalle piume. Il sangue onde imperlavasi l'acume d'ogni fusto divulso vertudioso parvemi; e mi piacque a stilla a stilla suggerlo, accosciato presso il fabro mirabile che oprava seduto su la pietra. Quante volte votai la mia faretra, infaticato sagittario errante per le rupi lontane! I falchi gli sparvieri e le poiane caddero, e gli avvoltoi calvi gravati di carni lugùbri, e gli astori co' resti dei colùbri, ancor ne' becchi adunchi, e i gru strimonii gambuti dai lunghi ossi accòmodi al tibìcine, ogni specie pennipotente altivolante cadde per la forza degli archi miei cidonii e de' miei dardi gnossi. E mi tornava io carico di preda celeste alla caverna; e pur sempre pareva al mio desìo che fosse tarda l'opera paterna. Era quivi l'odore della cera e della ragia, ché l'operatore mescolava le lacrime del pino chiare al dono trattabile dell'ape, acciocché questo fosse più tegnente. Escluso avea dall'opera i metalli come gravi ch'ei sono, e l'armatura composto avea con le vergelle ferme del còrilo e pieghevoli, congiunte da bene intorto stame in ciechi nodi, e sópravi disteso avea l'omento, la grassa rete che le interiora degli animali include, ben dissecco. E sul congegno solido e leggero ei disponea per ordine le penne, dalla più breve alla più lunga elette acutamente, come nella fistola di Pan le avene dìspari digradano per la natura dei diversi numeri. E lino e cera usava a collegarle, cera immista di ragia, come dissi. E le sapeva inflettere con tanta arte, per imitar la curvatura della vita, che l'ala su la pietra inerte parea trepida e tepente e penetrata d'aere, ventosa come fosse per rompere dal nido o per posarsi dopo lungo volo». Icaro disse: «Non veduto, vidi. Misi gli occhi per entro ad un rosaio, ove all'alito mio silentemente si sfogliarono due tre rose passe. Parve che si sfogliasse con elle e si sfacesse il cuor mio caro. E senza fine amaro mi fu tutto che vidi non veduto, in quel giardino muto ove non più s'udìa la pingue gomma gemere né scoppiar pomo granato come riso puniceo che scrosci. Fracidi i frutti, flosci erano, grinzi come cuoi risecchi gli arbori, crudi stecchi; le cellette soavi, aride spugne, senza la melodìa laboriosa. Rotta al suolo, corrosa, informe fatta come vil carcame era la vacca infame offerta dalla frode al toro bianco perché l'inclito fianco alla figlia del Sole empiesse di semenza bestiale. E la donna regale, figlia del Sole e dell'Oceanina, Pasife di Perseide, il cui vólto m'era apparito come il penetrale della luce nel tempio dell'iddio splendido, la reina dell'isola che fu cuna al Cronìde ricca in dìttamo in uve in miele e in dardi, l'adultera dei pascoli era quivi sola col suo spavento. Bocca anelante, nari acri, occhio intento avea, pallido volto come l'erbe aride, consumato dai sudori e dalle schiume della sua lussuria. Discinta era, e l'incuria della sua chioma la facea selvaggia qual femmina del Tìaso tebano che defessa dall'orgia ansi in un botro del Citerone, esangue fra il tirso spoglio della fronda e l'otro voto del vino, al gelo antelucano. Sentiva nel suo ventre, abbrividendo, vivere il mostro orrendo, fremere il figlio suo bovino e umano». Icaro disse: «Era stellato il cielo, era pacato il mare, nella vigilia mia meravigliosa. La roggia stella ascosa nel mio cor vigile era la più grande. Le cose miserande eran lungi da me come da un dio beverato di nèttare novello. Parea dal corpo snello dileguarmisi il triste peso come dal cielo eòo si dileguava l'ombra, e nella carne sgombra un aereo sangue irradiarsi. Nel cielo eòo comparsi i pallidi crepuscoli, il messaggio della Titània fece su per l'acque un infinito tremito tremare. Subitamente il giubilo del mare si converse in desìo tumultuoso, irto le innumerevoli sue squamme. Allor tutte le fiamme del giorno dal mio cor parvero nate, per sempre tramontate dietro di me le stelle della notte, l'ali della mia sorte già nel periglio glorioso aperte. Ahi, su la pietra inerte si giacevan gli esànimi congegni, e le mie braccia umane erano spoglie della virtù pennata che la mia scure avea tronca sul monte in giorno di vittoria. E sùbito mi fu nella memoria la tenacia del nesso tendinoso che biancheggiava di color di perla nel cruore vermiglio. "Aquila vinta" dissi "Icaro, figlio di Dedalo d'Atene, ai tuoi mani consacra i ligamenti arteficiati e fragili dell'ali che sono opera d'uomo; perché, come ti vinse combattendo lungi e presso, così nel tuo dominio vincerti vuole d'impeto e d'ardire". E il mio padre destai dal sonno. Dissi: "Padre, è l'ora". Non altro dissi. Muto stetti mentr'ei m'accomodava l'ali agli òmeri, mentr'ei gli ammonimenti iterava con voce mal sicura. "Giova nel medio limite volare; ché, se tu voli basso, l'acqua aggreva le penne, se alto voli, te le incende il fuoco. Tieni sempre il giusto mezzo. Abbimi duce, séguita il mio solco. Deh, figliuol mio, non esser tropp'oso. Io ti segno la via. Sii buon seguace". E le mani perite gli tremavano. Il mirabile artiere ebbi in dispregio silenziosamente. "Al primo volo io con te lotterò, per superarti. Fin dal battito primo, io sarò l'emulo tuo, la mia forza intenderò per vincerti. E la mia via sarà dovunque, ad imo, a sommo, in acqua, in fuoco, in gorgo, in nuvola, sarà dovunque e non nel medio limite, non nel tuo solco, s'io pur debba perdermi" risposegli il mio cor silenzioso. E gli sovvenne della grande frode (difficile all'oblìo questo mio cuore sì che l'acqua del Lete non ci valse: furon pur tre le tazze tracannate) e del dolo fabrile gli sovvenne. Fra le mani perite che tremavano riveder seppe gli utensìli acuti intesi a compiacer la trista voglia. "Icaro figlio, m'odi? Io m'alzo primo. Volerò senza foga, e tu mi segui". Ma con l'arte dell'aquila io spiccai dal limitar della caverna un volo sì veemente che diseparato fui sùbito. Gli stormi isbigottirono su per le rosse rupi, in fuga striduli temendo la rapina dileguarono. Oh libertà! Pel corpo nudo l'aere matutino sentii crosciarmi, gelido tutto rigarmi di chiarezza irrigua: non i torrenti ove uso fui detergere dopo le cacce la sanguigna polvere m'avean rigato di sì grande giòlito. Oh nel cor mio rapidità del palpito ond'era impulso il volo, in egual numero! Pareami già gli intaversati bàltei esser conversi in vincoli tendìnei, tutto l'azzurro entrar per gli spiracoli del mio pulmone, il firmamento splendere sul mio torace come sul terribile petto di Pan. Gridava "Icaro! Icaro!" il mio padre lontano. "Icaro! Icaro!" Nel vento e nella romba or sì or no mi giungeva il suo grido, or sì or no il mio nome nomato dal timore giungeva alla mia gioia impetuosa. "Icaro!" E fu più fievole il richiamo. "Icaro!" E fu l'estrema volta. Solo fui, solo e alato nell'immensità. Passai per entro al grembo d'una nuvola: un tepore un odore dolce e strano eravi, quasi l'alito di Nèfele madre d'Elle che diede nome al ponto. Il vento del remeggio i veli tenui sconvolse, un che di roseo svelò, un che di biondo. Odore dolce e strano m'illanguidiva, inumidiva l'ali. Il vol decadde. Vidi undici navi di prora azzurra fornite di tolda, che flagellavano il mar con la palma dei remi in lunga eguaglianza concordi, andando a impresa lontana. Sul ponte pelte lunate luceano e di bronzo clìpei tondi, aste lunghe. Mi giunse l'urlo dei nàuti. Veloce volai, oltre passai. Qual fu dunque la mente dei nàuti rudi mirando il prodigio? Come di me favellarono? Dissero forse: "In un campo di strage la màscula Nike, nell'ombra d'un cumulo grande dai carri estrutto riversi e dirotti, o a piè d'un grande trofeo d'armi illustri, sul suol cruento cedette all'eroe che l'afferrò per la chioma; e fu pregna. E quei che rema lassù con tant'ala è certo il figlio di lei giovinetto". Di queste l'alto cor mio si compiacque imaginate parole, ché stirpe di Nike avrebbe ei voluto infierire. E vidi poi sotto fulgere in Paro iscalpellata il candor del Marpesso. E vidi poi dall'erratica Delo salir vapore di caste ecatombi. Poi non vidi altro più, se non il Sole. Poi non volli altro più, se non da presso mirarlo eretto sul suo carro ignìto, giugnerlo, farmi ardito di prendere pei freni il suo cavallo sinistro, Etonte dalle rosse nari. Il pètaso e i talari d'Erme Cillenio avea conquisi il mio sogno meridiano, il mio delirio. Congiunto era con Sirio altissimo nel medio orbe, nell'arce somma dei cieli Elio d'Eurifaessa. E l'altezza inaccessa e l'ardore terribile agognai ed offerirgli l'ali che sul monte crètico escluse avea dall'olocausto. Mi sembrava inesausto il valor mio ché l'animo agitava le morte penne, l'animo immortale e non il braccio breve. Ed ecco, vidi come un'ombra lieve sotto di me nella profonda luce ove non appariva segno alcuno del mare cieco e dell'opaca terra; ancóra un'ombra vidi, un'altra ancóra. E dissi: "Icaro, è l'ora". Ma il cor non mi mancò. Non misi grido verso il mio fato, come la devota alla saetta aquila moritura; né rimpiansi il paterno ammonimento. Guatai senza spavento in giuso; e l'ombre lievi eran le penne dell'ali, che cadeano tremolando dalla cera ammollita. Mi sollevai con impeto di vita verso il Titano: udii rombar le ruote del carro sul mio capo alzato; udii lo scàlpito quadruplice; il baleno scorsi dell'asse d'oro, il fuoco anelo dei cavalli. Piròe dalla criniera sublime, Etonte dalle rosse nari. E i cavalli solari annitrirono. Il ventre di Flegonte brillò come crisòlito; la bava d'Eòo fu come il velo d'Iri effuso. E vidi il pugno chiuso che teneva le rèdini, la fersa garrir sul fuoco udii. Tesi le braccia. "O Titano!" E la faccia indicibile, sotto la gran chioma ambrosia, verso me si volse china; e i raggi le cingean mille corone. "Elio d'Iperione, t'offre quest'ali d'uomo Icaro, t'offre quest'ali d'uomo ignote che seppero salire fino a Te!" Si disperse nel rombo delle ruote la mia voce che non chiedea mercè al dio ma lode eterna. E roteando per la luce eterna precipitai nel mio profondo Mare». Icaro, Icaro, anch'io nel profondo Mare precipitai, anch'io v'inabissi la mia virtù, ma in eterno in eterno il nome mio resti al Mare profondo! Tristezza Tristezza, tu discendi oggi dal Sole. La tua specie mutevole è la nube del cielo, e son le spume del mare gli orli del tuo lino lungo. Sembri Ermione, sola come lei che pel silenzio vienti incontro sola traendo in guisa d'ala il bianco lembo. Sì le somigli, ch'io m'ingannerei se non vedessi ciocca di viola su la sua gota umida ancor del nembo. Ha tante rose in grembo che la spina dell'ultima le punge il mento e glie l'ingemma d'un granato. Come fauno barbato accosto accosto mòrdica le rose il capricorno sordido e bisulco. Le Ore marine Quale delle Ore che mi conducesti viventi e furon larve cinerine quando il sole disparve nella triste sera, o Ermione, quale delle Ore marine ch'ebbero il tuo volto e le tue mani e le tue vesti e la tua movenza leggiera e ciascuno de' tuoi gesti e ogni grazia che tu avesti, o Ermione, quale delle vergini Ore che mansuefecero col solo silenzio il mar selvaggio quasi che accolto se l'avessero in grembo come un fanciullo torvo per blandire il suo duolo sorridendo, o Ermione, quale delle Ore divine, con gli occulti beni che tu le désti, t'accompagna nel viaggio di là dai fiumi sereni, di là dalle verdi colline, di là dai monti cilestri? Quella che raccoglie su la sterile sabbia le negre foglie della querce sacra, o Ermione, creature dei monti macere dal sale amaro, cui rapì dalla balza il vento e diede al flutto amaro che le travaglia e le rifiuta? Quella che guarda il faro lontano su la rupe nuda ove il flutto si frange, o Ermione, l'insonne occhio ardente che già volge i suoi fochi per il deserto specchio infaticabilmente? Quella che inclina pensosa l'orecchio su la conca marina e ascolta la romba della voluta e odevi la tromba del Tritone che chiama la Sirena perduta, o Ermione, e odevi il mar che piange la sua Sirena perduta? Quale delle Ore, quale delle Ore marine, con gli occulti beni che tu le désti, col segreto linguaggio che le apprendesti, o Ermione, t'accompagna nel viaggio di là dai fiumi sereni, di là dalle verdi colline, di la dai monti cilestri, o Ermione, di là dalle chiare cascine, di là dai boschi di querci, di là da' bei monti cilestri? Litorea dea Estate, bella quando primamente nella tua bocca il mite oro portavi come l'Arno i silenzii soavi porta seco alla foce sua silente! Ma più bella oggi mentre sei morente e abbandonata ne' tuoi cieli blavi, che col cùbito languido t'aggravi su la nuvola incesa all'occidente. T'arda Ermione sul tuo letto roggio gli àcini d'ambra dove si sublima il pianto delle tue pinete australi. Io della tua bellezza ultima foggio una divinità che su la cima del cuor mi danza: Undulna dai piè d'ali. Undulna Ai piedi ho quattro ali d'alcèdine, ne ho due per mallèolo, azzurre e verdi, che per la salsèdine curvi sanno errori dedurre. Pellùcide son le mie gambe come la medusa errabonda, che il puro pancrazio e la crambe difforme sorvolano e l'onda. Io l'onda in misura conduco perché su la riva si spanda con l'alga con l'ulva e col fuco che fànnole amara ghirlanda. Io règolo il segno lucente che lascian le spume degli orli: l'antico il men novo e il recente io so con bell'arte comporli. I musici umani hanno modi lor varii, dal dorico al frigio: divine infinite melodi io creo nell'esiguo vestigio. Le tempre dell'onda trascrivo su l'umida sabbia correndo; nel tràmite mio fuggitivo gli accordi e le pause avvincendo. O sabbia mia melodiosa, non un tuo granello di sìlice darei per la pómice ascosa della fonte all'ombra dell'ìlice. Brilli innumerevole e immensa alla mia lunata scrittura; e l'acqua che bevi t'addensa, lo sterile sale t'indura. Il rilievo t'è tanto sottile, dedotto con arte sì parca, che men gracile in puerile fronte sopracciglio s'inarca. A quando a quando orma trisulca il lineamento intercide; pesta umana, se ti conculca, s'impregna di luce e sorride. Figure di nèumi elle sono in questa concordia discorde. O cètera curva ch'io suono, né dito né plettro ti morde. Io trascorro; e il grande concento in me taciturna s'adempie, dall'unghie de' miei piè d'argento alle vene delle mie tempie. Scerno con orecchia tranquilla i toni dell'onda che viene, indago con chiara pupilla più oltre ogni segno più lene; così che la musica traccia m'è suono, e ne' righi leggeri, mentre oggi odo ansar la bonaccia, leggo la tempesta di ieri. Che è questo insolito albore che per le piagge si spande? Teti offre alla madre di Core dogliosa le salse ghirlande? L'albàsia de' giorni alcionii anzi il verno giunge precoce e dagli arcipelaghi ionii attinge del Serchio la foce? Il molle Settembre, il tibìcine dei pomarii, che ha violetti gli occhi come il fiore del glìcine tra i riccioli suoi giovinetti, fa tanta chiarìa con due ossi di gru modulando un partènio mentre sotto l'ombra dei rossi corbézzoli indulge al suo genio. Respira securo il mar dolce qual pargolo in grembo materno. La pace alcionia lo molce quasi aureo latte, anzi il verno. Onda non si leva; non s'ode risucchio, non s'ode sciacquìo. Di luce beata si gode la riva su mare d'oblìo. La sabbia scintilla infinita, quasi in ogni granello gioisca. Lùccica la valva polita, la morta medusa, la lisca. In ogni sostanza si tace la luce e il silenzio risplende. La Pania di marmi ferace alza in gloria le arci stupende. Tra il Serchio e la Magra, su l'ozio del mare deserto di vele, sospeso è l'incanto. Equinozio d'autunno, già sento il tuo miele. Già sento l'odore del mosto fumar dalla vigna arenosa. All'alba la luna d'agosto era come una falce corrosa. Di Vergine valica in Libra l'amico dell'opere, il Sole; e già le quadrella ch'ei vibra han meno pennute asticciuole. Silenzio di morte divina per le chiarità solitarie! Trapassa l'Estate, supina nel grande oro della cesarie. Mi soffermo, intenta al trapasso. Onda non si leva. L'albèdine è immota. Odo fremere in basso, a' miei piedi, l'ali d'alcèdine. Bianche si dilungan le rive, tra l'acque e le sabbie dilegua la zona che l'arte mia scrive fugace. Sorrido alla tregua. A' miei piedi il segno d'un'onda gravato di nero tritume s'incurva, una màcera fronda di rovere sta tra due piume, un'arida pigna dischiusa che pesò nel pino sonoro sta tra l'orbe d'una medusa dispersa e una bacca d'alloro. Vengono farfalle di neve tremolando a coppie ed a sciami: nella luce assemprano lieve spuma fatta alata che ami. Azzurre son l'ombre sul mare come sparti fiori d'acònito. Il lor tremolìo fa tremare l'Infinito al mio sguardo attonito. Il tessalo Tra i fusti ove le radiche fan groppo e già si gonfia venenato il fungo, odo incognito piede solidungo come bronzo sonar contra l'intoppo. Caval brado non è; però che troppo forte suoni lo scàlpito ed a lungo per la selva selvaggia ove no l' giungo duri l'irrefrenabile galoppo. Certo è l'ugna del Tessalo bimembre contra i rigidi coni e l'aspre stirpi sonante, l'ugna del Centauro illeso. Ei vuole, mentre il giovine Settembre circa il fragile vetro intesse scirpi bevere il nero vino all'otre obeso. L'otre I. Pelle del becco sordido e bisulco fui, prima che mi traesser le coltella. Deh come olente alla stagion novella egli era e tra le capre sue petulco, o uom che m'odi, e ben barbato e torvo e di téttole dure ornato il gozzo e d'aspre corna il fronte invitto al cozzo, negli occhi sùlfure atro come corvo! Sagliente egli era, e mogli in abbondanza ebbe, e feroce fu nelle sue pugne; ma al suon d'un sufoletto, erto su l'ugne fésse, imitava il satiro che danza. Occiso penzolò sanguinolente dall'uncino; e squarciato fumigava, nudi ostentando in sua ventraia cava l'argnon focoso e il fegato possente. Tratta gli fui di dosso umida e floscia. Pelo e carniccio poi tolsemi il ferro. Ghianda di gallonèa, scorza di cerro fecermi bona concia nella troscia. Rasciutta nelle cieche stìe, premuta dai macigni, distesa dall'orbello, per sorte un dì cucita fui del bello con fil d'accia da femmina saputa. Otre divenni e principe degli otri obeso appresso i pozzi e le cisterne. Acqua di cieli, acqua di fonti eterne contenni, acqua di rivoli e di botri, dolci acque e fresche ma di odor caprigno sapide tuttavia, sì che talvolta le femmine entro me chiusero molta menta e il seme dell'ànace fortigno. O uomo, l'otre invidia le tue seti! Pianure arsicce, livide petraie, pigre maremme fabbricose, ghiaie e sabbie in foco per deserti greti, stridor di carri, ànsito di giumenti io conobbi, e il guatar del sitibondo. Io valsi più che l'universo mondo al desiderio delle fauci ardenti! O uomo, da benigni iddii tu hai le tue seti. Il garòfolo e il papavero non così vividi ardere mi parvero come la bocca tua che dissetai. Non il capro, onde tratta fui sua spoglia, mai si precipitò come chi volle bere da me. Tutto lo feci molle. Oh gaudio della gola che gorgoglia! Mani cupide premono i miei fianchi turgidi (sembra che gli arsi occhi bevano prima che i labbri) mani mi sollevano su arsi vólti, di polvere bianchi. Va da me per le vene al cor profondo la mia liquida gioia, al più remoto viscere. Oh bene immenso! Eccomi vòto. In dieci gole ho dissetato il mondo. II. E vòto fratel fui della bisaccia grinzuta ch'ebbe la cipolla e il tozzo in coniugio. E non più rempiuto al pozzo fui, non udii crosciar la secchia diaccia, ma dalla mamma copiosa udii crosciare emunto il latte nel presepio occluso. Per indùlgere al mio tedio nova sorte mi fecero gli iddii. Gonfio di latte, anch'io ubero parvi più capace e men roseo. Notturno pendevo nel presepio taciturno, come gli uberi sotto i materni alvi. Ma non mai tanto l'otre ebbesi amica la pace come allor che, in su lo scorcio dell'autunno, s'apparentò con l'orcio per favore di Pallade pudica. Pacifera è l'oliva e tarda e pingue. da poi che gemuto ha sotto la mola, si raddolcisce e più non fa parola; mentre la garrula acqua ha mille lingue. Or pieno fui di castità palladia e di silenzio. Tacito ascoltava pulsar la tempia fievole dell'ava e il pane lievitare nella madia. D'improvviso, una notte, mentre vòto giacea sul palco fra i minori otrelli, venne un bifolco tutto irto di velli e seco trassemi a un officio ignoto. Duro il suo pugno parvemi qual sasso e l'ugna adunca qual branca di belva. Tramontavano l'Orse. Ad una selva orrida, in riva al fiume, arrestò il passo. Quivi nel sangue prono era disteso il suo nimico. Gli troncò la testa con una falce; e quella mozza testa prese a' capegli, e me carcò del peso. Subitamente mi rempiei del nero sangue. E disse il falcato al teschio: «Avevi tu sete? Orbè, se t'arde sete, bevi, nell'otro che t'ho acconcio, il vin tuo mero». E il teschio e il sangue dentro ei mi serrò. Gonfio ero fatto, ed ei mi sollevò. Su la riva del fiume ei mi portò. In mezzo alla corrente ei mi scagliò. Fervido era anco il buon licor doglioso. O uom che m'odi, acqua di fonte, bianco latte, olio lene, quanto ebbi nel fianco, non vale il sangue tuo meraviglioso! Entro di me fu breve e immensa guerra, ismisurata e rapida tempesta. Non parvemi serrar la tronca testa ma contenere l'orbe della Terra. Poi nel gel fluviale in grumo e in sanie si converse quel peso; e la corrente mi voltò per le ripe, oscuramente trassemi verso le contrade estranie. III. Era l'aurora quando in mezzo ai salici mi rinvenne l'Egìpane biforme. Uom che m'odi, il tuo spirito che dorme più non vede gli antichi numi italici! Vivon eglino pieni di possanza: hanno il fiato dei boschi entro le nari; i gioghi venerandi han per altari, e di sé fanvi testimonianza. Più non li vedi, o uomo. Nel tuo petto il cor si sface come frutto putre. E la Terra materna invan ti nutre de' suoi beni. Tu plori al suo conspetto! Mi rinvenne l'Egìpane divino. Possentemente rise in suo pél falbo; poi tolsemi per trarmi di fra gli àlbori umidi: mi credea gonfio di vino. Dava schiocchi la lingua sua salace mentr'ei m'aprìa. Ma pél non gli tremò quando scoperse il teschio e il grumo; «Tò» disse «nell'otro il capo del gran Trace!» E sopra l'erba mi sgravò del reo peso, mi scosse. Poi raccolse il teschio, lo rotò, lo scagliò forte nel Serchio gridando: «Tu non sei capo d'Orfeo!» Tal era il riso de' suoi denti scabri quale un rio lapidoso. Allor nell'acque chiare mi terse; m'asciugò. Gli piacque anco d'enfiarmi co' suoi curvi labri. Pieno fui del divino afflato, pieno fui del selvaggio spirito terrestro! Venne allora il Panisco, che mal destro era nel nuoto, al bel fiume sereno. E il nume padre a lui mi diede; ed io tenerlo a galla seppi, io lo sorressi nel nuoto quando i piccoli piè féssi troppo agitava celere disìo. Molto l'amai. Dall'ombelico in giuso di pél biondiccio qual cavriuoletto era ma liscio il rimanente, eretto il codìnzolo, un po' lusco e camuso. Tenérmigli solea sotto l'ascella ove appena fiorìa qualche peluzzo rossigno; e avea del suo cornetto aguzzo tema non mi bucasse per rovella, sì rapido era il pueril corruccio s'ei districava il piè dall'erba acquatica o alzar vedeva l'anatra selvatica o sentiva guizzar da presso il luccio. Viride Serchio in tra due selve basse! Mattini estivi, quando il bel Panisco biondetto sen venìa, cinto d'ibisco roseo, con suoi lacci e con sue nasse! Troppo, ahimè, destro erasi fatto al nuoto. Omai fendeva le più rapide acque; sì che più giorni e più l'otre si giacque solo nel limo, e alfin rimase vòto. IV. Ma gli alti iddii anco mi fur benigni. Un bel pastore dalla barba d'oro mi raccolse. Ed all'ombra d'un alloro mi lavorò con suoi sottili ordigni. Quattro di bosso ei fecemi cannelle ineguali, e assai bene le polì. La più corta alla spalla m'inserì e strinse con cerate funicelle. In bocca tre l'artiere me ne messe, l'una più lunga, l'altre due minori; nella più lunga numerosi fóri praticò, che diverse voci desse. Le due brevi, di largo cerchio e stretto, aperte in giuso a mo' di padiglione, servir di grande e piccolo bordone dovean come le frondi all'augelletto. Oh meraviglia, quando per la corta canna egli enfiò la nova cornamusa! Tutta di pia felicità soffusa giovine donna venne in su la porta, nuda le belle braccia, e disse: «O caro marito, o barbadoro, ecco che nasce ricchezza ingente nelle nostre case; ed i granai si rempiono di grano, gli alveari si rempiono di miele, d'aurei pomi si rempiono i frutteti, di rose citerèe tutti i verzieri, e di cervi e di damme le mie selve; e avrò tra i muri miei variodipinti un talamo con quattro alte colonne e vestimenta avrò d'ogni colore e per cignermi d'ogni sorta cinti; e avrò e avrò nelle mie veglie ancora per filar la mia lana mille ancelle mariterò le mie dolci sorelle ai satrapi dell'Asia spaziosa!». Questo fecero grande incantamento l'otre e il pastore con un poco d'aria, o uom che m'odi, con un poco d'aria e col nume di Cintio arco-d'-argento; però che il faretrato Citaredo, il qual pur trasse Marsia di vagina, sia largo della sua virtù divina all'inculto pastore e al dotto aedo, al calamo forato e alla testudine tricorde se lui prieghi un puro cuore. Noi come greggi i vesperi e l'aurore pascemmo nella verde solitudine. Il pino irsuto diede il molle fico, i narcissi fioriron su i ginepri, danzò il veltro armillato con le lepri, e l'antico fu novo e il novo antico. Oh maraviglia! Come l'elitropio al Sol, volgeasi al suono la soave donna dalla sua porta. E l'architrave parea sculto da Dedalo il Cecropio e lo stipite rozzo una colonna del Palagio di Pelope l'Eburno, quando il pastor dicea: «Come l'alburno, intorno al cuore mi biancheggi, o donna!» Divenuta più candida nel suono ell'era, come il lin nell'acqua infuso. Sorridea sempre. E la conocchia e il fuso, la spola e i licci erano in abbandono. Pe' capegli repente l'abbrancò, pe' suoi capegli come l'uva nera, come il folto giacinto a primavera, come dell'edera il corimbo forte, pe' capegli repente l'abbrancò la Morte, l'abbattè, pel calle oscuro la trascinò: di là dal fiume curvo, nel regno buio la portò la Morte. E nessuno e nessuno più la scorse. Cupo silenzio fu dentro le case. L'ombra lunga occupò la soglia, invase il talamo. E l'aurora più non sorse. Ma pianto non sonò dentro le case: erano il cuore e gli occhi opache selci. E fuggì la lucertola dall'embrice, anche fuggì la rondine, anche l'ape. Io pendea tristo, presso il focolare. Ed infine il pastore si sovvenne dell'otre. Mi guatò gran tratto. Venne, mi tolse, muto, senza lacrimare. Io mi credeva ancóra esser premuto contra il fianco dal cubito leggero e disciogliere in me, rivolto al nero Ade, l'ingombro del dolore muto. «Sposa, ch'io venga su le tue vestigia!» E da me svelse i calami con cruda mano, li infranse. L'anima sua nuda e noi profferse alla gran Notte stigia. V. O uom che m'odi, fu laboriosa la mia sorte. Non fecero grandi ozii a me gli iddii. Solstizii ed equinozii passano; passa il colchico, e la rosa. Tutto ritorna; e la saggezza è vana. La saggezza non val legno ficulno né zàccaro caprino. Io voglio, alunno di Libero, finir di fine insana. Se bene obeso, molto vidi e udii però che amico fui de' viatori insonni, esperto di molti sapori, a servigio di efimeri e d'iddii. Molto contenni, puro o adulterato. Il falso e il vero son le foglie alterne d'un ramoscello: il savio non discerne l'una dall'altra, l'un dall'altro lato. E la virtù si tigne come lana, e la felicità come Vertunno tramuta la sua specie. Io voglio, alunno di Libero, finir di fine insana. So nelle loro generazioni diverse l'acqua, il latte, l'olio tacito; so il sangue umano e so l'afflato pànico e so le metamorfosi dei suoni. Ma il licor rubicondo che ti rende simile ai numi, o uom che m'odi, ignoro: quello onde gonfio mi credette il buono Egìpane, e il gran riso ancor mi splende! Tu m'hai raccolto, o uomo nello speco ove per ruzzo trassemi il lupatto. Che valgo? Vedi tu come son fatto! Piacciati dunque d'insanire meco. Desìo d'altre fortune non mi tocca. Più lungamente vivere non posso. Ricucimi la spalla ov'ebbi il bosso animato e ristringimi la bocca. Tu vedi: sono vecchio e non ti giovo. Ma è larga alla tua sete e alla tua fame la Terra, e tu le devi il tuo libame. Nell'otre vecchio or poni il vino nuovo! Vendemmierai con cantici di gioia. Farai del mosto mite il vin possente. Della giovine forza, alla nascente luna, tu m'empirai queste mie cuoia, che me le schianti almen la giovinezza terribile! E coronami di fiori selvaggi, ed al più folto degli allori tuoi sospendimi. Oh ultima bellezza! Discisso tonerò nel gran meriggio. Lungi s'udrà nell'alta luce il tuono. E tu dirai, la pura fronte prono: «Bevi l'offerta, o Terra. Io son tuo figlio». Gli indizii Ahimè, la vigna è piena di languore come una bella donna sul suo letto di porpora, che attenda l'amadore. Ahimè, di bacche il frùtice s'affoca, la viorna s'incénera, più lieve che la prima lanugine dell'oca. Ahimè, già qualche canna ha la pannocchia, nella belletta il cìpero si schiude, fa sue querele antiche la ranocchia. Ahimè, fiore travidi gridellino che di gruogo salvatico mi parve, e tinto di gialliccio il migliarino. In uno m'abbattei lungo il canale ove tra lente imagini di nubi s'infràcida la dolce carne erbale. Villoso egli era. Intento io lo guatai; e la morte di quella che mi piacque seppi negli occhi suoi distrambi e vai. Sogni di terre lontane I PASTORI Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono all'Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti. Han bevuto profondamente ai fonti alpestri, che sapor d'acqua natìa rimanga ne' cuori esuli a conforto, che lungo illuda la lor sete in via. Rinnovato hanno verga d'avellano. E vanno pel tratturo antico al piano, quasi per un erbal fiume silente, su le vestigia degli antichi padri. O voce di colui che primamente conosce il tremolar della marina! Ora lungh'esso il litoral cammina la greggia. Senza mutamento è l'aria. il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciacquìo, calpestìo, dolci romori. Ah perché non son io co' miei pastori? LE TERME Settembre, oggi veder vorrei l'azzurro del tuo cielo riempiere la bocca rotonda della maschera di pietra in cima alla colonna che si sfalda nei secoli, convolta dal rosaio che si sfoglia nell'ora, entro quel chiostro quadrato che di biondo travertino chiarisce il cotto delle antiche Terme. Forse d'Orfeo ragionerei con Erme sul margine del fonte ove i delfini reggon la tazza in su le code erette; o forse udrei l'ammonimento grave dei due neri superstiti cipressi ai due lor verdi cipressetti alunni che crescono ove caddero i maggiori percossi dalla folgore di luglio. O forse mi parrebbe, oltre il cespuglio soave, udire l'ànsito del servo alla stanga appaiato col giumento circa la mola cònica di lava; e più de' nudi torsi, e più de' busti e più de' cippi mi sarebbe cara l'ombra delle farfalle su pe' dolii risarciti con piombo dal colono. Settembre, là, sul fianco del bel Trono d'Afrodite, l'aulètride dagli occhi a mandorla e dal seno di cotogna sta, sovrapposta l'una all'altra coscia, adagiata sonando le due tibie con i frammenti dell'esperte dita; e il Re Pastore immoto nel basalte figge all'Eternità gli occhi corrosi. Ronzano l'api ne' silenziosi orti dei bianchi monaci defunti; e nelle celle àbitano gli iddii, làcerano le Menadi la vittima, Anassimandro medita, dal muro svégliasi il carme dei fratelli Arvali. «Enos Lases iuvate». Un'ape or entra, per la chioma di Iulia che l'illude. Nell'àlveo d'un ricciolo si chiude. LO STORMO E IL GREGGE Settembre, teco io sia sul Loricino che fece blandi gli ozii del pretore: in sabbia quasi rosea fluisce scabra di rughe e sparsa di negrore come il palato del mio dolce veltro. Sorvolano le rondini quel vetro lieve cui godon rompere coi bianchi petti: una piuma cade e corre al mare. E di là dalle verdi canne i monti di Cori son cilestri come il mare. Forza del Lazio quanto sei soave! Obliate città dei re vetusti, atrii del Citaredo imperiale, un bel fanciullo vien con le sue capre e regna i lidi, impube re latino! Il suo gregge è di numero divino, nero e bianco a sembianza delle frotte alate che sorvolano il bel rivo, pari olocausto al Giorno ed alla Notte. Quasi fiore l'esigua foce s'apre. Equa ride alle rondini e alle capre. LACUS IUTURNAE Settembre, chiare fresche e dolci l'acque ove il tuo delicato viso miri; e dolce m'è nella memoria il mio natale Aterno in letto d'erbe lente, e l'Amaseno quando muor domato presso l'Appia col fratel suo l'Uffente, e la Cyane ascosa tra i papìri, e la Vella sì cara alla vitalba. E pien di deità dai colli d'Alba lo specchio di Diana ancor mi luce. Ma un'altr'acqua al mio sogno è più divina. Quella m'attingi e ne riempi l'urna. Sotto la roggia mole palatina presso il Tempio di Castore e Polluce, occhio di Roma è il Fonte di Iuturna. Deh mio misterioso amor lontano! Alte sul Fòro nel meridiano silenzio stan le tre colonne parie come d'argento cui salsezza infoschi. Gli elci neri sul colle imperiale sembran ruine dei primevi boschi. Di ferrigno basalte arde la Via Sacra tra gli oleandri giovinetti e i sepolcreti dei Latini prisci. Si tace il Fonte ne' suoi marmi lisci come quando Tarpeia la Vestale vi discendea con l'anfora d'argilla. Tremola il capelvenere sul tufo e sul mattone, l'acqua è glauca, tinge il suo letto lunense; una lucerta su l'ara dei Diòscuri tranquilla gode in grembo alla dea di lunga face. Ombre delle farfalle in quella pace! Poc'acqua accolta, santità dell'Urbe! Le custodi del Fuoco sempiterno scendono alla marmorea piscina? o i Tindàridi rossi di latina strage, per beverare i due cavalli? Deh lauri nuovi! Presso il puteale crescono, nel sacrario di Iuturna. Li veglia la Speranza taciturna. LA LOGGIA Settembre, il tuo minor fratello Aprile fioriva le vestigia di San Marco a Capodistria, quando navigammo il patrio mare cui Trieste addenta co' i forti moli per tenace amore. Capodistria, succiso adriaco fiore! Io vidi nella loggia d'un palagio nidi di balestrucci appesi a travi fosche, tra mazzi penduli di sorbe. Cinericcio era il tempo, umido e dolco. Or laggiù, pel remaggio senza solco, tu certo aduni i neribianchi stormi, e quelli di Pirano e di Parenzo, che si rincontreranno in alto mare con l'altra compagnia che vien di Chioggia. E son deserti i nidi nella loggia, e dei mazzi di sorbe son rimase forse le canne appese pel lor cappio. S'ode nell'ombra quella parlatura che ricorda Rialto e Cannaregio. Una colomba tuba dal bel fregio. LA MUTA Settembre, ora nel pian di Lombardia è già pronta la muta dei segugi, de' bei segugi falbi e maculati dall'orecchie biondette e molli come foglie del fiore di magnolia passe. La muta dei segugi a volpe e a damma or già tracciando va per scope e sterpi. Erta ogni coda in bianca punta splende. Presso il gran ponte sta Sesto Calende. Corre il Ticino tra selvette rare, verso diga di roseo granito corre, spumeggia su la china eguale, come labile tela su telaio cèlere intesta di nevosi fiori. Chiudon le grandi conche antichi ingegni, opere del divino Leonardo. Il sorriso tu sei del pian lombardo, o Ticino, il sorriso onde fu pieno l'artefice che t'ebbe in signoria; e il diè constretto alle sue chiuse donne. Oh radure tra l'oro che rosseggia dello sterpame, tiepide e soavi come grembi di donne desiate, sì che al calcar repugna il cavaliere! Vanno i cani tra l'èriche leggiere con alzate le code e i musi bassi, davanti il capocaccia che gli allena per mezz'ottobre ai lunghi inseguimenti. S'ode chiaro squittire in que' silenzii. Il suon del corno chiama chi si sbanda e chi s'attarda e trae la lingua ed ansa. Già la virtù si mostra del più prode. Il buon maestro dell'arte sua si gode: talor gli ultimi aneliti esalare sembra l'Estate aulenti sotto l'ugne del palafren che nel galoppo falca. E, fornito il lavoro, ei torna al passo per la carraia ingombra di fascine: con la sua muta va verso il canile, va verso Oleggio ricca di filande. Vapora il fiume le sterpose lande. LE CARRUBE Settembre, son mature le carrube. Or tu pel caldo mare di Cilicia conduci dalla riva cipriota la sàica a scafo tondo e a vele quadre. Bonaccia, e nel saffiro non è nube. Germa con sue maggiori quattro vele, garbo o schirazzo, legni levantini carichi di baccelli dolci e bruni conduci verso l'isola dei Sardi. E vien teco un odor di tetro miele. La siliqua, che ingrassa la muletta dall'ambio lene e in carestìa disfama la plebe dalla bianca dentatura, lustra come i capelli tuoi castagni mentre stai su la coffa alla vedetta. Certo, d'olio di sèsamo son unte quelle tue ciocche in forma di corimbi. Certo, ritrovi or tu nel gran dolciore del Mar Cilicio l'obliato carme che alla Cipride piacque in Amatunte. Settembre, teco esser vorremmo ovunque! Il novilunio Novilunio di settembre! Nell'aria lontana il viso della creatura celeste che ha nome Luna, trasparente come la medusa marina, come la brina nell'alba, labile come la neve su l'acqua, la schiuma su la sabbia, pallido come il piacere su l'origliere, pallido s'inclina e smuore e langue con una collana sotto il mento sì chiara che l'oscura: silenzioso viso esangue della creatura celeste che ha nome Luna, cui sotto il mento s'incurva una collana sì chiara che l'offusca, nell'aria lontana ov'ebbe nome Diana tra le ninfe eterne, ov'ebbe nome Selene dalle bianche braccia quando amava quel pastore giovinetto Endimione che tra le bianche braccia dormiva sempre. Novilunio di settembre! Sotto l'ambiguo lume, tra il giorno senza fiamme e la notte senza ombre, il mare, più soave del cielo nel suo volume lento, più molle della nube lattea che la montagna esprime dalle sue mamme delicate, il mare accompagna la melodìa della terra, la melodìa che i flauti dei grilli fan nei campi tranquilli roca assiduamente, la melodìa che le rane fan nelle pantane morte, nel fiume che stagna tra i salci e le canne lutulente, la melodìa che fan tra i vinchi che fan tra i giunchi delle ripe rimote uomini solinghi tessendo le vermene in canestre, con sì lunghi indugi su quelle parole che ritornano sempre. Novilunio di settembre! Tal chiaritate il giorno e la notte commisti sul letto del mare non lieti non tristi effondono ancora, che tu vedi ancora nella sabbia le onde del vento, le orme dei fanciulli, le conche vacue, le alghe argentine, gli ossi delle seppie, le guaine delle carrube, e vedi nella siepe rosseggiar le nude bacche delle rose canine e nel campo la pannocchia dalla barba d'oro lucere, che al plenilunio su l'aia il coro agreste monderà con canti, e nella vigna il grappolo d'oro che già fu sonoro d'api, e nel verziere il fico che dall'ombelico stilla il suo miele, e su la soglia del tugurio biancheggiar la conocchia dell'antica madre che fila, che fila sempre. Novilunio di settembre, dolce come il viso della creatura terrestre che ha nome Ermione, tiepido come le sue chiome, umido come il sorriso della sua bocca umida ancóra della prima uva matura, breve come la sua cintura nel cielo verde come la sua veste! Ha tremato nella sua veste verde che odora ad ogni passo come un cespo ad ogni fiato, ha tremato al primo gelo notturno ella che a mezzo il giorno dormì con la guancia sul braccio curvo e si svegliò con le tempie madide, con imperlato il labbro, nella calura, vermiglia come un'aurora aspersa di calda rugiada e sorridente. E io le dico: «O Ermione, tu hai tremato. Anche agosto, anche agosto andato è per sempre! Guarda il cielo di settembre. Nell'aria lontana il viso della creatura celeste che ha nome Luna, con una collana sotto il mento sì chiara che l'oscura, pallido s'inclina e muore...» Ma dice Ermione, non lieta non triste: «T'inganni. Quella ch'è sì chiara è la falce dell'Estate, è la falce che l'Estate abbandona morendo, è la falce che falciò le ariste e il papavero e il cìano quando fiorìano per la mia corona vincendo in lume il cielo e il sangue; ed è la faccia dell'Estate quella che langue nell'aria lontana, che muore nella sua chiaritate sopra le acque tra il giorno senza fiamme e la notte senza ombre, dopo che tanto l'amammo, dopo che tanto ci piacque; e la sua canzone di foglie di ali di aure di ombre di aromi di silenzii e di acque si tace per sempre; e la melodìa di settembre, che fanno i flauti campestri ed accompagna il mare col suo lento ploro, non s'ode lassù nell'aria lontana ov'ella spira solitaria il suo spirto odorato di alga di résina e di alloro; e l'uomo che s'attarda in tessere vermene già fece del grano mannelle ed or fa canestri per l'uva, con un canto eguale, e tutto è obliato; obliato anche agosto sarà nell'odor del mosto, nel murmure delle api d'oro; per tutto sarà l'oblìo, per tutto sarà l'oblìo; e niuno più saprà quanto sien dolci l'ombre dei voli su le sabbie saline, l'orme degli uccelli nell'argilla dei fiumi, se non io, se non io, se non quella che andrà di là dai fiumi sereni, di là dalle verdi colline, di là dai monti cilestri, se non quella che andrà che andrà lungi per sempre, e non con le tue rondini, o Settembre!» Il commiato L'Alpe di Mommio un pallido velame d'ulivi effonde al cielo di giacinto, come un colle dell'isola di Same o di Zacinto. Il Monte Magno di più cupo argento fascia la sua piramide; il Matanna è porpora e viola come il lento fior della canna. O canneti lungh'essi i fiumicelli di Camaiore, appreso ho il vostro carme. Vedess'io rosseggiare gli albatrelli sul Monte Darme! Dal Capo Corvo ricco di viburni i pini vedess'io della Palmaria che col lutto de' marmi suoi notturni sta solitaria! Potess'io sostenerti nella mano, terra di Luni, come un vaso etrusco! In te amo il divin marmo apuano, l'umile rusco; amo la tua materia prometèa, la sabbia delle tue selve aromali, l'aquila dei tuoi picchi, la ninfea de' tuoi canali. Potesse l'arte mia, da Val di Serchio a Val di Magra e per le Pànie al Vara e al Golfo, tutta stringerti in un cerchio con l'alpe a gara! Troppo è grave al mio cor la dipartenza. Come dal corpo, l'anima si esilia dal marmo che biancheggia tra l'Avenza e la Versilia. Tempo è di morte. In qualche acqua torpente or perisce la dolce carne erbale. Strider non s'ode falce ma si sente odor letale. Dìruta la Ceràgiola rosseggia, là dove Serravezza è co' due fiumi, quasi che fero sangue in ogni scheggia grondi e s'aggrumi. Sta nella cruda nudità rupestre il Gàbberi irto qual ferrato casco. Ecco, e su i carri per le vie maestre passa il falasco. Metuto fu dalla più grande falce nella palude all'ombra del Quiesa, ove raggiato di vermène il salce par chioma accesa tra cannelle di stridulo oro secco, tra pigro sparto di pallor bronzino. Su l'acqua un lampo di smeraldo, e il becco tuffa il piombino. Deh foss'io sopra un burchio per la cuora navigando, e di tifa e di sparganio carico ei fosse, e fóssevi alla prora fitto un bucranio o un nibbio con aperte ali, e vi fosse odore di garofalo nel mucchio per qualche cunzia dalle barbe rosse onde il suo succhio sì caro all'arte dell'aromatario stillasse fra l'erbame, e resupino vi giacessi io mirando il solitario ciel iacintino; e scendessi così, tra l'acqua e il cielo con l'alzaia la Fossa Burlamacca albicando qual prato d'asfodèlo la morta lacca; e traesse il bardotto la sua fune senza canto per l'argine; ed io, corco sul mucchio, mi credessi andare immune di morte all'Orco! Ma cade il vespro, e tempo è d'esulare; e di sogni obliosi in van mi pasco. Su i gravi carri lungo le vie chiare passa il falasco. Sono sì vasti i cumuli spioventi che il timone soperchiano dinnanzi e il giogo cèlano e le corna e i lenti corpi dei manzi, onde sembran di lungi per sé mossi e tra la polve aspetto hanno di strani animali dai gran lanosi dossi, dai ventri immani. In fila vanno verso Pietrasanta, strame ai presepi, ai campi aridi ingrasso. L'un carrettiere vócia e l'altro canta a passo a passo. E tutta la Versilia, ecco, s'indora d'una soavità che il cor dilania. Mai fosti bella, ahimè, come in quest'ora ultima, o Pania! O Tirreno, Mare Infero, s'accende sul tuo specchio l'insonne occhio del Faro; ti veglia e guarda con le sue tremende navi d'acciaro la Città Forte dietro il Caprione sacro agli Itali come ai Greci il Sunio; t'è scheggia della spada d'Orione il novilunio; come sia fatta l'ombra, alla tua pace verseranno lor lacrime le Atlàntidi, ti condurrà l'ignavo Artofilace l'Orse erimàntidi; s'udrà pe' curvi lidi il tuo respiro solo nell'ombra senza mutamento; solo rispecchierai l'immenso giro del firmamento. O Mare, o Alpe, ed io sarò lontano con nel mio cuor la torbida mia cura! Splende la cima del mio cuore umano nell'ode pura. Ode, innanzi ch'io parta per l'esilio, risali il Serchio, ascendi la collina ove l'ultimo figlio di Vergilio, prole divina, quei che intende i linguaggi degli alati, strida di falchi, pianti di colombe, ch'eguale offre il cor candido ai rinati fiori e alle tombe, quei che fiso guatare osò nel cèsio occhio e nel nero l'aquila di Pella e udì nova cantar sul vento etèsio Saffo la bella, il figlio di Vergilio ad un cipresso tacito siede, e non t'aspetta. Vola! Te non reca la femmina d'Eresso, ma va pur sola; ché ben t'accoglierà nella man larga ei che forse era intento al suono alterno dei licci o all'ape o all'alta ora di Barga o al verso eterno. Forse il libro del suo divin parente sarà con lui, su' suoi ginocchi (ei coglie ora il trifoglio aruspice virente di quattro foglie e ne fa segno del volume intonso, dove Tìtiro canta? o dove Enea pe' meati del monte ode il responso della Cumea?). Forse la suora dalle chiome lisce, se i ferri ella abbandoni ora ch'è tardi e chiuda nel forziere il lin che aulisce di spicanardi, sarà con lui, trista perché concilio vide folto di rondini su gronda. E tu gli parla: «Figlio di Vergilio, ecco la fronda. Ospite immacolato, a te mi manda il fratel tuo diletto che si parte. Pel tuo nobile capo una ghirlanda curvò con arte. E chi coronerà oggi l'aedo se non l'aedo re di solitudini? Il crasso Scita ed il fucato Medo la Gloria ha drudi; e, se barbarie genera nel vento nuovi mostri, non più contra l'orrore discende Febo Apollo arco-d'-argento castigatore. Ma tu custode sei delle più pure forme, Ospite. Col polso che non langue il prisco vige nelle tue figure gentile sangue. Gli uomini il tuo pensier nutre ed irradia, come l'ulivo placido produce agli uomini la sua bacca palladia ch'è cibo e luce. Per ciò dal fratel tuo questa fraterna ghirlanda ch'io ti reco messaggera prendi: non pesa: ell'è di fronda eterna ma sì leggera. Fatta è d'un ramo tenue che crebbe tra l'Alpe e il Mare, ov'ebbe il Cuor de' cuori selvaggio rogo e il Buonarroti v'ebbe i suoi furori. L'artefice nel flettere lo stelo vedea sul Sagro le ferite antiche splendere e su l'Altissimo l'anelo peplo di Nike. Altro è il Monte invisibile ch'ei sale e che tu sali per l'opposta balza. Soli e discosti, entrambi una immortale ansia v'incalza. Or dove i cuori prodi hanno promesso di rincontrarsi un dì, se non in cima? Quel dì voi canterete un inno istesso di su la cima». Ode, così gli parla. Ed alla suora, che vedrai di dolcezza lacrimare, dà l'ultimo ch'io colsi in su l'aurora giglio del mare. LIBRO QUARTO MEROPE Così veda tu un giorno il mare latino coprirsi di strage alla tua guerra e per le tue corone piegarsi i tuoi lauri e i tuoi mirti, o Semprerinascente, o fiore di tutte le stirpi, aroma di tutta la terra, Italia, Italia, sacra alla nuova Aurora con l'aratro e la prora! Canto augurale per la nazione eletta [1901] La canzone d'oltremare I miei lauri gettai sotto i tuoi piedi, o Vittoria senz'ali. È giunta l'ora. Tu sorridi alla terra che tu predi. Italia! Dall'ardor che mi divora sorge un canto più fresco del mattino, mentre di te l'esilio si colora. Oggi più alta sei che il tuo destino, più bella sei che la tua veste d'aria; e di lungi il tuo vólto è più divino. Odo nel grido della procellaria l'aquila marzia, e fiuto il Mare Nostro nel vento della landa solitaria. Con tutte le tue prue navigo a ostro, sognando la colonna di Duilio che rostrata farai d'un novo rostro. E nel cuore, oh potenza dell'esilio, il nome tuo m'è giovine e selvaggio come nel grido delle navi d'Ilio. Italia! Italia! Non fu mai tuo maggio, nella città del Fiore e del Leone quando ogni fiato era d'amor messaggio, sì novo come questa tua stagione maravigliosa in cui per te si canta con la bocca rotonda del cannone. Questa è per te la primavera santa che - dice il dio - «d'ogni semenza è piena e frutto ha in sé che di là non si schianta». Oggi nova tu sei per ogni vena sopra l'oblìo dell'onta; e nelle Sirti ucciderai l'ultima tua sirena. Come vivremo, o bella, per servirti? come morremo, o fior delle contrade, perché tu c'inghirlandi de' tuoi mirti? Del miglior sangue fa le tue rugiade e serba la promessa d'Oriente, se il paradiso è all'ombra delle spade. Siamo cinti d'oblìo. Siamo una gente fresca e spedita, immemore dei giorni squallidi, paziente e impaziente, immemore dei sonni e degli scorni quand'ella mendicava il suo preconio dal ciompo, tempestando il pan ne' forni, e la pace era femmina da conio che per ruffian s'avea qualche Bonturo e un Zanche per mezzano al mercimonio. Giorni senz'alba, il rullo del tamburo, lo squillo della tromba, e questa sorte che turbina alle soglie del futuro, vi disperdono. Tuonano sì forte le volontà, che nella rossa aurora non s'ode il crollo delle cose morte. Ecco il giorno, ecco il giorno della prora e dell'aratro, il giorno dello sprone e del vomere. O uomini, ecco l'ora. È venuta col rombo del tifone pel Mar Mediterraneo, più fiera che l'astro su la spalla d'Orione, più colorata che la messaggera della Celeste. E al grido «Issa! Issa!» già tutta l'aria è sola una bandiera. Emerge dalle sacre acque di Lissa un capo e dalla bocca esangue scaglia «Ricòrdati! Ricòrdati!» e s'abissa. E il Mar Mediterraneo, che vaglia le stirpi alla potenza ed alla gloria, in ogni flutto freme la battaglia. «Ch'io mi discalzi» dice la Vittoria, simile a grande mietitrice albana, fosca sotto la fronda imperatoria «Ch'io mi discalzi presso la fiumana di Rumia bella, dove il suo meandro nutre l'olivo a Pallade romana. Ch'io pieghi e chiuda un ramo d'oleandro in Lebda, nella cuna di colui che suggellò la tomba d'Alessandro. Ch'io m'abbeveri là dove già fui, non per l'umide argille alla caverna onde il Lete discende i regni bui, ma per l'aride sabbie alla cisterna di Roma, che nell'ombra una silente linfa conserva e una memoria eterna. Con me, con me verso il Deserto ardente, con me verso il Deserto senza sfingi, che aspetta l'orma il solco e la semente; con me, stirpe ferace che t'accingi nova a riprofondar la traccia antica in cui te stessa ed il tuo fato attingi, con me là dove chi combatte abbica, perché nella corona io ti connetta la foglia della quercia con la spica! Se tu mi veda oggi nell'armi eretta sopra la prua, tu mi vedrai domani da presso curva al suolo che t'aspetta, quando pacata come i Decumani acerrimi, con nude ambe le braccia, tu rempierai di semi le tue mani. Troppo vegliai, avverso la minaccia del sonno e della febbre, in Ostia morta, volta al limo del Tevere la faccia, tra gli stipiti alzati della Porta Marina dove a vespero s'aduna luce fatale dalle pietre assorta, io sola con l'anelito, se alcuna ombra d'iddio scorgessi o udissi entrare nella foce la Nave e la Fortuna. Ah, se tanto vegliai sul limitare terribile, ch'io dorma un sonno lene e breve, sotto l'Arco d'oltremare! Ch'io sogni il greco sogno di Cirene, sotto l'Arco del savio Imperatore sgombro della barbarie e delle arene, schiuso al Trionfo, mentre dalle prore splende la pace in Tripoli latina, recando i dromedarii un sacro odore. O incenso del Deserto alla marina, profumo delle incognite contrade fulvo come la giubba leonina; aròmati e metalli, armenti e biade, e Berenice dalla chioma d'oro! Il paradiso è all'ombra delle spade. La palma è la sorella dell'alloro.» Dice la grande Vergine che squilla simile a Clio nel grande aonio coro. E per noi dalla libica Sibilla, sotto il cielo voltato dal Titano, la sentenza di Dio si disigilla. Preparate l'aratro cristiano, preparate la falce per la mèsse, il frantoio e la macina al Soldano, l'ascia il piccone e il palo ch'ei dilesse, i gran magli e le macchine forbite simili a moltitudini indefesse; i forni vasti come le meschite pel ferro dissepolto, le magone ov'aspro strida nell'assidua lite; le fornaci per cuocere il mattone dei costruttori, in cui porrem l'impronta che piacque a Nerva: Roma col timone. Ogni tristezza dietro a noi tramonta. Chi latra ancóra nella lorda fossa, quando il fato con l'anima s'affronta? Italia, alla riscossa, alla riscossa! Ricanta la canzone d'oltremare come tu sai, con tutta la tua possa, come quando sorgeva sopra il mare in sangue e in fuoco un sol clamor selvaggio «Arremba! Arremba!» e ne tremava il mare, scrosciando la galèa, preso il vantaggio e infisso il cuor del capitano al rostro, con le vele e coi remi all'arrembaggio. «Dienai', Dienai' e 'l Signor nostro! Dienai', Dienai' e 'l San Sepolcro!» cantava la galèa sul Mare Nostro. Nel croscio de' tuoi secoli io t'ascolto. «Dienai', Die n'aìti in mare e in terra!» Alza nel grido il tuo raggiato vólto, e in terra e in mare tieni la tua guerra. La canzone del sangue In Cristo Re o Genova, t'invoco. Avvampi. Odo il tuo Cìntraco, nel caldo vento, gridarti che tu guardi il fuoco. Non Spinola né Fiesco né Grimaldo trae con la stipa. Il sangue del Signore bulica nella tazza di smeraldo. S'invermiglia a miracolo d'ardore il tuo bel San Lorenzo, come quando tornò di Cesarèa l'espugnatore. Tornò Guglielmo Embrìaco recando ai consoli giurati, in sul cuscino, tra la sesta e il bastone di comando, tra la coltella e il regolo, il catino ove Giuseppe e Nicodemo accolto aveano il sangue dell'Amor divino. Era desso, l'Embrìaco, figliuolto, quei che fece al Buglione il battifredo onde il vóto santissimo fu sciolto. Con le mani che diedero a Goffredo la scala invitta, sopra il popol misto levò la tazza. E il popol disse: «Credo». E ribolliva il sangue ad ogni acquisto di Terrasanta; e n'eri tutta rossa, il popolo gridando: «Cristo, Cristo! Cristo ne preste grazia che si possa andar di bene in meglio». E la Compagna incastellava cocca e galèa grossa. Così tu veleggiasti alla seccagna di Tripoli, con uno de' tuoi Doria buon predatore, o Genova grifagna; ché padroni e nocchieri di Portoria e di Prè, stanchi d'oziare a bordo, tentarono l'impresa per galloria. Ed era un vile tirannello ingordo quivi, nato d'un fabbro saracino; e l'ebbero per palio in sul bigordo. Ogni roba condussero a bottino, ogni uom prigione. E pieno di tesoro fu l'ammiraglio quanto il pilotino. La terra spoglia come piacque a loro poi la vollero vendere a vergogna. per cinquanta e più milia doble d'oro. Poi cattarono altrove altra bisogna; e stettero tre mesi in su la guerra per le marine della Catalogna. O Genova, ma non l'istessa terra presa dalle tue quindici galere è quella ch'oggi il nostro acciaro serra; né di preda in pecunia ed in avere sottile, se il sangiacco dà la volta come l'altro, sarem noi per godere; né, quando bene glie l'avrem ritolta, a quetare i tribuni dell'Erario la venderemo noi un'altra volta. Odimi, pel sepolcro solitario del tuo Lamba colcato in San Matteo lungi al figlio che s'ebbe altro sudario; pel fonte del tuo picciol Battisteo donde al mare t'escì la grande schiatta sperta di mille vie come Odiseo, di mille astuzie aguta, assuefatta ai mali, contra i rischi pronta, a scotta tesa, a voga arrancata, a spada tratta, ìmproba e col gabbano e con la cotta, usa il giaco fasciar di mal entragno come di cuoia crude la barbotta, indomita a periglio ed a guadagno, or tutt'ala di remi al folle volo, or piantata nel sodo col calcagno; odimi, Mercatante, dal tuo molo, Guerriera, dal naval tuo sepolcreto, Auspice, dal tuo scoglio ignudo e solo, per l'ombra di quel semplice Assereto che, distolto da rògito o caparra e posto sopra il cassero, l'abeto trattò meglio che il calamo, la barra di battaglia assai meglio che il sigillo, contra il fior d'Aragona e di Navarra, vincitore di re su mar tranquillo, con gli infanti coi duchi e coi gran mastri aggiugnendo al trionfo un codicillo; odimi, Ascia di Dio. Se sotto gli astri d'un'altra state, tutti i tuoi rosai aulendo ne' tuoi chini orti salmastri, tal si partì coi rossi marinai, con l'Amore e la Morte, del fraterno stuolo facendo un spirito, e giammai volse il bel capo verso il lido eterno, dubitoso di perdere Euridice che dietro sé traeva dall'Inferno; se t'ebbe inconsapevole nutrice l'esule smorto, tutto fronte e sguardo, il fuoruscito senza Beatrice, quegli che nel crepuscolo infingardo eresse il suo dolore come un rogo, il suo pensiero come uno stendardo, e nella carne stracca sotto il giogo il soffio ansò di quella terza vita ch'or freme ferve splende in ogni luogo, con te sì presso all'opera fornita è quel dèmone vindice che forma il suo mondo nell'anima infinita. Ben a tal piaggia, ove non è che l'orma dell'Immortale, o Madre delle Navi, ieri approdò la nostra prima torma. Non all'antica terra che forzavi con la balestra e col montone, dura in mettere a bottino, in trarre schiavi; ma alla terra che chiamano futura i messaggeri, alla terra dei figli, alla terra dell'Aquila futura. Come di tra i riversi orli vermigli delle pàlpebre gli occhi del piloto s'aguzzavano sotto i sopraccigli! Ché divinava egli per entro al vòto gorgo dell'aria un che di virginale e di sublime, quasi monte ignoto, simile al nudo culmine ove sale lo spirito, ov'edifica imminente lo spirito la grande arce spirtale. E chiuse, per veder profondamente, e chiuse egli le pàlpebre infiammate su le pupille insonni; e fu veggente. Per ciò, serva del Ciel, per ciò, primate del Mare santo, la Reliquia vedo ardere ed arrossar le tue navate. Con le mani che diedero a Goffredo la scala invitta, il rude espugnatore levò la tazza. E il popol disse: «Credo». O parola novissima d'amore, trascorri in nembo tutto l'Apennino e fa crosciar le selve al tuo clangore! Ecco il vaso di vita, ecco il catino ove Gesù nel vespero pasquale ai Dodici versò l'ultimo vino, e lor disse: «Quest'è il mio sangue; il quale è il sangue del novel patto, ed è sparso per molti». E s'indiava sopra il male. Quando clamò «Eloi!» dal cor riarso, nell'ora nona, un uom d'Arimatea venne; e in quel vaso accolse il sangue sparso. Quindi per alta grazia un'assemblea di Puri s'ebbe lo smeraldo sculto in custodia; e di loro il mondo ardea. Pari l'ebrezza del convito occulto era ad una immortalità precoce, ed il trapasso era un divino indulto. L'anima era visibile; la croce era senz'ombra; il pianto era rugiada; il silenzio era un inno senza voce. L'avversario era in capo d'ogni strada; la battaglia era un serto di faville; la giustizia era l'occhio della spada. Il futuro era un carme di sibille come di tessitrici glorianti; e la gloria era d'uno contro mille. O Mistero del Sangue! I duomi santi crollarono in un vespero, i templari furon sepolti sotto i marmi infranti. E un'orda venne, che coi limitari divelti, col rottame dei lavacri perfetti, con le mense degli altari, con le schegge dei grandi simulacri costrusse le sue case. Ed il porcile era murato di frammenti sacri. Ma i bianchi Astori lungi all'orda vile avean rapito il segno del reame. Odimi tu, latin sangue gentile! Odimi; ché di te sotto il velame io dico, e del miracolo repente onde un spirito fai di tanto ossame. Quale improvviso nella notte ardente di Cesarèa l'Embrìaco la tazza di salute rinvenne alla sua gente e, quella pósta su la galeazza come il palladio fu su la trireme, ricelebrò la gloria della razza, tal forse un genio indìgete del seme d'Enea ritorna a noi col divin segno dallo splendore delle sabbie estreme. Tra le palme invisibili arde il pegno del novo patto. Innanzi ch'Ei si sveli giura fede al Signor del novo regno, Italia, per gli aperti tuoi vangeli, e per la grande imagine che invoco, e per la gesta che t'allarga i cieli! «Chi stenderà la mano sopra il fuoco?» grida il Signore ai primi eroi comparsi «Chi stenderà la mano sopra il fuoco avrà quel fuoco per incoronarsi.» La canzone del Sacramento INTROIBO AD ALTARE DEI. Sul cassero era fitto un pavese quadro in otto battagliòle forcute, e v'era un assero di timone per grado, e paliotto un panno di bastita era, tovaglia era ferzo di trevo o marabotto; e quivi con un càmice di maglia l'asta di croce in pugno avea l'accolito. Sì fatto era l'altare di battaglia. E fu silenzio ed isplendore insolito su tutto il mare, al segno del Primate. E tutte le galèe stavano in giolito, con le pale fuor d'acqua affrenellate su la bonaccia. E il giorno di San Sisto era per i Pisani, a mezza state. Tenean quelli di Genova il sinistro corno con navi e saettìe, l'opposto le genti di Campania unite in Cristo. Rosse le prore come tinte in mosto avea Salerno, d'indaco Gaeta, d'oro Amalfi alla Vergine d'agosto; ché que' mercanti a battere moneta intendevano sol per far naviglio e cambiavano in gómene la seta. KYRIE, ELEISOS. Il bianco ed il vermiglio ondeggiavan con l'Aquila pisana che già temprato in Bona avea l'artiglio; e la Rosa dei vènti amalfitana, già fatta croce irsuta d'otto punte, si consecrava presso la campana. CHRISTE ELEISON. Ché s'erano congiunte nel lor Signore le città tirrene la prima volta a lega; avevan unte di novo spalmo a caldo le carene per la lega, cresciuto il palamento, rinforzato il cordame e le catene, ai lor Vescovi dato sacramento di riscattare dal predone immondo le tolte navi, il cristiano armento; e parea quivi il comun corpo al mondo latino annunziar le sante imprese, prima che si crociasse Boemondo. KYRIE, ELEISON. Le guardie del calcese trasognando vedean nell'acqua i bianchi marmi fiorir delle lor dolci chiese. Tutti in corazza i rematori franchi, allacciati i giglioni coi frenelli, pregavano a ginocchi sopra i banchi; ma i prodieri, di sotto i lor cappelli di cuoio, con un piede alla pedagna, guatavano la costa pei portelli. AGNUS DEI. E per tutta la compagna fremito corse; ché, splendor d'Iddio, splendé nella raggiera l'Ostia magna. E i prossimi gridarono: «Te, Dio, lodiamo, Te, Signore, confessiamo!». Ed anelavan di ricever Dio nella specie del Pane. «Te lodiamo, Te confessiamo, unico Iddio vivente. Del corpo di Gesù comunichiamo. Dacci il Pane dei forti!» E incontanente s'apprese la divina bramosia, corse di poppa in prua, di gente in gente. E il Vescovo rispose: «Così sia». E per tutto il naviglio fu gran serra al grido: «Eucaristia! Eucaristia!». Ed era il grido della santa guerra. Poi fu silenzio. Il rugghio d'un leone udito fu venire dalla terra. E dal cassero come dall'ambone il Vescovo parlò: «Fratelli in Dio, udite, udite il rugghio del leone!». E sopra la coverta un balenìo passò, dalle garitte alle rembate; le carte del Vangelo sul leggìo si volsero, le lunghe fiamme issate garrirono, stridé l'alberatura carica delle vele ammainate; ché si levava il vento di Gallura per i Pisani. E il console Uguccione dietro il Vescovo apparve in armatura. E il Vescovo parlò: «Egli è il leone di Ieronimo, o quel che pien di miele fu rinvenuto in Timna da Sansone, o quel che nella fossa Daniele mansuefece, ond'egli disse al re: «L'Iddio mio mandò l'Angelo fedele il qual compresse le fauci, talché non m'hanno guasto». E sì voi confidate, ché molta in cielo è la vostra mercé, e l'Angelo di Dio dalle rembate vi guarda, e su dal gorgo i vostri morti risalgono perché vi ricordiate, perché più non isforzi ai vostri porti le catene il feroce rubatore». Gridaron tutti: «Dacci il Pan dei forti!». E, come fu sedato il gran clamore, tanto crebbe la romba dei ruggiti per quelle rupi rogge dall'ardore, che parve avesser chiuso i re ziriti quivi l'intiera possa del Deserto a difendere i culmini turriti. Sorgevano le sette torri in serto sopra il ciglione, e la muraglia spessa le collegava; e il fosso era coperto dal barbacane; e sola era lungh'essa la muraglia una porta verso terra, ché la cerchia marina era inaccessa. Ismisurata macchina di guerra, la nemica città feriva il cielo mentre il suo cor parea ruggir sotterra. «O Cristiani, in duomo pel Vangelo voi giuraste, toccata la scrittura, per le Reliquie sante, per il velo di Nostra Donna e per la sua cintura, pei vostri fuochi e per le vostre fonti, e per la culla e per la sepoltura!» Miravano i Pisani Ugo Visconti ch'era il lor fiore, e rivedeano corca la dolce Pisa in ripa d'Arno ai ponti, e dove la fiumana si biforca l'orme di Piero, e alzata in pietre conce la preda di Palermo e di Maiorca. Misurar si sognavano a bigonce i Genovesi e il console Gandolfo l'oro ch'avean pesato a once a once. Quei di Salerno il lor lunato golfo, gli archi normanni, tutta bronzo e argento la porta di Guïsa e di Landolfo aveansi in cuore, e l'arte e l'ardimento onde tolse lo scettro ad Alberada Sigilgaita dal quadrato mento. Ma quei d'Amalfi, cui la lunga spada era misura, a patria più lontana andavano; ché già s'avean contrada e forno e bagno e fondaco e fontana per tutto, e Mauro Còmite dal Greco mattava il Doge al libro di dogana. «Fratelli in Cristo, dietro il muro bieco a mille a mille anime battezzate penano; e solo il pianto hanno con seco. Non vi croscia nel cor, se l'ascoltate? Sono i fanciulli, sono i vecchi, gli avi e i padri, son le donne violate, schiavi alla mola, schiavi al remo, schiavi al carico, sepolti nelle gune del grano come in cemeterii cavi, muffi nelle cisterne e nelle mude, riarsi dalla sete e dalla fame, rotti dalla catena e dalla fune. Bevono pianto, màsticano strame. Vivi non sono più né sono morti. Sono un cieco dolore in un carname. Se non vincete, ecco le vostre sorti, fratelli in Cristo.» E il tuono fu sul mare. «Allarme! Allarme! Dacci il Pan dei forti!» E l'Ostia sfolgorava su l'altare a tutti i marinai come la spera del sole. E Dio ricamminò sul mare. Ed issò lo stendardo ogni galera; e volse d'Occidente ad Oriente con le mani velate la raggiera il Vescovo, e dal petto suo potente AGNUS DEI QUI TOLLIS PECCATA MUNDI clamò tre volte sopra la sua gente. Ed Uguccione e i consoli congiunti in Cristo e tutta la capitanìa AGNUS DEI QUI TOLLIS PECCATA MUNDI conclamarono. E lungo la corsia e nelle balestriere e su i castelli risposero gli armati: «Eucaristia!». E i vogavanti sciolsero i frenelli, al sìbilo dei còmiti; e due vanni il legno fu dai cento suoi portelli. «La croce a poppa, messer San Giovanni a prua, la Vergin Donna Nostra in vetta all'albero di mezzo: e Dio li danni!» Gridavano i prostrati «Affretta! Affretta!» vedendo i lor adusti cappellani frangere a gara l'Ostia benedetta. E alfine s'ebber l'Ostia nelle mani essi i prostrati; assolti l'ebber tocca i feditori con le dure mani indurite alla lieva ed alla cocca, e la fransero e diedero ai compagni; e ricevuta fu di bocca in bocca. E l'un l'altro pregava: «Sì la fragni che basti a me, che basti anco a fratelmo!». E tremavagli il fondo degli entragni, ché non bastava. Allora nello schelmo saltò quell'uno, armato; si scoperse il capo, empié d'acqua marina l'elmo; e l'alzò, come calice l'offerse gridando: «Valga a noi per sacramento, o Vescovo di Cristo!». E quei converse in ispecie divina l'elemento indomito, col segno, dall'altare gridando: «Valga a voi per sacramento». E si comunicarono del mare sol con quel segno i fanti: ginocchioni contra i pavesi, udìan Màdia rugghiare. Poi forzaron le rupi ed i leoni. La canzone dei trofei O Pisa, or tu sei vedova del mare, che stavi notte e dì per tener fronte in Tersanaia a fare, a racconciare, quando un bando di Chìnzica o di Ponte valeva a trarre in corso dai sessanta scali ben unti le galere pronte! Pende dal muro la catena infranta nel chiostro dove Andrea pinse Rinieri e i tuoi morti fiorìan la terra santa. La Porta a Mare è triste. Ma pur ieri nel tuo Vescovo il cor di Daiberto balzò, verso i trofei de' Cavalieri. O Salerno, nel duomo dove offerto ti fu da Gian di Procita l'avorio e l'oro sovra i marmi di Ruberto, nell'ombra dove il settimo Gregorio grandeggia, non fanal di capitana, non stendardo d'emiro pel mortorio, non insegna, non spoglia musulmana hai, che tu orni in nome de' tuoi grandi al tuo giovine eroe la coltre vana? Non egli è su la bara che inghirlandi; ma tu lo vedi, quasi fosse apparso. E lo chiami per nome e l'addimandi. Verginità del primo sangue sparso! Ne bevano le sabbie un più gran flutto; ma pur quel primo che sembrò sì scarso risplenderà sul giubilo e sul lutto più vermiglio e più fervido a Colei che sa pianger gli eroi con viso asciutto. O Gaeta, se in Sant'Erasmo sei a pregar pe' tuoi morti, riconosci il Vessillo di Pio ne' tuoi trofei, toglilo alla custodia perché scrosci come al vento di Lepanto tra i dardi d'Ali, mentre sul molo tristi e flosci sbarcano i prigionieri che tu guardi e che non puoi mettere al remo. O Cagliari, i quattrocento archibusieri sardi, che Don Giovanni d'Austria alla battaglia sotto il Vessillo nella sua Reale s'ebbe per incrollabile muraglia, hanno veduto verso il mare australe ardere il fuoco sopra Teulada e nella sera accorrono al segnale; ché vien pel mare d'Africa e dirada l'ombra con la bellezza della morte un che fu degno della lor masnada. Egli ha per buon compagno, o Carloforte che il ferro e il fuoco sai del predatore e la sferza e la stanga e le ritorte, un de' tuoi figli che nel suo furore se ne sovvenne e, per i mille schiavi di quel settembre, ebbe di mille il cuore. Marinai, marinai, sopra le navi e dentro le trincere, a bordo e a terra, in ogni rischio e con ogni arme bravi, fatti dalla tempesta per la guerra, nel silenzio mirabili e nel grido, infaticati sempre, a bordo e a terra, di voi s'irraggi e palpiti ogni lido d'Italia mentre per la mia più grande Italia qui la vostra gloria incido. Non le piagge che adorna di ghirlande amare il flutto ove le sue melodi Undulna dea dal piè d'argento scande, ma oggi loderò con le mie lodi l'acqua oleosa lungo le banchine sonanti per gli imbarchi e per gli approdi, l'acqua opaca ove colan le sentine e nuotano i tritumi del carbone, le fecce dei cavalli, le farine delle sacca sventrate, il bariglione rotto, la buccia putrida, la lorda schiuma che ingialla il piede del pilone, mentre alla gru che cigolando assorda l'aria imbracato il bove da macello pencola come botte che sciaborda. Canto l'acqua dei porti. Odo l'appello rude, il commiato, il grido. I reggimenti partono. Ogni uomo armato è il mio fratello. Veggo gli occhi brillare, veggo i denti rilucere. Odo il lastrico del molo rombar sotto la marcia. Sono ardenti i vólti come se li ardesse un solo riverbero, o il sorriso d'una sola madre, di quella grande. Ogni figliuolo oggi ha sol quella, e in cuore la parola che alfine irruppe dalla bocca forte. Guerra! È il croscio dell'Aquila che vola. Guerra! Una gente balza dalla morte, s'arma, s'assolve nell'eucaristia del mare, e salpa verso la sua sorte. Non più si volge indietro. Guerra! Sia per giorni, sia per mesi, sia per anni ella combatterà nella sua via. Canto la libertà. Quali tiranni furono uccisi? quali mostri vinti? Qual forza li atterrò? di quanti inganni, di che frodi senili erano cinti? Chi diede al falso tempio il grande crollo? Le colonne piegarono su i plinti. Il precone stampato fu col bollo rovente nella palma della mano e nel dosso restìo, sino al midollo. Strascicandosi contra l'uragano gioioso che lo tratta come balla di cenci, or vocia nella piazza in vano. E marchiatelo ancóra su la spalla e su la fronte! Poi gli sia concessa la buona greppia nella buona stalla. Altra parola è data, altra promessa. Canto il domani e canto la canzone dei secoli; ché l'anima è trasmessa. A mira di balestra o di cannone l'occhio è ben quello, che non batte ciglio. Dritto è il silùro come lo sperone. Canto la forza antica e nova, figlio d'una carne vivente e d'infinita progenie. O tu che m'odi, io ti somiglio. Ma il balestriere, chino alla bastita o alzato sul carroccio, anco in me vive. L'anima eterna è il vaso della vita. Canto le stive, le profonde stive piene d'armi, di viveri, di tende, di bottame; le maestranze attive su i ponti apparecchiati ove risplende forbito ogni metallo. I battaglioni giungono. Il cielo è prode, con vicende di nubi e di chiarìe, con padiglioni immensi, con falangi impetuose. E tutta la città par che si doni. E diffuso è l'amore su le cose come un ciel più vicino, simigliante al vólto delle madri coraggiose. Non sul vólto, nell'anima son piante le lacrime divine e trionfali, mentre il silenzio fa le labbra sante. Gloria della città! Passano l'ali ripiegate dell'uomo, i grandi ordegni di Dedalo, le macchine campali fatte di tesa canape e di legni lievi, che porteran l'uomo e l'atroce sua folgore su i fragili sostegni. E le gole d'acciaio senza voce passano, che laggiù nel lor linguaggio conciso parleranno, dal veloce affusto tratte al ciglio del villaggio, lungo il palmeto, sopra le trincere, davanti ai pozzi. Romba il carriaggio su la selce. Seduto è l'artigliere sul cofano. Conduce a coppia a coppia i cavalli gagliardi il cavaliere. L'applauso scroscia, un gran clamore scoppia. Repente il sole batte su la faccia giovenile, sul pezzo, su la doppia groppa. E l'affusto trascinato a braccia nella sabbia ove il mare s'impantana vedo! Chi mai cancellerà la traccia dentro le dune della Giuliana? Il vento, il flutto, l'uomo, il tempo? È immota. Gloria a te, batteria siciliana! Canto il selvaggio anelito, la gota che gronda, il lungo sforzo a testa bassa, i polsi tra le razze della rota, le spalle che sollevano la cassa e la portano, l'ordine del fuoco, la mira, il primo colpo nella massa nemica, il suolo raso, l'urlo roco delle strozze riarse ad ogni schiera abbattuta, l'allegro ardor del gioco; o Ameglio, e il ferro freddo; e la bandiera tua vecchia, o Quarto Reggimento, issata su la Berca nel soffio della sera. Canto la Morte, alata e illuminata come la prima legge della luce. La vita è meno fertile. È rinata da lei l'alta bellezza. Ella produce le semenze che noi nella ruina seminerem cantando. Ella conduce le Muse, conduttrice più divina d'Apollo. Non ha tombe ma trofei. È tutt'avvolta d'aria mattutina come la messaggera degli dei. I più giovini eroi sono i suoi gigli. O Gloria, ed ella è là dove tu sei. O Primavera, e tu le rassomigli. Mentre che soffia il vento del Deserto, ella infiamma gli anemoni vermigli. Canto la Gloria cerula, dal serto alternato di rostri e di muraglie, che ride se il combattimento è incerto. Immune dall'orror delle battaglie, è bella come Roma nel suo trono e Siracusa nelle sue medaglie. Come sul mar risponde il tuono al tuono, il presente al passato in lei risponde; e la mia corda duplice è il suo dono. Conculcate le stirpi moribonde ella fa dell'Italia dai tre mari la grande Patria dalle quattro sponde. Quando nei nostri porti gli alti fari s'accendono, ella sfolgora da ostro sola nelle foschie crepuscolari. E, vòlto verso lei notturna, il nostro sogno ansioso vigila il mattino. E il mattino per noi sorge da ostro. Sorge con uno strepito marino, tra le grida gioiose dei messaggi che gridano il gentil sangue latino: gridano i reggimenti e gli equipaggi, gridano i morti, gridano i feriti le vittorie da' bei nomi selvaggi, gli eroi dai nomi oscuri ingigantiti. Bu-Meliana, Sidi-Messri, Sciara- Sciat, Henni! Par che al lauro si mariti la palma. Tutta l'oasi è un'ara fumante. Verri, Granafei, Briona, Orst, Bertasso, Gangitano, Fara, Moccagatta, Spinelli! Un nome suona la morte, l'altro la vita. E la morte e la vita son come una corona sola composta di due fronde attorte. Severo dal suo grande Arco sorride: il battaglione è come la coorte. Foss'io come colui che i nomi incide col ferro aguzzo nella nuda stele ad eternar la gesta ch'egli vide! O Roma, almen quello del tuo fedele inciderò nel fulvo travertino, e il tuo modo: «Coi remi e con le vele». O Roma, e mentre al giovine Latino «Velis remisque» nella pietra intaglio, scorgo l'Ombra del grande suo vicino. Guarda la fresca tomba l'Ammiraglio, quegli che fece co' suoi nervi soli a San Giorgio di Lissa il suo travaglio. «Gittai buon seme» ei dice. Si consoli per quell'Ombra e s'inebrii del suo pianto la madre di Riccardo Grazioli. E tu resta, o Canzone, in camposanto. Annotta. Sta fra l'una e l'altra tomba; e veglia, incoronata d'amaranto. Alla diana sonerai la tromba. La canzone della Diana Tutti i cipressi fremono. O Canzone, squilla! I corvi dall'arco tiburtino s'alzano andando verso il Teverone. Altrove è l'alba. Un pascolo marino è l'Agro. L'Urbe è un'isola. Si spande la più gran luce sopra l'Aventino, verso la Porta d'Ostia, in sette bande. Nell'ombra del Gianicolo tre vele rosse rimontan verso Ripa Grande. Sul Mausoleo l'Arcangelo Michele sfolgora. Ritto sta su l'altra mole a cavallo il secondo Emanuele. Ninfa perenne dalle mille gole l'acqua canta le origini del Lazio. Niuna cosa mai tu veda, o Sole, maggior di Roma! Il numero d'Orazio a quando a quando par, tra l'Arce e il Fòro, riecheggiato nel divino spazio. Pieno di nume è l'aere sonoro. Tronca la quercia un dio sul Celio? taglia un eroe sul Gianicolo l'alloro? Riarde ai Quattro Vènti la battaglia sublime? ancóra fumiga il Vascello? ancóra il sangue bulica e s'accaglia? ancóra ai giovinetti ebri il mantello bianco del condottiere è l'ala intatta della Vittoria? il Dandolo l'appello ultimo fa su la scalea scarlatta ove sopra i cadaveri il cavallo del gran Masina dà l'ultima stratta? Irto di furia è il muto piedestallo. I bersaglieri di Lucian Manara disperati empion d'animo il metallo. Laggiù, guatano il ciel che si rischiara dietro il muro di fango, nel palmeto, i bersaglieri di Gustavo Fara. Laggiù, sotto la cupola che sgretola, arde l'araba lampada al bivacco e la vedetta sta sul minareto. Pietro Ari laggiù tra sacco e sacco spia l'Oasi, con l'occhio a mira certa, tranquillo masticando il suo tabacco. I mozzi, come fossero in coverta, stanno alla guardia della batteria sopra il sabbione; e l'un per gioco «Allerta a proda!» grida. E vien dalla Menscìa, con l'afa dei cadaveri, odor d'erbe arse nel vento, odore di gaggìa. Poggiato al pezzo il morituro imberbe, che morderà la sabbia, i denti bianchi ficca nel pane e nelle frutta acerbe. Odesi il canto dei soldati stanchi che scavan le trincere nelle tombe dei Caramanli. Il canto li rinfranchi. S'ode nel cielo un sibilo di frombe. Passa nel cielo un pallido avvoltoio. Giulio Gavotti porta le sue bombe. Laggiù, presso la mola d'un frantoio o presso i tronchi d'un'antica noria onde pendon consunti e corda e cuoio, sorride un morto all'invisibil gloria. Il paradiso è all'ombra delle spade e la delizia è il fior della vittoria. Ulula per i campi senza biade il duolo delle donne beduine alterno, ed or s'inalza ed ora cade. All'ombra d'una palma, sul confine dell'Oasi, una croce rude è fitta in un tumulo cinto dalle spine. Nome inciso non v'è, non lode inscritta: altro segno non v'è se non l'eterno. Sola una nudità vi splende invitta. Un dal tuo più profondo sen materno escito, Italia, un figlio tuo vi dorme; che s'ebbe anch'egli forse il pianto alterno là nell'isola dove l'ombra enorme del Passato covar sembra il nuraghe perché ne sorga un popolo conforme. Non la madre mortal toccò le piaghe, né le lavò, né le lasciò di bende, già consunta dall'ansie sue presaghe. Ma tu guardasti le ferite orrende e componesti il corpo in quel sepolcro. Sola una invitta nudità vi splende. E la terra fu tua per quel sepolcro, tutta la terra inclusa tra la Sirte e il Deserto fu tua per quel sepolcro! Canto l'azzurro e l'oro della Sirte, l'azzurro che nel grande oro s'insena, ove non dagli scogli ma dall'irte navi con l'urlo lungo la sirena lacera l'aria pregna dell'aroma che inebria i prodi; e bianca su l'arena Tripoli infida cui la guerra schioma come femmina presa per le trecce dalle pugna del maschio che la doma. Le sue palme schiantate, le sue brecce fumide canto; canto i suoi villaggi rasi che brucian come in luglio secce di Maremma, onde fiutano i selvaggi poledri il dubbio odore dalle chiatte ben costrutte e nitriscono ai foraggi salini che pascean lungo le fratte di tamerici, presso i sepolcreti sonori dove il mare etrusco batte. O terra di sepolcri e di forteti, Maremma, canto la tua razza equina, la ben crinita razza che disseti nel sarcofago tolto alla ruina di Saturnia o di Volci e che rinfreschi con un germoglio roscido di brina. Salute, o terra degli Aldobrandeschi! Pioggia e sole ai tuoi bradi la criniera, come l'ocra e la robbia ai barbereschi, arrossano finché di primavera tu non li marchi all'anca e alla ganascia per arrolarli sotto la bandiera. La chiatta a fondo stagno il mastro d'ascia chioda, coi sacchi d'aria e con le botti l'aiuta, con i canapi la fascia. I cavalli s'impennano, condotti alla gru; cinti dell'imbraca, appesi al paranco, paventano. Interrotti sibili, canti di fatica ai tesi canapi, voci di comando, liti di battellieri, gergo di Maltesi, schianti d'assi e di tavole, nitriti e scàlpiti nel vento che ridonda, sudore e schiuma, urti d'abbordo, attriti di ferramenta; e tutta l'aria è bionda come su Talamone; ed agli approdi i maremmani giungono con l'onda. Maremma, canto i tuoi cavalli prodi. Tra sangue e fuoco ecco un galoppo come un nembo. E la cavalleria di Lodi, la schiera della morte. So il tuo nome, o buon cavalleggere Mario Sola. Giovanni Redaelli, so il tuo nome; Agide Ghezzi, e il tuo. "Lodi" s'immola. E veggo i vostri visi di ventenni ardere tra l'elmetto e il sottogola o dentro i crini se il caval s'impenni contra il mucchio. Gandolfo, Landolina, alla riscossa! Tuona verso Henni. Tuona, da Gargarèsch alla salina di Mellah, su le dune e le trincere, su le cubbe, su i fondachi, a ruina, su i pozzi, su le vie carovaniere. La casa di Giammìl ha una cintura di fiamma. Appiè, appiè, cavalleggere! Vengono di Taruna e di Tagiura, vengon di Gariàn e di Misrata; e dal Deserto un'altra massa oscura s'avanza già sotto la cannonata. Or biancheggiano al vento i baracani: s'arrossano se scoppia la granata. Occhio alla mira ferma, o cristiani. Solo chi sbaglia il colpo è peccatore. Vi sovvenga! Non uomini ma cani. Per secoli e per secoli d'orrore, vi sovvenga! Dilaniano i feriti, sgozzan gli inermi, corrono all'odore dei cadaveri, i corpi seppelliti dissotterrano, mùtilano i morti, scempiano i morti. Straziano i feriti, gli inermi, i prigionieri, i nostri morti! Vi sovvenga. Dovunque è il tradimento, nelle case, nei fondachi, negli orti, nel verde d'ogni palma, nell'argento d'ogni olivo, allo svolto d'ogni via. I marinai lo fiutan sottovento. O Tripoli, città di fellonìa, tu proverai se Roma abbia calcagna di bronzo e se il suo giogo ferreo sia. Avanti, o Bracciaferri, Adorni, Bagna, Pergolesi, Coralli! Il maschio Fara vi guarda. Cresce il sangue e mai non stagna. Tutti in piedi. Nessuno si ripara. Chi cade, si rialza; e poi stramazza. La spalla del soldato è la sua bara. Immune su la grandine che spazza l'Oasi atroce, splendido nell'alto cielo un alato spia. Salute, o Piazza, Mòizo, Gavotti dal tuo lieve spalto chinato nel pericolo dei vènti sul nemico che ignora il nuovo assalto! Anche la morte or ha le sue sementi. La bisogna con una mano sola tratti, e strappi la molla con i denti. Poi, come il tessitor lancia la spola o come il frombolier lancia la fromba (gli attoniti la grande ala sorvola) di su l'ala tu scagli la tua bomba alla sùbita strage; e par che t'arda il cuor vivo nel filo della romba. Non guarda il cielo Pietro Ari. Guarda tra sacco e sacco. Pelle non scarseggia. Sceglie, tira, non falla. È testa sarda. Non si volta, non grida né motteggia. Mira e tira. Una palla squarcia un sacco. Una rimbalza su la canna e scheggia la cassa. Un'altra viene a tiro stracco e un po' lo pesta. Un'altra vien di schiàncio e lo strina. Egli morde il suo tabacco. È a testa nuda, testa quadra. A un gancio pende l'elmetto. Intorno è pien di bòssoli. Ancor nella gamella è caldo il rancio. Anima, corpo e patria son nel fosso come in un focolare più capace che l'arborense. Una man sacra ha smosso col ferro nella cenere la brace dentro il cerchio dei sassi. Le sorelle cuciono in sogno il suo gabban d'orbace. Ei dormirà, come le prime stelle tremino, su la stuoia stesa in terra. Or è nella mislèa. «Pelle per pelle» dai padri suoi che dormono sotterra fu comandato. Or contro questi cani sta con fegato buono a mala guerra. Quante grandùre, quanti baracani colcò, sotto la grandine che scroscia! Ancor uno! Ancor uno! Oggi e domani e mai sempre. Una palla nella coscia gli spezza il taglio della baionetta cinta al fianco, e nell'osso della coscia il mozzicon del ferro gli s'imbietta forte così che sola una tanaglia o la mano del Sardo in una stretta cruda lo possa svellere. Ei travaglia seduto su lo zàino. Alfin lo svelle. S'alza nel sangue, e torna alla battaglia. Non torna al focolare? Le sorelle cuciono in sogno il suo gabban d'orbace. Or tinto è il panno, e l'opre son più belle. Ancor uno! Ancor uno! Non è pace ancóra. In piedi nel suo sangue, ammazza. Il sangue scorre e l'anima è tenace; ché rugge in piedi tutta la sua razza ora nel suo coraggio, su quell'osso scheggiato, e del suo sangue egli la chiazza. Ancor uno! Due tre gli sono addosso, lo prendono, gli strappano il fucile, lo forzano, lo traggono dal fosso. Non son que' cani, sono i suoi! Le file de' suoi vede in ginocchio ai parapetti, i pacchi di cartucce nel barile; gli scatti ode, gli scocchi dei moschetti; ode il tonfo d'un corpo che si piega, la rabbia che stridisce su gli elmetti. E il taciturno supplica, diniega, minaccia, si dibatte. Il sangue scorre per la barella. Ei rugge ancóra, e prega! Verso Messri, un eroe nomato Astorre ha tolto all'orda lo stendardo verde; e tutto il fronte alla riscossa accorre. Su, compagnia dello stendardo verde, Ottava! Su, la Settima, col prode Orsi! L'inferno di Giammìl si perde. Spinelli, alla riscossa! Ala dell'Ode, non batti se non come il chiuso cuore. Chiusa fremi, e il tuo numero non s'ode. Come quella d'Atene, per amore della mischia, t'allacci i tuoi calzari, Ode, e ricalchi l'orme del valore. Dal ciglio dei ridotti e dei ripari sporgi, Gloria più giovine, ed irraggi gli oscuri eroi pel cor di Pietro Ari. A corpo a corpo! Son tenuti i gaggi della Corsina e quelli di Marsala. Su la mischia feroce, su i selvaggi urli, sul mucchio, sul baglior ch'esala dall'animo scagliato a tutta possa, subitamente par che passi l'ala di quel mantello e la camicia rossa rilampeggi e racceso per la duna il riverbero sia di Gibilrossa. Croce d'argento contro mezzaluna! Undecimo, con l'ugne riafferri pe' capegli di dietro la fortuna. Chi balza con lo stuolo irto di ferri di là dalle trincere e dai destini verso la sua bellezza? È Pietro Verri. «Avanti, marinai, garibaldini del mare!» Par che su lo scarno viso l'ardente ombra del Sìrtori s'inclini. Rotta la fronte che fu pura, ucciso cade. Par che l'alfiere da Camogli su le spalle si carichi l'ucciso. «Avanti!» Non è tempo di cordogli. Il pericolo ondeggia. Il tradimento è dietro i muri, è dietro i tronchi spogli che la grandine schianta; è in tutto il vento del Deserto e dell'Oasi. La sorte balena. Alla riscossa! Ei non son cento, e la bandiera sventola. Ora, o Morte, ei son cinquanta. E la bandiera sventola. Dov'è Giacomo Medici? Ora, o Morte, non son che dieci. E la bandiera sventola. La canzone d'Elena di Francia Stelle dell'Orsa, Guardie dei piloti, e voi, Pleiadi, lacrime divine d'amori eterni e di dolori ignoti; e tu, fra le sorelle oceanine, che sola amasti un triste eroe mortale, e ti celi il tuo vólto nel tuo crine, o Merope d'Atlante, mia navale Musa; e tu, Vega, e tu, bacca di luce, Perla della corona boreale; o Sirio, Sirra, Aldebaràn, Polluce, Càstore, plenitudine di spirti che la corusca melodìa conduce; Notte, e Galàssia effusa per crinirti, Nube, e il dio che ti lacera, scorgete la bianca nave uscente dalle Sirti! Sul guerreggiato mare alta quiete regna. Il silenzio del Risorto incombe, come quando Simon gittò la rete. Quasi un dolce candore di colombe illumina la tolda della nave che reca i morti alle materne tombe. E su l'assi che chiudono il cadavere e sul letto ove sanguina il ferito arde una sola santità soave. La figura di prua non è scolpito legno ma un sovrumano Essere intento, con un sorriso eguale all'Infinito. E quegli ch'ebbe stritolato il mento dalla mitraglia e rotta la ganascia, e su la branda sta sanguinolento e taciturno, e i neri grumi biascia, anch'egli ha l'indicibile sorriso all'orlo della benda che lo fascia, quando un pio viso di sorella, un viso d'oro si china verso la sua guancia, un viso d'oro come il Fiordaliso. Sii benedetta, o Elena di Francia, nel mar nostro che vide San Luigi armato della croce e della lancia fare il passaggio coi baroni ligi su le navi di Genova e prostrato sotto i suoi gigli attendere i prodigi, sii benedetta; ché ritorna il fato d'amore all'acque istesse e in te rigiura il santo Re di lacrime beato. Ti sovviene dei morti di Mansura che putivan nel limo, su le rive del Nilo, ignudi, senza sepoltura, mentre per tutta l'oste le malvive genti ululavan come donne in parto di tra il marciume delle lor gengive, e i feriti, colcati su lo sparto come buoi, la Cappella e il suo Tesoro deprecavano in van pel sangue sparto e lungi travedean dal lor martoro splendere, dietro la criniera ardente di fuoco greco, la celata d'oro, la gran spada alemanna ben tagliente, e udian sonar la prece su la zuffa: «Bel sire Iddio, tu guarda la mia gente!». Allora il Re levavasi la buffa dal viso smunto; e, sceso degli arcioni, sfangava solo per l'orribil muffa. Per quel carnaio givasi carponi piangendo, a riconoscere i suoi cari morti, i suoi fanti come i suoi baroni. E i Vescovi, che in campo dagli altari assolvevano l'anime, al divino officio si turavano le nari. Ma il Re, toltosi l'elmo e il gorzerino, portava i corpi in su le braccia e in dosso quand'altri li traeva per l'uncino. E con quella pia man che avea riscosso Carlo d'Angiò di sotto il fuoco greco (in arme d'oro sul cavallo rosso che ardea per la criniera, ei fatto cieco e invitto dal suo Dio corse a traverso l'inferno avendo un grande Angelo seco) con quella mano l'ulcero perverso medicava, tagliava intorno ai denti la carne enfiata, ungeva il taglio asterso. Pane afflitto partia con le sue genti nelle fami. Parlava col lebbroso. Portava invidia agli uomini piangenti. «Bel sire Iddio, richieder non son oso fonte di pianto. Alcuna stilla basta all'alidore del mio cor penoso.» Le lacrime colando per la casta bocca, ei gustava nell'amaro sale la dolcezza che ad ogni altra sovrasta. Ma non tu piangi, o Amàzone regale. Una intrepida forza t'azzurreggia negli occhi, sotto il lino monacale, se il braccio lacerato dalla scheggia sostieni o la man tronca fasci o bagni le labbra al sitibondo che vaneggia. Non lacrime, non gemiti, non lagni. Quegli che vinse fuor della trincera, vuol col silenzio vincere i compagni. E quegli che di vivere non spera già fiammeggiar nel gelido lenzuolo sente i tre ferzi della sua bandiera. Qual novo giorno splenderà sul molo popoloso, laggiù? La Patria è tutta pallida, in piedi, con un vólto solo. Pallida, in piedi, con la gota asciutta, serra nel petto i nomi de' suoi morti. Guarda lontano. E il mar non li ributta. Quale mistico approdo è atteso? I porti sono solenni come cattedrali. Donna di Francia, or sai quel che tu porti. Tu porti con la nave i sogni e l'ali e le rose future e il novo canto in quel cumulo d'anime e di mali. L'angioino vascello non più santo era allorché recava il grande spoglio del Re che volse in cenere il suo manto. Ben ti sovviene. Il fùnebre convoglio venìa così pel Mar siciliano con l'oste e col navile in gran cordoglio. E il Re col suo soave Gian Tristano stavasi in bara; e, qual lo pinse Giotto in Fiorenza, il cordiglio francescano nell'una man tenea forse e di sotto al drappo azzurro e al vaio e a' fiordiligi avea su l'ossa il càmice incorrotto. Era lontano in Santo Dionigi il sepolcro, guardata dalla morte la via lunga di Trapani a Parigi. Re Tibaldo morivasi alle porte dell'Invitta, Isabella d'Aragona sentiva già l'orrore della sorte imboscata ne' monti ove risuona giù per la costa calabra il maligno guado che lei travolse e la corona. E il Nasuto, il carnefice ulivigno de' biondi Svevi, in terra di baldoria gli usci franceschi tinti di sanguigno non si sognava già, né la sua boria vedeva il lunedì di Risurresso e le galere di Rugger di Loria, quand'ebbe offerto in pegno di possesso eterno a Monreale il Cor beato e in Palermo il Lambello ebbe rimpresso. Ora a Palermo per divino fato il Fiordaliso ed il Lambel vermiglio raddotto hai tu, non in vessillo issato, o Elena di Francia, ma in naviglio ricrociato d'amore e di dolore ove tu splendi come il più gran giglio. «Così è germinato questo fiore!» par sorrida colui che su la roccia del sacro balzo, ove l'umano errore si purga, Ugo Ciapetta che rimproccia suo seme ha visto tutto vòlto in giuso fonder per gli occhi il male a goccia a goccia. «Nuova luce percote il viso chiuso» dice la Voce. E dice: «Qui si monta». Ed ovunque il suo spirito è diffuso. La sua forza gentile austera e pronta è la tempra dell'aria. O Italia bella, or sei fissa al tuo Sol che non tramonta. O dolce Francia, o unica sorella, per la muta speranza che s'inclina su le chiare acque della tua Mosella, per la memoria pia di Valentina che, fedele al suo lutto, patir volle senza tregua nel cor l'acuta spina, pei campi onde l'allodola tua folle balza chiamando, e i pioppi della Mosa fremono, e il sangue grida nelle zolle, Francia, ricevi e serba la gioiosa promessa che ti fa, d'una vendetta più grande, questa carne sanguinosa. Taglia per noi con la tua vecchia accetta un ramo della quercia di Lorena, sul colle ove Giovanna è alla vedetta, intreccia al ramo rude la verbena già sacra ai nostri padri, ed a noi manda. Su le Statue velate il ciel balena. Balena anche per noi da quella banda. Sul Campidoglio senza Feziali sospenderemo noi la tua ghirlanda. E tu òccupa il ciel con le tue ali, guerriera alata. Noi le navi forti spingeremo nel mar dai nostri scali. O Elena, che in fronte ai nostri morti impressa vedi la virtù di Roma, pel gran patto latino oggi tu porti la verbena augurale entro la chioma. La canzone dei Dardanelli Taranto, sol per àncore ed ormeggi assicurar nel ben difeso specchio, di tanta fresca porpora rosseggi? A che, fra San Cataldo e il tuo più vecchio muro che sa Bisanzio ed Aragona, che sa Svevia ed Angiò, tendi l'orecchio? Non balena sul Mar Grande né tuona. Ma sul ferrato cardine il tuo Ponte gira, e del ferro il tuo Canal rintrona. Passan così le belle navi pronte, per entrar nella darsena sicura, volta la poppa al ionico orizzonte. Sembran sazie di corsa e di presura, mentre nel Mar di Marmara e nel Corno d'oro imbozzate l'ansia e la paura sognano fumi al Tènedo ogni giorno apparsi e invocan l'altro Macometto che scenda in acqua col cavallo storno come quando alla Blanca un vascelletto greco e tre saettìe di Genovesi con lor pietre manesche e fuochi a getto, conficcate le prue sino ai provesi, nell'arrembaggio, presero battaglia contra il soldano e i suoi visiri obesi e contra una ciurmaglia e soldataglia innumerabile in dugento buoni legni; e vinsero; e con la vettovaglia sotto Costantinopoli, tra suoni e cantici, a rimurchio in salvamento li ricondusse Zaccaria Grioni. Eran tre saettìe contra dugento sàiche fuste e galèe! Taranto, Alfieri d'Alò, quel tuo figliuol che ti fu spento su la duna a Bengasi ove tu eri mista al suo sangue allor che cadde eletto dalla gloria tra i bianchi cannonieri, ben si mostrò di quella tempra; e il petto, come quando le navi avean di legno il fasciame, fu ben di ferro schietto. Ma non pur anco il giovincello Regno, fior di modestia, escito è di tutela. I pedagoghi suoi stanno a convegno. Adoprano con trepida cautela la bilancia dell'orafo in pesare il buon consiglio; e, se il timor trapela, appoggiandosi al muro famigliare stranutano e tossiscono. O Senato veneto! O prisca Libertà del Mare! Il sobrio Talassòcrate dentato, il pudico pastor dai cinque pasti che si monda con l'acqua di Pilato, immemore dei fasti e dei nefasti suoi dì vermigli, cigola e s'indigna a tanto scempio, e torce gli occhi casti! E quei che verso il Reno ora digrigna ed or sorride livido di bile col ceffo nella sua birra sanguigna, l'invasor che sconobbe ogni gentile virtù, l'atroce lanzo che percosse vecchi e donne col calcio del fucile, il saccardo che mai non si commosse al dolore dei vinti e lordò tutto del fango appreso alle sue suola grosse, l'Ussero della Morte vela a lutto Stinchi e Teschio per la pietà fraterna di tanto musulman fiore distrutto! Ma uno più d'ogni altro si costerna. Egli è l'angelicato impiccatore, l'Angelo della forca sempiterna. Mantova fosca, spalti di Belfiore, fosse di Lombardia, curva Trieste, si vide mai miracolo maggiore? La schifiltà dell'Aquila a due teste, che rivomisce, come l'avvoltoio, le carni dei cadaveri indigeste! Altro portento. Il canapo scorsoio che si muta in cordiglio intemerato a cingere il carnefice squarquoio mentre ogni notte in sogno è schiaffeggiato da quella mozza man piena d'anelli che insanguinò la tasca del Croato! Son questi i cristianissimi fratelli del protettor d'Armenia, ond'è rifatta pia la verginità dei Dardanelli. La vecchia Europa avara e mentecatta che lasciò solo il triste Costantino, solo a cavallo nella sua disfatta ultimo imperatore bisantino combattere alla Porta Carsia e spento dar la porpora e l'aquile al bottino, dessa or soccorre del suo pio fomento lo smisurato canchero che pute tra Mar Ionio e Propontide nel vento. Oh Alleanza mistica, salute! Cantar voglio le tre sotto il posticcio turbante auguste Podestà chercute e d'austriaco sevo unto il molliccio soldan che ascolta il suo martirologio col bianco pelo irto per raccapriccio. Alla Consulta attendono l'elogio tutorio i pedagoghi del pupillo demente; e spiano il tempo ch'è balogio su la piazza ove ride lo zampillo romano tra gli equestri Eroi gemelli palpitando qual limpido vessillo. Come sul fulvo mare dei camelli sta la Sfinge, una intorta Pitonessa senza tripode guarda i Dardanelli. La licenza è concessa e non concessa, se guarentita sia la libertà al sapone di Caffa e al gran d'Odessa. Ahi cieca ambage! Ed ei non sono già discepoli di Mosca de' Lamberti che disse: «Cosa fatta capo ha». Vanno librando i pesatori esperti la bilancia dell'orafo sì vana con once dramme scrupoli malcerti. Meglio rozza stadera di dogana ove per dar tracollo il ferreo Cagni gitti la spada di Bu-Meliana. La nave, col desìo che il sangue bagni le torri e il ponte per ribattezzarsi, richiama a sé gli intrepidi compagni che troppo a lungo per le dune sparsi e nelle fosse tennero la guerra dediti a superare e a superarsi come quando l'eroe, che di sotterra ancor gli incìta, disse oltre la morte: «Io con mille di voi prendo la terra». Stefano Testa, l'òmero tuo forte è rotto; e il braccio tuo, Vincenzo Origlio; o Montella, e il tuo femore. E la sorte, o Gaudino, t'amò quando un vermiglio fiore ti pose presso il cor tra costa e costa. E tu, Vito de Tullio, figlio di Bari vecchia ove una santa esposta al popolo si chiama Serafina, e il popol tutto innanzi a lei fa sosta; o Carmineo, di un'umile eroina anche tu primo nato tra il Leone di San Marco e la Chiesa palatina; o fratel mio d'Abruzzo, e tu, Marone, che in sogno ancor la piaga del tuo piede strascichi per servire il tuo cannone; voi tutti, ardenti della vostra fede e della vostra febbre nella lunga corsìa triste, con l'anima che crede e vede or ascoltate se non giunga un grande annunzio, sussultando al cupo urlo che nella notte si prolunga. Dante de Lutti forse in un dirupo giace coi prodi a Derna, e la vendetta ride ne' denti suoi di giovin lupo come quando a Tobrucca su la vetta della ruina issava il tricolore, più agile che mozzo alla veletta. E la notte par piena di clamore. E la corsìa d'occhi sbarrati e fissi riarde, e ucciso è il sonno dall'orrore. Taluno i suoi compagni crocifissi rivede, là, nella moschea di Giuma, i corpi come ciocchi aperti e scissi con la scure, conversi in nera gruma senza forma, sgorgando le ventraie per gli squarci; e le bocche ove la schiuma dell'agonia tersero l'anguinaie recise, intruse fra le due mascelle; e i viventi infunati alle steccaie, alle travi dei pozzi, con la pelle del petto per grembiul rosso, con trite le braccia penzolanti dalle ascelle dirotte, con le pàlpebre cucite ad ago e spago, o fitti sino al collo nel sabbione che fascia le ferite, le vene stagna. Odio, che sei midollo della vendetta e lièvito del sangue, ti canto. Insegna del taglion, ti scrollo. Talun disse: «Spargete poco sangue. Deh non vogliate esser micidiali! Quasi pace è la guerra, quando langue». O dolci eroi sognanti su i guanciali penosi, udiste l'ordine di guerra? «Le navi scorreranno gli ospedali I marinai combatteranno a terra.» Sognando, andiamo incontro all'Ombre sole mentre il ponte di Taranto si serra. La notte sembra viva d'una prole terribile. La grande Orsa declina. Infaticabilmente il mar si duole. Un vento di dominio e di rapina squassa il vasto Arcipelago schienuto. Chi vien da Scio con la galèa latina? Chi da Nasso? e d'Amorgo? Ti saluto, a capo del naviglio tuo di corsa, o duca dell'Egeo Marco Sanuto. Sul tuo coppo di ferro splende l'Orsa. Dietro i pavesi sta la compagnia pronta allo sforzo: la minaccia è corsa. Eri una via calpesta, eri la via dei Barbari che andavano alla guerra in Occidente, allora, o Austria pia. E l'onta di Giovanni Senzaterra stava su te, la crudeltà del basso vassallo d'Innocenzo, o Inghilterra, quando al libero Doge dava il passo l'Imperatore sul diviso Impero, e la Morea dal Tènaro a Patrasso e Salamina con il suo cimiero di gloria non immemore d'Aiace, e il Sunio col suo tempio roso e il nero Acroceraunio, Ocri, Arta, il Golfo ambrace, le Cicladi fulgenti, tutto il lido curvo dal Mar dalmatico al Mar trace erano un sol dominio sotto il grido di San Marco; e Gallipoli, Eraclea, Gano, Rodosto anco, tra Sesto e Abido il Doge tutto l'Ellesponto avea; quasi mezza Bisanzio, e gli arsenali quivi, e le darsene e le ròcche aveano i Veneti; lanciavan dagli scali nel Corno d'oro le galèe costrutte, al Leone ogni dì crescendo l'ali. Ecco, o Mediterraneo, su tutte l'isole, ecco i tuoi dèspoti. Rischiaro col mio cuore le impronte non distrutte. Ecco un Sagredo principe di Paro, a Sèrifo un Michiel, ad Andro un Dandolo, a Candia un Tiepolo. Ogni nome è un faro. Presso Blacherne publica il suo bando Ranieri Zeno, e quasi Imperatore ha tutta Romania nel suo comando. Il genovese Enrico Pescatore conte di Malta usurpa il fio di Creta. In regia potestà l'Asia Minore ha Martin Zaccaria, batte moneta, leva milizie e navi, si travaglia a Focea per allume, a Chio per seta, a traffico imperversa e a rappresaglia, stermina Catalani e Musulmani, tutt'armato da re muore in battaglia. O dura schiatta dei Giustiniani, nova sovranità della Maona libera, dinastia di popolani magnifici, di re senza corona, che profuman di mastice la bianca scìa o la segnan d'una rossa zona, quando nell'isola Andriolo Banca orna templi, deduce carmi, venera Omero, èduca lauri, schiavi affranca! Navi d'Italia, ecco l'Egeo. Chi viene da Lesbo? chi da Coo? Navi d'Italia, l'Ombre cantano come le sirene. Un Querini è signore di Stampàlia, di Nanfio un Foscolo, un Navigaioso di Lemno. Ecco l'Egeo, navi d'Italia, ecco il mare operoso e sanguinoso di noi, le rive con le nostre impronte, le mura impresse del Leon corroso. Un Barozzi è signore a Negroponte, un Ghisi a Sciro ed un Pisani a Nio. Navarca è un Longo ed un Adorno è arconte. Fendo i secoli, lacero l'oblìo, ritrovo le correnti della gloria nell'acqua ove portammo il nostro Dio. Levo sul mar l'onda della memoria e col soffio dell'anima la incalzo, che ferva sotto il piè della Vittoria, che schiumi e fumi sotto il piede scalzo volante in sommo come quando accorse precipitosa dal marmoreo balzo a te, Cànari. O Grecia, o Grecia, forse anche i tuoi fari pendono. E lo scotto sarà pagato. Chiedi l'ora all'Orse come l'uomo d'Ipsara e l'Hydriotto quando muti ridean nel cuor selvaggio, acquattato ciascun nel suo brulotto, con alla mano i raffii d'arrembaggio, con alle coste il demone del fuoco, messo fra i denti il fegato per gaggio. Anche nel nostro cuore arde quel fuoco, sorella. Vien d'Ipsara Costantino Cànari, arsiccio, ancor più pronto al gioco. Andrea Miàuli vien sul brigantino ch'ebbe a Patrasso a Spezzia ed a Modóne. Ma chi è mai quel grande suo vicino? Riconosco la chioma del leone e l'affilato viso dell'audacia e l'occhio inesorabile. O Canzone, piègati sotto l'ala acuta e bacia per tutti i marinai la fronte fessa del Capitan che vien dal mar di Tracia. Viene dai Dardanelli su la stessa galèa cui non restò se non l'orrore dell'annerito arsile, su la stessa galèa che vide volgere le prore e orzare a terra Mehemet codardo, viene dai Dardanelli il vincitore Lazaro Mocenigo. E lo stendardo del calcese, che gli spezzò con l'asta il cranio, or croscia al maestral gagliardo su l'erto capo cinto della vasta piaga, su la criniera leonina che per corona nautica gli basta. Chiuso è il destr'occhio che nella marina di Scio barattò egli contro vénti navi di Kenaàn tratte a rapina. Ma il freddo astro di tutti gli ardimenti è l'occhio manco, specchio dei perigli. Lazaro Mocenigo ha le sue genti? Guardalo, Cagni, tu che gli somigli. La canzone di Umberto Cagni Cagni, colui che a te negli anni eguale patì l'ignavia delle vane carte, morso il cuore dall'aquila immortale, e vendicò nello stridor dell'arte la forza che sognar faceagli il fato e il pallore del giovin Bonaparte quando credea nel suo silenzio armato essere il messo della nova vita e della nova gloria il primo nato, colui t'onora come la scolpita imagine del sogno suo più forte, si ch'ei disdegna l'opera fornita e, gittando sul vólto della sorte le sfrondate corone, or solo spera nell'ultima bellezza della morte. Non per la forza, o anima guerriera, non pel fàscino invitto onde rapivi ltre la forza l'èsile tua schiera quando fendevan quattro cuori vivi l'immensa ghiaccia, e più del buio trista la notte senza tènebra era quivi; non pel fertile ardire onde fu vista una manata d'uomini discesa dalle navi tenére la conquista della terra ed accrescersi, sospesa nel pericolo come nel bagliore d'un nume, onnipresente alla difesa; ma per l'amore, ma pel solo amore onde due volte già trasumanasti, eroe, t'invidio sopra il tuo valore. Eroe di due deserti, dei più vasti geli e delle più vaste sabbie, in quali eroiche immensità l'Italia amasti! Ogni altro umano amor sembra senz'ali e senza lena e inglorioso e impuro, congiunto alla viltà dei nostri mali. Come il fiore d'un mondo nascituro il tuo fu, schiuso all'orlo d'un'estrema Tule che dentro te, nell'uomo oscuro, avevi, incognita. E la man mi trema, quasi eternassi la mia smania ignava celebrandoti, eroe, nel mio poema. Penso la mano tua che dolorava cominciando a morire, il ferro atroce, l'anima indenne su la carne schiava; la volontà spietata e senza voce che ti facea lo sguardo come il taglio della piccozza; il piede più veloce come più duro era il cammino; il maglio invisibile che schiacciava i blocchi enormi, con un tuono ed un barbaglio di prodigio pel bianco Ade ove gli occhi seguivano i silenzii oltre i fragori; le dighe che rompevano i ginocchi e i gomiti; le slitte tratte fuori dalle crepe improvvise; la costretta man dolorosa ai ruvidi lavori; e la fame in attesa della fetta crudigna presso il cane ancor fumante scoiato su la neve, la galletta muffita per panatica, all'ansante sete il sorso dell'acqua fetida, ogni penuria, ogni miseria; e, se il sestante segnava il punto suo, tutti i bisogni conversi in riso lieve e nelle stanche ossa inserte le invitte ali dei sogni. Ti sovviene? Su le pianure bianche una vita recondita bruiva, nel gran giorno di Dio. Le dighe bianche s'alzavano, crollavano; la riva si saldava alla riva, il monte al monte. Tutta la solitudine era viva di ghiacci sino all'ultimo orizzonte, fulgida sotto il sol di mezza notte. Tra l'infinito e le tue brevi impronte era la prova, augusta fra le lotte dell'uomo. E tu dicevi a te: «Più oltre». L'Oceano era un bàratro di rotte isole. E tu dicevi a te: «Più oltre». Sparivano i due solchi in un tumulto raggiante informe immenso. E tu: «Più oltre!». Ché ti parea da uno scalpello occulto nell'eterno cristallo solitario quell'altro nome ovunque fosse sculto: lo scandinàvo. «Non è necessario vivere, sì scolpire oltre quel termine il nostro nome: questo è necessario.» E la virtù dei quattro uomini inermi fu per un'ora il vertice del mondo. Ti sembrò tutto fervere di germi immortali l'Oceano infecondo. Sommosso ti sembrò tutto il deserto artico dal tuo palpito profondo. Poi fu silenzio, sotto il segno certo. Fu la cerchia terribile del gelo alla tua gioia adamantino serto. L'anima tua su te diffuse il cielo d'Italia. Fosti immemore e sparente come l'Ombra sul prato d'asfodelo. Allora, come l'inno fa presente l'iddio, l'amor creò l'imagin vera della Patria. Nel gran silenzio algente parve con l'alito una primavera sublime ella diffondere. Il tuo santo amore volse in luce la preghiera. Piangesti. Ed ogni lacrima del pianto eroico rilucea più che il polare meriggio. Sol per una, ecco il mio canto. O messo della gesta d'oltremare, o precursore degli eroi rinati sul lido ove rosseggia il nostro altare, o tu che primo fosti ai primi agguati, l'indice tronco della man virile, quel che impone i comandi o addita i fati, non fu debole all'elsa. E il puro aprile della tua gloria parve ad altra ebrezza rifervere nel sangue tuo gentile. Ah, da qual sacro mare di bellezza, da qual divino anello d'orizzonte, da qual non vista aurora escì la brezza vigile che soffiava su la fronte de' tuoi, là presso i Pozzi dove forse Roma avea coronata la sua fonte? Nella notte d'ottobre ardevan l'Orse alte coi sette e sette astri fatali su i marinai, quando la luna sorse. Tutta bella tra il golfo dei corsali e il Deserto, levava al gran ritorno l'Oasi le sue palme trionfali. Simile all'invocata alba d'un giorno mistico era il notturno effuso lume; e l'annunzio e l'attesa erano intorno. Parea, spirato dall'antico nume, intra il libico monte e l'apennino spander il ciel di Dante il suo volume. Da qual nascosto vortice marino la colonna rostrale era polita perché splendesse al novo eroe latino? Quali mai braccia avean diseppellita da secoli di sabbia e di barbarie Minerva, chiarità di nostra vita? Di sotto l'oro della sua cesarie spiava ella gli imberbi, dalla vetta cerula delle palme solitarie? Era forse Ebe la parola detta, come nella battaglia di Micale vinta col nome d'Ebe giovinetta? Tutto era senza limite, eternale ed imminente, nell'abisso cieco del tempo e in sommo della vita frale. Carme romano ed epinicio greco passavano con tuono di tempesta, e la canzone italica era teco. E la canzone italica di festa e di guerra, di vóto e di riscossa, la sua face scotea su la tua testa. Tu, come le midolle son nell'ossa eri in quel pugno d'uomini. L'odore del coraggio era nella sabbia smossa, Ferìan la notte fasci di splendore dalle grandi pupille delle navi insonni; e la potenza delle prore pareva entrar nei parapetti cavi a rendere invincibili i tuoi pochi. In piedi tu, come sul ponte, stavi. Tutta l'Oasi rossa era di fuochi scroscianti. I cani urlavano alla morte. L'assalto era un inferno d'urli rochi. La città senza spalti e senza porte avea l'inespugnabile cintura: te, giovinezza, amore della sorte! Ti canto, aurora; e la tua mano pura come la rosa, piena di semente. Ti canto, eroe, per l'anima futura; e la battaglia presso la sorgente. La canzone di Mario Bianco Giovine, so che vuota è la tua tomba là nella cerchia ove le primavere della morte una candida colomba reca, Medea nata del Condottiere di bronzo, quella che i suoi rosei marmi disfoglia come rose di verziere. Bergamo t'ebbe. Ma colui che parmi ti sorridesse come ad un fanciullo gentile, non l'adunco irto nell'armi Colleoni, sì ben Francesco Nullo era, la buona lancia, il grande e fermo alfier di Libertà, col viso brullo ancóra delle fiamme di Palermo, rotto dal piombo slavo il vasto petto offerto alla Giustizia ultimo schermo. Risorrideva nel virile aspetto il primo sogno che per il selvaggio Agro trasse il lanciere giovinetto quando la giovinezza era l'ostaggio d'ogni patto segnato col Destino ed ogni giorno era calendimaggio? Dov'egli cadde, cavalier latino in terra strana, ivi restò. La spoglia dell'eroe sola è mèta al suo cammino. Tu fosti tolto, su la nave in doglia alla Patria raddotto e alla soave madre che t'attendea su la sua soglia. Tinta in minio la prora della nave non era, né corona avea d'oliva né la mannella delle spiche flave; né sopra v'era teoria votiva che il virginal tuo sangue, libamento di guerra, offrisse alla divina riva. Ma la mistica voce era nel vento, ma sparso era il libame. «È questo, Italia, è questo il tuo fermento e il tuo cemento.» E non era solenne la paràlia a Delo come il funebre vascello che radduceva il Giovine d'Italia. Ed all'approdo ognun t'era fratello sentendo in sé l'immobile tuo cuore ripalpitare come un cuor novello. E dal silenzio fùnebre un dolore nascea possente come la radice della virtù. Quest'inno era il suo fiore. E la morte era quasi Beatrice che ci purificasse in una santa onda per trarci a un regno più felice. E tu non una giovinezza infranta eri, ma la promessa e il pegno. Aroma era del cuor la lacrima non pianta. E passasti i deserti ove arde Roma or d'altra febbre, e lungo il mar toscano le salse macchie che il libeccio schioma. Oh t'avessero almen per il Gargano procelloso raddotto al bel nativo colle scisso dal vomere frentano, al chiaro colle onde il palladio ulivo guarda il gregge dell'isole nomate dal nome del guerreggiatore argivo e i nostri monti quinci, le nevate imagini dei nostri alti custodi, e il grande Sprone, e il cerulo Nicate! Detto io t'avrei: «Buon figlio, se non odi qui fragor di battaglia né ti sazia l'effuso dopo te sangue di prodi, ben odi qui, sepolto nella grazia di San Giovanni, le tue querci cave vaticinare al vento di Dalmazia». Ma tu rivalicato hai senza nave il mar d'Africa. Vuota è la tua tomba che t'infiora la madre tua soave. Per Santa Barbara, alla prima romba del mortaio, già vigile tu eri; e Gian Muzzo sonava la sua tromba. Ed eran teco i primi cannonieri della morte, i tuoi Sardi e i tuoi Pugliesi; e tutti eran più bianchi e più leggeri. E parea che la gran Vergine accesi avesse i fuochi dell'aurora eterna alla festa e spiegato i suoi pavesi. Ardeva a Tripoli, a Bengasi, a Derna la festa del mortaio e del cannone, per Santa Barbara, in vicenda alterna. Senza pausa correva la canzone dall'una gola nera all'altra rossa: rugghio d'incendii le tenea bordone. L'odor divino della terra smossa, fra tanta afa, lo spirto della terra uomo e pezzo allenava nella fossa. Biego, Desuni, Pellegrini, Serra, dèmoni della vampa e del fragore, àlacri sinfoneti della guerra! Tutte le batterie un solo ardore. Tutte le volontà un nervo istesso. La massa era contratta come un cuore; la fila era flessibile qual nesso di tèndini. Fin l'ombra su l'arena tra l'uomo alzato e l'uomo genuflesso era un legame vivo. La catena unanime giocava agile e dura come i nodi nell'osso della schiena. Ove il ferro faceva una radura i superstiti in sùbito retaggio raccoglievan la forza moritura. I morti si drizzavan nel coraggio moltiplicato dei viventi. L'aria era come un ignito beveraggio. Roma apparìa. L'anima legionaria col vasto afflato dilatava i petti. Nel cielo spaziava l'ala icaria. Oh date gli asfodeli violetti d'Aïn-Zara, per tesser le ghirlande della gloria primiera ai primi eletti, ch'io li mesca ai narcissi della grande Berenice, ai nettunii gigli nati su l'orlo delle sabbie memorande ove tinse gli affusti trascinati a braccia il primo sangue virginale in libamento della Patria ai Fati. Guardiamarina, cippo sepolcrale in Tobrucca ti sia l'un dei cannoni ammutoliti, tolti nel campale giorno di Santa Barbara ai ciglioni d'Aïn-Zara che videro i fuggenti. Gli altri sei diamo agli altri sei leoni Ché dove noi poniamo i fondamenti della potenza, là poniam de' nostri morti l'ossa per consacrar gli eventi. Non nelle antiche ombre, ne' lunghi chiostri dei cimiteri, tra gli usati avelli, dove profusa la pietà si prostri; ma novel tumulo ad eroi novelli diamo, oltremare, su la quarta sponda; e ciascun nome in pietra si scarpelli; e sien pietre angolari che profonda- mente radichi in terra ad opra forte il costruttore, il saldo eroe che fonda. O Tobrucca, alte mura e ferree porte avrai, cantieri, maestranze, scali, darsene, e i novi ingegni della morte. E strapperemo alla Vittoria l'ali perché mai dall'acropoli munita si fugga. Avrem col Mare altri sponsali. Una maschia bellezza redimita di sogni avremo, senza il sacerdote, in mezzo a noi, nel mezzo della vita. Ché l'Africa non è se non la cote ove affilammo il ferro, per l'acquisto supremo, contra le fortune ignote; e riluce per noi nell'intravisto futuro un bene che per rivelarsi vale il martirio d'un novello Cristo. O Giovine, se mai nel cor t'apparsi creato dalla pagina commossa e del gran fuoco mio l'anima t'arsi, odimi, qual ti vedo su la fossa della trincera mentre ancor spirante bevi l'odore della terra smossa, odimi. Non morrai. Sei nell'istante e nell'eternità. Colui che viene e non colui che parte sei, distante e prossimo. Tu grondi, e le tue vene sono inesauste. Impallidisci, e il viso tuo raggia e le tue mani sono piene di chiusi doni. Cadi, e il tuo sorriso è inestinguibile. In grande ombra veli la tua certezza, e pure io ti ravviso. Io fui qual sei, nel mondo. Quel che aneli anelai. Vissi come tu combatti. Nutrii di sangue i sogni miei fedeli, d'aspro sangue, per trasmutarli in atti. Solo, per simulacro della guerra posi a me, tenni a me tremendi patti. Tutto che in sé l'insonne anima serra perverte esalta io lo conobbi. E pure talor fui pari a un fiume della terra! Ma gli anni d'onta, ma le cose impure pesavano su me. La mandra abietta si voltolava nelle sue lordure. A me dissi: «Ricòrdati ed aspetta. Dal silenzio Ei verrà. Veglia alle porte. La gloria fu. Ricòrdati ed aspetta». Ed è venuto, il Grande, il Puro, il Forte, il Signore aspettato, alto volando, come la verità, sopra la morte. Ecco, vedi, obbedisco al suo comando e tremo. Vedi, sono ebro d'amore e di spavento. Or ei dice: «Chi mando, o gridatore ed indovinatore di cose sante? Chi andrà per noi?». «Eccomi» dico «manda me, Signore. Con qual segno?» Col segno degli eroi Egli ha moltiplicata la mia gente, accesa la virtù degli occhi tuoi. Ah perché, mentre tutto è rinascente in una primavera più gioiosa che quella delle Esperidi, e il presente è tessuto di porpora famosa e di stami indicibili, e la vita nella pietra di Pallade corrosa riscolpisce l'imagine compita della divinità novella, e ignoto nume è il soffio che t'agita e t'incìta, ah perché non rinasco dal mio loto Principe della Gioventù traendo i miei compagni a me duce e piloto, meco giurati a un patto più tremendo, e, per guidarli, d'un più alto e puro fuoco in me stesso non mi riaccendo? O Giovine d'Italia, il morituro ti saluta. Il mio sogno, astro vegliante, declina sopra i mari del Futuro. Tu sorgi. Non morrai. Sei nell'istante e nell'eternità. Colui che viene e non colui che parte sei, distante e prossimo. Tu grondi, e le tue vene sono inesauste. Impallidisci, e il viso tuo raggia e le tue mani sono piene di chiusi doni. Cadi, e il tuo sorriso è inestinguibile. In grande ombra veli la tua certezza, e pure io ti ravviso. Ave, Giovine. Gloria a te nei cieli, gloria nei mari, gloria su la terra! Combatti e canta come il pio Mameli; semina e mieti; i varchi tuoi disserra; assoda e guarda le tue vie; con pugno intrepido le tue fortune afferra; e sappi come traggo il miel del bugno, l'acqua del fonte, della piaga il dardo; e vedi come il mio dolore espugno. Quando tu abbia col tuo chiaro sguardo abbracciato il dominio, su la vetta vertiginosa infisso il tuo stendardo, offerto al Sole l'ultima saetta, alfine avrò da te forse il selvaggio inno che il paziente orgoglio aspetta, l'inno alla mia vigilia e al mio coraggio. L'ultima canzone Ah, non dieci canzoni, dieci navi d'acciaio martellate con l'istessa forza d'amore, o Patria, dimandavi, e non sillaba a sillaba commessa ma piastra a piastra ancor calda del maglio e in ciascuna impernata una promessa, e già pronte su gli unti scali, al taglio delle trinche, le dieci in armamento com'è già pronto il tuo Contrammiraglio. Ahimè, non ho se non il mio tormento e il mio canto. L'oblìo breve è finito, e nell'oscuro cuore io mi sgomento; ché oggi sono simile al ferito lontano che si sveglia al limitare del gran Deserto e vede l'infinito silenzio sul suo sangue palpitare di stelle e in lui remoto come il cielo il vólto delle sue cose più care e tutta la sua vita senza velo, quasi nel vetro della notte inscritta, e l'anima chiarita nel suo gelo come una gemma rigida ed invitta che più non muta forma né s'arrende, e la vittoria pari alla sconfitta. Non apprese negli anni ciò che apprende nell'attimo. S'irraggia mentre agghiada. E la notte lo fascia di sue bende. E nel cavo degli occhi ha la rugiada, non le lacrime, e qualche gran d'arena nella man che non stringe più la spada. Tutto è tacito e puro. Non balena, non albeggia. In un sol chiarore eguale spazia la solitudine serena. Scende dal cielo e dalla terra sale la stessa luce: tal nel cielo Sirio qual nella piaga l'anima immortale. Mi risveglio io così, dopo il delirio dell'improvvisa primavera, solo con la mia vita, ahimè, senza martirio cruento, nella notte del mio duolo antico e nel silenzio delle stelle infauste, inerte su lo stranio suolo. E nelle vene che parean novelle m'incresce il vano sangue non versato e la febbre che aggrava il polso imbelle. O mie canzoni, di qual grande affiato piene sembraste nella prima ressa quando ogni mio pensier balzava armato! A ciascuna di voi con indefessa vigilia diedi vólto d'eroina, d'aquila penne, ugne di leonessa. Sì travagliosa era la mia fucina, era l'angoscia dell'amor sì forte, che più non mi dolea nel cuor la spina né più da sera battere alle porte udivo il mio carnefice sagace che de' miei sonni fa torbida morte, ma sol ruggire udivo la fornace imperterrita, e come alla battaglia era la fronte all'opera pugnace, e vedevo di là dalla muraglia la notte costellata d'occhi ardenti, d'occhi fraterni. «Su, fuoco, travaglia! Gloria, fiammeggia! Su, cantór di genti, con la Vittoria a gara!» E le sorelle, ancor rosse, partivano nei vènti quando trascoloravano le stelle sul disperato Ocèano, il selvaggio stridendo annunciatore di procelle per la deserta landa; e al gran viaggio l'anima tutta era seguace, e sola teneva l'ombra il pallido rivaggio. O lontananza, che dalla parola eri abolita come inane cura, or sembri nella notte di viola spanderti senza fine, di pianura in pianura, di monte in monte, d'acque in acque. Il mio dolor non ti misura. L'ululo dell'Ocèano si tacque, il vento cadde. Dal silenzio strano il notturno carnefice rinacque. Nessun m'ode. Son simile al lontano ferito che si sveglia al limitare del gran Deserto e vede il ciel lontano sul suo gelo supino palpitare di stelle e ascolta sempre più remoto il pianto delle sue cose più care. Non ti cantai, o mio fratello ignoto? non chiesi il nome tuo perché nel mio canto risuoni? Solo sei, devoto a morte, già fasciato dall'oblìo perenne, profondato nello stagno del sangue; e non avrai tomba. Foss'io per te come colui che accorre al lagno del caduto, là dove più tremenda è la strage, e si carica il compagno su l'òmero a scamparlo dall'orrenda vendetta del mutilatore e arriva nell'altra vita all'orlo della tenda! Sembrami, ignoto, ch'io ti sopravviva per un castigo oscuro e ch'io, non ombra né uomo, in vano erri per questa riva. Il vento cadde. Nella notte ingombra di neri crini è il soffio di Medusa. A quando a quando il mio cavallo aombra, sosta, soffia, ricalcitra, ricusa come se non dai tronchi morti fosse la valle tra le dune alte preclusa ma da mucchio d'uccisi e l'orme rosse nella bassura dessero bagliore. Talvolta il passo nelle sabbie smosse è come un tonfo sordo. Il tetro odore che lascia la marea su le scoperte spiagge de' naufraghi è come l'odore della putredine. Il bacino è inerte come l'Averno, sparso d'errabonde fiamme che or sì or no schiarano incerte larve dentro le barche o per le sponde, e pare che ogni fiamma s'incolonni nell'abisso. Ora tutto si confonde e m'illude. Latrare i cani insonni, presso e lontano, odo per la malvagia landa. Ascolto. Son forse quei di Fonni? Sono i mastini della mia Barbagia? È la muta di guerra? A paio a paio ardere vedo i loro occhi di bragia. Marceddu è in vermi. Murtula è più gaio: non ha che l'ossa del viso disfatte. Il buon Demurtas medica il carnaio. Azzanna! Azzanna! Dove si combatte? Muta di guerra, trovami la pesta nel sabbione, pe' rovi e per le fratte. Ma non latrare, ché stanotte è gesta di silenzio, vittoria senza grida, gloria tacita. Il cuore me l'attesta. Razza del Monte Spada, siimi guida, innanzi al mio cavallo che paventa. Io cerco il fuoco o il ferro che m'uccida. Dove si muore? Un'anima fermenta nella notte, più libera dell'aria. Tutto è grande. La luna s'arroventa occidua su l'altura solitaria, simile a falce sopra grande incude. Tutto è sogno. La landa originaria verso il sogno propaga le sue nude onde, come il Deserto senza strade. L'asfodelo letèo vi si dischiude come lungh'essi i talami dell'Ade. L'asfodelo si lacera ed aulisce sotto lo schianto di colui che cade. Or più la pesta si profonda. Strisce di nero sangue rigano il cammino. Tale è il silenzio, che vi si scolpisce l'evento come in un rigor divino. Il cielo è sgombro. Solo vi s'intaglia l'indomito adamante del Destino. Non rombo, non fragore di battaglia, non urlo di dolore. Ma chi muove per la gran notte, e la gran notte eguaglia? È la schiera quadrata, che va dove l'Eroe la riconduce. Ha seppellito a Tobras i suoi morti. Ha visto nuove stelle sorgere a lei dall'infinito. Ha represso il singulto del morente, ha soffocato il lagno del ferito. Col ghiado illude la sua sete ardente. Il mulo che portava l'acqua, porta il carico di sangue. Le cruente some non hanno un gemito. La scorta è un solo ferro che respira. Il duce non chiama, non comanda, non esorta. Cavalca innanzi. Ha seco la sua luce. Ha seco l'alba nei deserti bui. Quando laggiù gridava «A me!» nel truce attimo, la sua gente era con lui. S'egli cavalchi al limite del mondo, la sua gente in silenzio andrà con lui. In sommo della duna, sul profondo cielo, è veduto sorgere dagli occhi riversi del soldato moribondo. E quegli a cui si piegano i ginocchi riprende la sua lena su per l'erta sinché l'arso polmone non gli sbocchi. Taciturna così per la deserta notte s'avanza la quadrata schiera, con i suoi segni, verso l'alba certa, simile al vóto d'una primavera sacra che salga verso un fato augusto con l'Eroe primogenito in cui spera. Così, divina Italia, sotto il giusto tuo sole o nelle tenebre, munita e cauta, col palladio su l'affusto, andar ti veggo verso la tua vita nuova, e del tuo silenzio far vigore, e far grandezza d'ogni tua ferita. Nella mia notte, sopra il mio dolore, questa suprema imagine si spande. Chiudila nella forza del tuo cuore. Non n'ebbe la tua guerra di più grande. NOTE AL LIBRO DI MEROPE La canzone d'oltremare Sono comento al primo verso i Canti della morte e della gloria, i Canti della ricordanza e dell'aspettazione, il Canto augurale per la nazione eletta, quasi tutto il secondo libro delle Laudi publicato or è dieci anni non invano. Rumia è una corrente di Tripolitania, che passa per antichi oliveti. Lebda è la romana Leptis Magna ove nacque l'imperatore Lucio Settimio Severo; che in Egitto involò i libri sacri e fece suggellare la tomba del Macedone perché niuno dopo di lui vi discendesse. Nella terra di Bengasi, al Gioh, ove si giunge a traverso un deserto d'argilla, è la caverna che chiude la sorgente del Lete, secondo la tradizione, in vicinanza dei luoghi ove fiorirono gli orti delle Esperidi. In onore della sposa di Tolomeo Evergete, di colei che fece l'offerta della mirabile capellatura assunta tra le costellazioni, la terra s'ebbe il nome di Berenice. In un codice già strozziano, ora magliabechiano, si trovano le Sante Parole che si dicono in galea; così cominciano: Dienai' e 'l Santo Sepolcro; Dienai' e 'l Santo Sepolcro; Dienai' e 'l Santo Sepolcro; Dienai' e madonna Santa Maria e tutti li Santi e le Sante, e la santa e verace Croce del Monte Calvaro, che ne salvi e guardi in mare e in terra; Dienai' - e l'Agniol san Michele; Dienai' - e l'Agniol san Gabriello; Dienai' - e l'Agniol san Raffaello; Dienai' - e san Giovanni Batista e 'l Vangelista; Dienai' - e san Piero e san Paolo; Dienai' - e l'Appostol san Jacomo; con quel che segue. La canzone del sangue Il Cìntraco era in Genova republicana un banditore del popolo; e su l'anima del popolo giurava in parlamento. Soffiando il vento, ammoniva i cittadini perché guardassero il fuoco. Il Catino ottagonale, creduto di smeraldo - che Guglielmo Embriaco recò a Genova dal conquisto di Cesarea (1101) - è, secondo la tradizione, quel medesimo in cui Giuseppe d'Arimatea raccolse il divin sangue, quel medesimo che sotto il nome ineffabile di Graal fu venerato dalla santa milizia dei Templari. Pareva nei secoli perduto, quando l'espugnatore genovese lo rinvenne tra le prede nella città siriaca. Guglielmo, soprannominato Caputmallii, aveva il comando della spedizione navale partita dal porto di Genova nell'agosto del 1100. Era egli non soltanto marinaio durissimo ma costruttore eccellente di torri ossidionali e di macchine belliche. Narra Caffaro negli Annali come nell'aprile del 1101, la vigilia della Domenica delle Palme, tornassero i Genovesi a Caifa dopo avere inseguito uno stuolo di quaranta galee d'Egitto, e come da Caifa navigassero a Giaffa accolti festosamente dal re Balduino, e come, dopo aver visitato il Santo Sepolcro, movessero all'espugnazione di Arsuf e quindi di Cesarea con duplice buon successo. Dinanzi a Cesarea trassero il naviglio in secco, istrutti dall'Embrìaco armarono macchine murali, poggiarono alle mura le antenne, diedero la scalata, presero la città, tutta la misero a bottino e spartirono la ricchissima preda, tornarono in patria con la Reliquia e con la gloria. Già quel medesimo Embrìaco, insieme con un Primo suo consanguineo, mentre Gottifrè di Buglione era all'assedio di Gerusalemme, aveva approdato a Giaffa con un paio di sue galee, queste aveva distrutte per non poter far fronte all'armata saracena d'Ascalona, indi aveva trasportato il legname sotto le sante mura e costrutto con esso formidabili macchine di percossa e di assalto. Nell'impresa di Siria aveva egli il titolo di Console dell'esercito genovese. S'ebbe Genova la istituzion romana dei Consoli prima d'ogni altra città (1056). Entravano essi in officio il dì di Purificazione. Dipendeva l'Embrìaco, nella detta impresa, dalla Compagna; la quale era una corporazione giurata di mercatanti e di navigatori, liberamente costituita per proteggere il traffico maritimo contro ogni sorta di pirateria e di violenza. Ogni Genovese atto alla vela o al remo, capace di governare la nave e di difenderla, dai sedici anni ai settanta, si giurava alla Compagna e contraeva l'obbligo dell'obbedienza civile e militare ai capi o consoli. Appunto intorno al 1100 la Compagna divenne un'associazione stabile e serrò l'intera cittadinanza in potentissimo cemento. Per calendimaggio, nel 1189, ricevettero nella Compagna i consoli Pietro re d'Arborea tenuto per cittadino e vassallo del Comune. Preziosissimo sempre tenne il Comune nel Tesoro di San Lorenzo il Sacro Catino. Ed è singolare, nella storia delle antiche Compere, quell'assegnazione che fu detta la Compera del Cardinale pel recupero del Sacro Catino (Compera Cardinalis pro recuperatione sacrae Parasidis), originata da un contratto che il 16 ottobre 1319 il comunal notaro e cancelliere Enrico de Carpena stipulò fra il Comune e il Cardinal Luca Fieschi abate di Santa Maria in Via Lata. Dava il Cardinale in prestito al Comune novemila e cinquecento genovini d'oro, contro il pegno della sacra scutela. Occorreva il danaro a opere di difesa necessarie. Più tardi, nel 1327, il Comune a riscattare la divina Reliquia assegnava al Fieschi luoghi 95 con un provento per ogni luogo e v'aggiungeva un aggravio sul prezzo del sale venduto nella cerchia. L'impresa di Filippo Doria su Tripoli è narrata dall'annalista ligure Giorgio Stella, dal fiorentino Matteo Villani e dal tunisino Ibn-Kaldun. Di recente Camillo Manfroni, con la sua solita perspicacia, ha vagliato e riassunto le tre narrazioni. Quella del Villani «come i Genovesi appostarono Tripoli, come la presero, come la venderono» è mirabile di colore e di freschezza. Nella giornata di Curzola, Lamba Doria - ch'era per ardere sessantasei galèe venete, e Venezia doveva vedere del nautico incendio rosseggiare il suo cielo e i suoi marmi specchianti - afferrò il cadavere del figlio, lo baciò in fronte e dall'alto della poppa lo scagliò nell'Adriatico gridando: «Compagni, il mio figliuolo è morto ma ei vive in cielo. Non ci contristiamo d'una sorte sì bella. Ai prodi è degna tomba il luogo della vittoria». Trofeo di vittoria fu da lui trasportata a Genova l'urna funebre in cui riposano le sue ossa, sotto una delle finestre di quel bianco e nero San Matteo che fondò Martino Doria in su lo scorcio del XII secolo, tempio gentilizio della schiatta. Biagio Assereto, notaro, eletto dal volere del popolo capitano d'un'armatella di soccorso contro Alfonso d'Aragona, fu lo stupendo eroe della battaglia navale di Ponza. Nella quale, pur essendo inferiore di forze, mosse le sue poche navi e galèe con sì novo accorgimento che sconfisse l'armata regia; ed egli popolano fece prigioni Alfonso il Magnanimo, i suoi due fratelli infanti d'Aragona, il re di Navarra, il gran mastro di Calatrava, il gran mastro di Alcantara, il principe di Taranto, il duca di Sessa, il conte di Fondi e cento tra principi o signori d'Aragona e di Sicilia (5 agosto 1435). Nella lettera da lui scritta al Comune dopo la vittoria - trascritta dal Federici sul testo conservato presso Marco Antonio Lomellino e pubblicata dal Belgrano - egli racconta: «Erano le galee dalle coste, refrescando le loro navi de homini e tirando le loro navi addosso onde ghe piaxea, però che era grandissima carina». La canzone del Sacramento L'argomento di questa canzone è tratto da un carme d'ignoto autore forse pisano, intitolato Carmen in victoria Pisanorum, che narra con un misto di storia e di leggenda l'impresa compiuta sopra il re zirita Temim, detto Timino, da una lega di Pisani, di Genovesi, di Amalfitani e d'altri marinai dello stesso mare: cioè da una vera e propria lega tirrena formata a muovere una guerra religiosa che fu il preludio delle Crociate. Conduceva i Pisani il console Uguccione Visconti, che aveva seco il figliuolo Ugo, bellissimo e arditissimo giovine - omnium pulcherrimus - il quale nella fazione perse la vita. Conducevano i Genovesi un Lamberto e un Gandolfo. Molto era il naviglio e bene armato. I Cristiani espugnarono Pantelleria e mossero a Mehedia - la Màdia del poeta pisano, l'Alamandia delle Istorie, la Dilmazia della Cronaca -; ed era il dì 6 d'agosto del 1088, «lo die di Santo Sisto», il giorno in cui pareva che per fato i Pisani principiassero o terminassero le loro imprese. E «per forza cavonno di mani delli Saracini Affrica e Dilmazia e più terre di Barbaria» come dice il buon Ranieri Sardo. Era la città di Timino lontana da Tunisi novantaquattro miglia a scirocco, luogo fortissimo per natura, sopra rocce inespugnabili dentro il mare congiunte alla terra da un istmo sottile, con un porto sinuoso. Un'alta muraglia, un fosso, sette torri e un mastio la difendevano. Il re - secondo narra l'Anonimo - nutriva nei serragli gran numero di leoni. Prima dell'assalto, il Vescovo celebrò l'ufficio divino; arringò dal cassero i combattenti, e diede l'assoluzione sacramentale. Questo è il momento epico della canzone. Soldati e marinai, rinnovando l'usanza dei Cristiani primitivi nel tempo delle persecuzioni, si distribuirono a vicenda la sua santa Eucaristia. Et communicant vicissim Christi Eucharistiam. Poi strinsero l'assedio, ebbero la città, liberarono gli schiavi cristiani, smantellarono la ròcca, fecero gran bottino, ed imposero a Temim una grossa indennità di guerra e l'esenzione delle imposte per le genti di mare. A chiarire l'allusione di talun verso, giova ricordare che i Pisani da soli assalirono i Saraceni d'Africa nel 1035 e presero la città di Bona. Nel 1063, nel giorno di Santo Agapito, si presentarono dinanzi al porto di Palermo «che era pieno di Saracini», ruppero la catena e s'impadronirono di navi cariche. «E dello tezoro che vi preseno, ordinonno di fare lo Duomo Sanctae Mariae, e lo vescovado.» Non avevano essi ancor fatta la guerra balearica, ma più volte avevan certo predato navi nelle acque di Maiorca e convertito il bottino in pietre da murare. «Avendo trovate due galere vicine all'isola di Maiorica e di Minorica, cariche di mercanzia, ed una nave ricchissima dei Mori di Granata, le presero e le condussero in Pisa...» San Pietro, venendo d'Antiochia, approdò alla bocca dell'Arno e vi edificò la basilica che oggi si chiama di San Pietro a Grado, detta ad gradus arnenses dai gradi di marmo che scendevano nel mare. In Salerno, nella Cattedrale di San Matteo riedificata da Roberto Guiscardo, è una porta di bronzo lavorata a Costantinopoli e donata da Landolfo Butromile e dalla sua donna. Ora mancano a tutte le figure di rilievo i vólti e le mani d'argento. Quivi anche è la tomba di Sigilgaita, della maschia sorella di Gisolfo, per cui il Guiscardo ripudiò la sua prima moglie Alberada. Più d'una volta Sigilgaita combatté su le navi a fianco del Normanno contro i Greci. Gli Amalfitani presero ad introdurre le merci d'Occidente nella Siria e nell'Egitto prima d'ogni altro popolo maritimo. Ottennero dovunque firmani che loro accordavano libertà di traffico e di transito. E dovunque stabilirono fondachi, case di commercio, chiese, ospizii. Guglielmo di Tiro nella sua Historia de Rebus gestis in partibus transmarinis narra come gli Amalfitani edificassero in Terrasanta la prima chiesa sotto il vocabolo di Santa Maria Latina. «E quivi era un ospizio di poveri, e in esso una cappella chiamata Santo Giovanni Elemosinario. E quivi Santo Giovanni fu patriarca d'Alessandria.» La chiesa fu costruita tra gli anni di Nostro Signore 1014 e 1023, per un firmano del soldan d'Egitto. Il qual firmano è oggi custodito nel convento dei Francescani di Gerusalemme. Il luogo era quel medesimo ove, più di due secoli innanzi, Carlomagno aveva fondato il suo ospizio, a un trar di pietra del Tempio del Santo Sepolcro. Pantaleone Mauro è da molti ritenuto come il primo console della Colonia amalfitana in Costantinopoli. La cattedrale di Amalfi ebbe le sue porte di bronzo dai Mauri come Salerno dal Butromile. Una iscrizione in lettere d'argento sopra una d'esse dice: «Hoc opus fieri jussit pro redemptione animae suae Pantaleo filius Mauri de Pantaleone de Mauro de Maurone Comite». La canzone dei trofei Tersanaia è vecchio idiotismo pisano per Arsenale, come Arsanà, Tersanà, Tersaia. Dice la Cronaca pisana di Ranieri Sardo: «In del milleduegento anni, fue incominciata la Tersanaia di Pisa, e lo Camposanto fondato per lo arcivescovo Ubaldo, e comprato al Capitolo lo terreno assegnato. Ed è detto Camposanto, perché si recoe della terra del Camposanto d'Oltremare, quando tornonno dal passaggio preditto, e sparsesi in quello luogo». I Pisani, secondo le parole dello Storico, attendevano di continuo alle cose del mare, dove pareva a loro che consistesse ogni riputazione e onore. Perciò fu proposto nel Consiglio che si edificasse un arsenale maggiore; ed essendosi vinto il partito, vi si dette principio. Fu fatta questa fabbrica nella cittadella o fortezza vecchia dei Pisani, lungo le mura della città, volte dalla banda di ponente, con archi sessanta (come scrive Fra Lorenzo Taiuoli pistoiese); e le galere che vi si facevano, si mettevano in acqua sotto gli archi, che si vedono oggidì ancóra in quella cortina di muràglia la qual comincia dal Ponte a Mare e segue fino alla Porta. Chìnzica e Ponte sono due quartieri di Pisa antica. Gli altri due sono Fuori di Porta e Mezzo. Chìnzica comprendeva i borghi d'Oltrarno rimasti rinchiusi nell'ultimo cerchio della città. Il cronista: «Gli Anziani mandorono bando, in sul vespero, che ogni persona dei quartieri di Chìnzica, populo e cavalieri...». A una parete del Camposanto, dalla parte d'occidente, sono appese le catene di Portopisano che i Genovesi portarono via nel 1362 quando Perino Grimaldi era a soldo del Comune di Firenze... «Velsono le grosse catene che serravano il porto» narra Matteo Villani, «e quelle, carichi d'esse due carra, mandarono a Firenze...» Le quali furono poi restituite dai fratelli ai fratelli, quando l'Italia risorse nazione libera. Sono conosciute da tutti le storie del Beato Rinieri, santo patrono dei Pisani, dipinte su le vaste pareti del Camposanto da Andrea di Firenze (1377), da quel medesimo che colori il Cappellone degli Spagnuoli in Santa Maria Novella. Le galere pisane, condotte dall'arcivescovo Ubaldo dei Lanfranchi, tornarono dall'assedio di Tolemaide cariche della terra cavata sul Monte Calvario. E nel 1203, secondo la tradizione, la preziosa terra fu sparsa nel terreno a fianco della Cattedrale; dove furon sepolti i morti. Dell'impresa dell'arcivescovo Daiberto, capitano di navi al recupero di Gerusalemme, l'antichissimo Annalista nominato Marangone scrive: «Anno Domini MXCVIII. Populus pisanus, iussu domini papae Urbani II, in navibus CXX ad liberandam Jerusalem de manibus paganorum profectus est. Quorum rector et ductor Daibertus Pisanae urbis archiepiscopus extitit...». L'Ordine dei Cavalieri di San Stefano fu istituito dal Duca Cosimo de' Medici. E il primo di febbraio del 1562 una bolla pontificia sanciva l'istituzione, concedendo amplissimi privilegi per coloro che «a lode e gloria di Dio, a difesa della Fede ed alla guardia del Mediterraneo» ne facessero parte. Sede dell'Ordine fu la città di Pisa. Col denaro di Cosimo e con la soprintendenza del Vasari sorsero il Convento, il Palazzo del Consiglio e la Chiesa conventuale dedicata a San Stefano, oggi adorna delle bandiere e delle fiamme conquistate su i Barbareschi. In Salerno, nella Cattedrale di San Matteo, la cappella a destra dell'altar maggiore fu fondata da Giovanni di Procida. La cupola è di musaico e l'altare è di legno e di avorio. Nel musaico il donatore è in ginocchio dinanzi all'Apostolo, e l'iscrizione dice: Hoc studiis magnis fecit pia cura lohannis, De Procida, dici meruit quae gemma Salerni. Nella stessa cappella sorge il mausoleo del grande Ildebrando, di papa Gregorio VII, dopo la cacciata accolto in Salerno da Roberto Guiscardo. Gaeta possiede, nella Cattedrale di Sant'Erasmo, il vessillo inviato da Pio V a Don Giovanni d'Austria e issato su la galèa reale nel giorno di Lepanto. Era il vessillo della Santa Lega. Il pontefice inviandolo raccomandò che non fosse spiegato se non nell'ora della battaglia. Secondo un passo delle memorie di Onorato Gaetani, Don Giovanni dopo la vittoria passando per Gaeta depose il vessillo nel Vescovado in onore del suo patrono Sant'Erasmo, assolvendo un vóto fatto nel pericolo. Il vessillo fu posto in una custodia e divenne il più prezioso ornamento dell'altar maggiore. Anche una vecchia cronaca della Casa Gattola di Gaeta racconta come Giovanni, figliuol di Carlo re di Spagna, approdasse a Gaeta con grande pompa ricevuto in porto dal vescovo Pietro e com'egli offerisse a Sant'Erasmo protettore e martire il vessillo ch'egli aveva issato a poppa della Reale il 7 di ottobre 1571. La sera stessa, il vincitore navigava alla volta della Sardegna. Don Giovanni nella battaglia aveva sul ponte quattrocento soldati del terzo di Sardegna; che fecero miracoli contro i trecento giannizzeri e i cento arcieri di Alì, quando le galere dei due capitani s'investirono. Il bassà, dal principio alla fine della fazione, non cessò dallo scoccare i suoi dardi. Ma le corde degli archi riscaldate si distendevano indebolendo i colpi, mentre gli infaticabili archibusieri cristiani avevano il vantaggio. Il Capo di Teulada è la punta più meridionale della Sardegna, la più vicina all'Africa. Anche la recondita Teulada ha il suo eroe nel cannoniere Michele Meloni di Francesco, ferito nella giornata del 23 ottobre a Homs. Questo Sardo era tra quei quaranta marinai, comandati da Corrado Corradini veronese, che occuparono coi loro pezzi da sbarco l'altura del Margheb ingombra di rovine romane. Come puntava egli il suo cannone per l'ottantacinquesimo colpo, una palla araba passando per la clavicola gli traversò l'apice del polmone e gli restò sotto pelle fra le due scapole. Prima di piegarsi, lanciò contro il nemico nell'ingiuria uno sputo di sangue. Accorrendo i suoi uomini, li supplicò di attendere non a lui ma al pezzo già puntato. Insistendo gli uomini, l'ira gli dette la forza di sollevarsi. Egli vomitava sangue dal polmone, e il braccio sinistro fiaccato gli penzolava su l'anca. Nessuno osò trattenerlo né sorreggerlo. Solo egli si trascinò sino al suo cannone, col braccio valido aggiustò la mira e sparò. Si resse ancóra in piedi qualche attimo per riconoscere l'effetto del colpo, senza più colore di vita, con la bocca piena di vomito. Poi cadde a terra, di schianto. Due altri Sardi, Salvatore Marceddu della nave Amalfi e Nicolò Grosso della Vittorio Emanuele, il primo nativo di Cagliari e il secondo di Carloforte, battellieri e pescatori, furono uccisi su la spiaggia della Giuliana. E avevano entrambi ventitré anni. Carloforte è una città fortificata dell'isola di San Pietro, edificata in pendio su i contrafforti della Guardia dei Mori. L'isola, ricca di falchi, rimase per secoli deserta, dopo le feroci devastazioni dei Saraceni e dei Barbareschi. Era il desolato dominio d'un patrizio, duca di San Pietro; il quale pensò di trasportarvi i Genovesi dell'isola coloniale di Tabarca, che i Turchi di Tunisi molestavano senza tregua. Il genovese Agostino Tagliafico sbarcò nell'isola con i suoi popolani nel 1736 e costruì su l'altura la fortezza di Carloforte, che fu guardata da una piccola guarnigione. La colonia per alcuni anni prosperò, industriandosi in saline, in tonnare, in pesche di coralli, in culture agrarie. Ma la mattina del 2 settembre 1798 gli abitanti, mentre dormivano ancóra senza sospetto nelle loro case, furono sorpresi da uno sbarco di predatori tunisini che misero tutta la terra a sacco crudelissimamente e spinsero alla spiaggia come mandria e condussero in schiavitù un migliaio d'infelici; ché i più animosi erano in alto mare occupati alla pesca. Dopo cinque anni di duro servaggio, per intercessione e per danaro di Pio VIII e di Vittorio Emanuele, furono riscattati. E Carloforte allora fu munita di mura, fuorché dalla parte della spiaggia dove fu piantata una batteria a fior d'acqua. L'Arco di Settimio Severo, nel Fòro Romano, tra il Carcere Mamertino e i Rostri, tra il Lapis Niger e l'Ombelico dell'Urbe, fu eretto all'Imperatore nell'anno 203 dopo Cristo; e commemora anche taluna delle sue vittorie su gli Arabi. Il primo restauratore della nostra marina, Simone di Saint-Bon, ha in Campo Verano la sua tomba; che oggi la riconoscenza nazionale dovrebbe ricoprire di corone. A San Giorgio di Lissa, comandando la Formidabile, penetrò nel porto angusto, s'imbozzò a breve gittata dalla più potente difesa, innanzi alla batteria della Madonna, e vi si mantenne imperterrito, con prodigi di valore, destando l'ammirazione degli stessi nemici. Gli mentirono i Fati, d'innanzi a Lissa tonante. Quando su la sua nave già rotta dagli obici e tutta vermiglia di sangue, sul ponte ingombro di corpi mùtili Egli stette impavido incolume solo nel tragico ardore, non parve compirsi il prodigio per un patto fatale ed Egli omai sacro alla guerra futura, a una strage più vasta, a una gloria più vasta? Odi navali (1892) La canzone della Diana La Porta di San Lorenzo, in vicinanza della Basilica e del Campo Verano, è nel luogo dell'antica Porta Tiburtina. L'arco di travertino fu costruito, come dichiarano le iscrizioni, da Augusto e restaurato da Tito e da Caracalla per sopportare gli acquedotti delle acque Giulia Tepula e Marcia. Il soldato Pietro Ari nacque in Cuglieri, in terra arborense, in quello stesso circondario di Oristano ove nel cratere del vulcano estinto sta Santu Lussurgiu, l'ardua città posta «fra il Logudoro e l'Arborea, tra i sepolcreti giganteschi delle più antiche stirpi, tutta chiusa in una chiostra di basalto e aperta soltanto a ostro-libeccio, al soffio dell'Africa», là dove Corrado Brando trovò Rudu, homine de abbastu, e l'ebbe compagno intrepido «per seguire la vocazione d'oltremare». Il vituperato eroe aveva «una parola romana da rendere italica: Teneo te, Africa». Egli diceva, nel suo sogno di morituro: «Io potrei forse divenire un costruttore di città su terre di conquista, ritrovare quell'architettura coloniale che i Romani piantarono nell'Africa degli Scipioni. Guarda le Terme di Cherchell, il fòro di Thimgad, il pretorio di Lambesi. Intorno a un campo trincerato per contenere i nòmadi, ecco sorgere di sùbito una città marziale, alzata dalle coorti dei veterani!» Può essere che, per assistere alla sognata rinnovazione, domani egli risorga dal suo rogo meraviglioso. «Chi narrerà al mio figlio che, nella mia morte notturna, ho tenuto sul mio petto il mio Sole simile a una mola rovente? Via, cani, alla catena! La mia cenere è semenza.» La canzone d'Elena di Francia Chiamano Guardie i piloti le sette stelle dell'Orsa minore, i sette trioni degli antichi; perché esse scorgono e dirigono il loro cammino nella notte. Tragiche favole si formarono intorno alle Pleiadi. Sono esse la costellazione nautica per eccellenza; poiché gli antichi non ardivano dar principio alla navigazione prima del nascer eliaco delle Pleiadi nel mattino insieme col sole. Al lor tramonto incominciava il tempo delle tempeste, e il nocchiero schivava il mare. Sei delle Pleiadi sono visibili, la settima, Merope, quella che protegge questo libro, è oscura; e la favola narra ch'ella si nasconda per essersi congiunta, sola fra le sorelle, con un eroe mortale. San Luigi re di Francia fece su navi genovesi il primo e il secondo passaggio d'oltremare. Quando a Damiata, dopo la disfatta dell'esercito, essendo prigioniero il Re, Margherita di Provenza si sgravò del figliuolo Gianni a cui fu in segno di cordoglio aggiunto il nome di Tristano, vennero nella stanza della regina alcuni cavalieri a dirle che le genti di Genova e di Pisa erano in punto di abbandonare il campo. Allora la puerpera animosa convocò nella sua stanza i Genovesi e i Pisani che vennero e stettero accalcati intorno al suo letto. Ella li supplicò di non partire. «Signour, pour Dieu merci, ne laissiés pas ceste ville...» La scena è ingenuamente colorita nella prosa del sire di Joinville, del Siniscalco. «Come faremo noi, Dama?» risposero gli Italiani. «Ché in questa città noi moriamo di fame. Dame, comment ferons-nous ce? Que nous mourons de fain en ceste ville.» La regina promise di comperare tutta la vettovaglia. «Car je ferai acheter toutes les viandes en ceste ville...» Genovesi e Pisani fecero consiglio, e restarono. Nell'avanzata verso Mansura, l'esercito era stremato dalle malattie e dalle ferite. Ogni giorno s'accresceva il numero degli infermi. Le esalazioni pestilenziali del limo ingrassato dai cadaveri generavano orribili morbi. La carne delle gambe si disseccava tutta, e la pelle si maculava di nero e di color terreo come una vecchia uosa; e le gengive si gonfiavano e marcivano. «La chars de nos jambes devenoit tavelés de noir et de terre, aussi comme une vieille heuse: et à nous qui aviens tel maladie, venoit chars pourrie es gencives...» Il Siniscalco narra come l'orribile male tanto peggiorasse che bisognava i barbieri tagliassero in bocca ai malati la carne morta perché potessero inghiottire il cibo. Ed era gran pietà udire gli urli degli straziati; che urlavano come le donne partorienti. «Grans pitiés estoit d'oir braire les gens parmi l'ost ausquiex l'on copoit la char morte; car il bréoient comme femmes qui traveillent d'enfant.» I morti rimanevano insepolti, perché ognuno temeva di toccarli e di sotterrarli. Invano il Re dava l'esempio e li portava e li seppelliva con le sue proprie mani. Il Confessore della regina Margherita racconta come, seppellendo il Re i morti, i Vescovi nell'officiare si turassero il naso pel gran fetore: ma non fu mai visto il Re imitarli. «Ils estoupoient leur nez pour la puour; mais oncques ne fu veu an bon roy Loys estouper le sien, tant le foisoit fermement et dévotement.» Mentre Roberto d'Artese, il fratello del Re, entrava in Mansura solo, lasciandosi indietro i Templari, e vi restava ucciso, San Luigi veniva alla riscossa con tutta la sua schiera al suono delle trombe e delle nacchere. Dice il Siniscalco che mai videsi più bel cavaliere, avanzante di tutta la spalla le genti sue, con un elmo d'oro in testa, con in pugno una spada alemanna. «Oncques si bel homme armé ne vis, car il paroissoit dessus toute sa gent des épaules en haut, un haume d'or à son chef une épée d'Allemagne en sa main.» Quando il conte d'Angiò su la via del Cairo fu assalito da due stuoli di Saraceni e oppresso dal getto dei fuochi lavorati, il Re lo salvò scagliandosi a cavallo contro gli assalitori. La criniera della sua bestia fiammeggiava, coperta di fuoco greco, nel vento della corsa. Il Confessore racconta con quale ardore il Re desiderasse la grazia delle lagrime e come si lamentasse d'esserne privo e come non osasse nella litania implorare fontana di lacrime ma sol qualche gocciola ad irrorare l'aridità del suo cuore. «Li sainz roi disoit dévotement: O sire Dieux, je n'ose requerre fontaine de lermes: ançois me souffisissent petites goutes à arouser la secherèce de mon cuer... Lesqueles, quand il le sentoit courre par sa face, souef et entrer dans sa bouche, eles li sembloient si savoureuses et très-douces, non pas seulement au cuer, mès à la bouche.» Durante l'agonia, dopo il secondo infelicissimo passaggio, in prossimità di Cartagine, il Re volle esser tratto dal letto e disteso su la cenere. Il suo giovine figliuolo amatissimo, Gian Tristano, era già morto sul vascello. Carlo d'Angiò venne allora di Sicilia «con grande navilio e con molta gente e rinfrescamento» come narra Giovanni Villani; patteggiò col soldato di Tunisi; e ripartì con le relique del fratello e del nipote. Giunto il convoglio a Trapani l'Invitta (Drepanum civitas invictissima, come fu scritto intorno al sigillo minicipale) Tibaldo di Sciampagna re di Navarra, già infermo, si spense. Con le tre bare il corteo si mise in viaggio verso Palermo, per la via di terra. Quivi fece una sosta di due settimane. Il corpo di San Luigi fu collocato nella basilica palatina di Monreale, ove operò i primi miracoli. Il cuore fu anzi lasciato nel tempio dei re normanni. Poi il re di Sicilia, il re novello di Francia Filippo l'Ardito con sua moglie Isabella d'Aragona e i superstiti della tristissima impresa continuarono il viaggio sino a Messina, passarono lo stretto e s'internarono nella Calabria. Era di gennaio. Nevicava per le gole dei monti. Non lungi da Martirano, il corteo lugubre giunse al guado di un torrente tributario del Savuto. La giovane regina, benché incinta di sei mesi, spinse arditamente il cavallo tra i sassi sdrucciolevoli («Praesunta quadam virili audacia pereundi» dice Saba Malaspina); ma la bestia inciampicò e cadde trascinando Isabella nell'acqua ghiaccia. Fu sollevata, posta in lettiga, soccorsa; ma lo schianto era mortale. «Offensa lethaliter et in ipso casu confracta, laesus fuit uterus...» Giunta a Cosenza, ella si sgravò di un bambino morto e rese l'anima. Saba Malaspina racconta come il cadavere fosse bollito, more maiorum, e come le carni fossero sepolte in gran pompa nel duomo di Cosenza e lo scheletro fosse portato in Francia a San Dionigi, con le tre altre spoglie reali. Un nobile mausoleo fu eretto nella cattedrale cosentina «perpulcra, digna memoria, materiae ac artis concertatione glorifica» presso l'altare dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, sul luogo della sepoltura. Rimesso in luce per recenti restauri, fu rivelato dall'acume di Nicola Arnone e illustrato da uno studio eccellente di Emilio Bertaux. Il Nasuto è chiamato da Dante Carlo d'Angiò nel canto settimo del Purgatorio. Anche al Nasuto vanno mie parole... E, poco innanzi: Quel che par sì membruto e che s'accorda, cantando, con colui dal maschio naso... E Giovanni Villani: «Grande di persona e nerboruto, di colore ulivigno, e con grande naso...». Il Lambello è il nostro Rastrello. Dice Vincenzio Borghini: «Alla comune arma della casa di Fois aggiunse un rastrello, o, come essi dicono, lambello d'argento». E, a proposito di Carlo, il Villani: «La sua arme era di Francia, cioè il campo azzurro e fiordaliso d'oro, e di sopra uno rastrello vermiglio: tanto si divisava da quella del re di Francia». L'allusione al cordiglio francescano tenuto da San Luigi è giustificata dalla pittura di Giotto nella Cappella dei Bardi in Santa Croce; la quale è certo inspirata dalla leggenda francescana che fa del Re di Francia un terziario dell'Ordine. Il capitolo XXXIII dei Fioretti racconta Come sancto Lodovico andò a visitare frate Egidio e mai non s'erano veduti. Et sança parlare si cognobbono insieme. Il San Luigi giottesco tiene in una mano lo scettro e nell'altra il cordiglio dei Terziarii; e il suo manto azzurro, col collare di vaio, è cosparso di fiordalisi. Facile è riconoscere il luogo del verso di Dante: Così è germinato questo fiore. L'altro verso e l'emistichio son derivati dal decimo settimo canto del Purgatorio, non perché vi sia rispondenza tra quel passo e il momento lirico della Canzone ma perché sembra che ogni alto e appropriato segno possa esser tratto per noi dalla Comedia a libro aperto come i responsi dai libri sibillini. La canzone dei Dardanelli Questa Canzone fu composta quando gli informatori descrivevano la ragunata delle navi nel porto di Taranto. «Sin da ieri è un continuo passaggio di torpediniere nel Canale navigabile. Hanno tutte all'albero maestro la fiamma di guerra. Il Mar Piccolo sembra un immenso lago dove galleggiano in gran numero navi di battaglia, torpediniere e cacciatorpediniere. Ve ne sono ormeggiate lungo tutte le banchine, e nell'arsenale e nello specchio d'acqua del primo bacino, ch'è nel Mar Piccolo il più vasto, riparo sicurissimo ed inespugnabile, unico in tutto il mondo (17 novembre).» Questa notizia era immediatamente seguita da quest'altra, in vistosi caratteri: «La flotta non è ai Dardanelli». L'episodio della battaglia sostenuta dai quattro legni cristiani contro l'intera armata di Maometto II, sotto le mura di Costantinopoli, è narrato nelle Croniche di Giorgio Dolfino e di Niccolò Barbaro che ne fu testimonio, e nella Cronica di Costantinopoli del greco Giorgio Phranzes, il quale anche assistette alla fazione. I quattro legni, venendo dal Mar di Marinara, portavano viveri e munizioni all'imperatore assediato. Pei contrarii vènti, avevan cappeggiato a lungo nei paraggi di Chio; cosicché, favoriti alfine dall'Ostro, entravano nell'Ellesponto e s'appressavano al Bosforo quando già tutta la città era stretta. Come l'armata turca li avvistò, il sultano diede ordine all'ammiraglio di assalirli con tutte le forze e di catturarli o di colarli a picco. Suleyman bey salpò con circa duecento vascelli (a centoquarantacinque li riduce uno dei cronisti); innanzi l'ora di nona incontrò i quattro legni sotto le mura, propriamente fra le Sette-Torri e i giardini di Blanca. In quel punto il vento cadde, cosicché i Cristiani perdettero il vantaggio. Tuttavia si prepararono a combattere. Combattimento ineguale e portentoso, d'un naviglio sottilissimo contro il grosso dell'armata ottomana. Allo spettacolo accorse su le mura, dalla parte della Propontide, la moltitudine degli assediati, e lo stesso Costantino. Su la riva, fuor della cerchia, presso il promontorio di Zeitun, a breve distanza dalle Sette-Torri, accorsero i Turchi, e lo stesso sultano a cavallo per godere della prima vittoria. Il cielo era sereno su tutto il Bosforo. Prima parlarono i mortai e le bombarde; poi un de' legni cristiani e la galeazza di Suleyman vennero all'arrembaggio per prua e rimasero conficcati per prua l'uno nell'altra. Intorno s'accalcarono le navi turche. E le tre genovesi nell'investimento persero l'uso dei remi. Allora i ponti accostati furono il campo d'una mischia feroce. Con le pietre pugnerecce e coi fuochi lavorati i nostri opposero una così fiera difesa che, dopo tre ore di combattimento, le sorti parvero volgere in lor favore. Gran numero di navi turche ardeva già; cresceva la strage. I nostri, eccitati dai clamori che ventavano dalle mura, parevano moltiplicarsi mentre su l'armata nemica già soffiava il panico. Allora Maometto, furibondo, imprecando alla viltà de' suoi come per minacciarli e ricacciarli avanti, si lanciò a cavallo nel mare e spinse la bestia sul bassofondo, con l'acqua sino al pettorale. Atterriti tornarono all'assalto coloro che l'atroce conquistatore soleva, nei momenti disperati, spingere con le spranghe di ferro e coi nerbi di bue; ma non poterono superare la resistenza dei Cristiani. Furono costretti a ritrarsi. Le navi superstiti ripresero l'ancoraggio di Bessikhtach. Verso sera, Gabriele Trevisano e Zaccaria Grioni con due galèe rimorchiarono in trionfo i quattro legni, tra squilli di trombe e canti di vittoria; poi richiusero il porto con la catena. Dopo la terza delle Cinque Giornate, quando cominciava a determinarsi la disfatta degli occupatori, i soldati del Radetzky si abbandonarono ad atrocità che non cedono nel paragone a quelle arabe e turche di Rebab. Dalla strage di Casa Fortis ai lattanti infissi su le baionette, giova non enumerarle. La terzina della mano mozza allude a quella mano feminile, carica d'anelli, che fu rinvenuta nella tasca d'un Croato ucciso. Costantino Paleologo, il fratello di Giovanni, avendo accettata la corona di Bisanzio, vera corona di spine, condusse con molta intrepidezza la difesa contro il secondo Maometto che l'assaliva con uno sterminato esercito. I difensori non sorpassavano il numero di settemila. Un Giustiniani, un Cattaneo, un Minoto, un Contarini, un Mocenigo, un Corner, altri nobili veneziani e genovesi, erano alla guardia delle torri e delle porte. Quando tutto fu perduto e l'esercito del sultano implacabile irruppe nella città per dare il sacco di tre giorni promessogli, Costantino spronò il cavallo, nei pressi della Porta Càrsia, contro il folto dei nemici, volendo morire con l'Impero. «Il sangue gli colava dai piedi e dalle mani» dice Giorgio Phranres. Secondo Michele Ducas, lo storico dell'Impero d'Oriente, l'imperatore gridò: «Non un cristiano v'ha, che prenda il mio capo?» Secondo Michele Critopulo, gridò: «La città è presa, e io vivo ancóra!». In quel punto un Turco gli tagliò la faccia. Come Costantino rispondeva al colpo, un altro gli trapassò le reni. Cadde nel mucchio, non conosciuto. Più tardi, avendo Maometto ordinato di ricercarlo, riconobbero i cercatori il cadavere ai calzati di porpora che recavano trapunte in oro le aquile imperiali. I sovrani e i principi della Chiesa in Occidente, dopo che con sì trista incuranza avevan lasciato abbattere l'ultimo segno dell'Impero bisantino, alla notizia della vittoria turca rimasero atterriti; e temettero che i giannizzeri non venissero a distruggere le imagini di Cristo nelle cappelle unghere ed alemanne e che le basiliche romane non fossero mutate in moschee come quella Santa Sofia dove Maometto aveva fatto pel primo il suo namaz su l'altar maggiore! Il marinaio barese Vito de Tullio fu ferito a Tripoli nella battaglia del 26 ottobre. Era disceso dalla nave Sicilia con la compagnia di sbarco. Quando giunse la notizia, tutto il popolo della città vecchia passò in pellegrinaggio per la casa della madre; che si chiama Serafina Daddario. Ferito a Bengasi fu il marinaio Luigi Carmineo, tra i primi a sbarcare sotto il fuoco, in una barca gettata dalla nave Amalfi. Nella parte occidentale della città vecchia, nella Piazza Mercantile, sta su quattro gradini il Leone veneziano, con incise nel collare le parole «Custos iustitiae». Dopo la spartizione di Costantinopoli, Venezia per assicurarsi il possesso delle Cicladi concesse che cittadini armatori di galèe ne tentassero l'acquisto a lor rischio e pericolo. Fu allora composta per accordo una compagnia di patrizii, la quale armò una squadra di corsa e la diede in comando a Marco Sanuto. Il Sanuto non soltanto s'impadronì delle Cicladi, ma anche delle Sporadi e delle isole sparse lungo la costa dell'Asia Minore. Egli fu investito della signoria feudale di Nasso e d'Amorgo; poi, per decreto dell'Imperatore latino di Costantinopoli, ebbe il titolo di duca dell'Egeo, con autorità su tutte le isole distribuite in feudo ai suoi compagni d'armi, insuperabili marinai. Martino Zaccaria, figlio di Niccolò, per la sua prodezza e per i suoi ardimenti si guadagnò il favore di Filippo di Taranto, imperator titolare di Costantinopoli e principe d'Acaia, a tal punto che costui lo nominò con diploma in data del 26 maggio 1315 re e despoto dell'Asia Minore e gli diede inoltre Marmara, le Enusse, Tenedo, Lesbo, Chio, Samo, Icaria e Coo, con tutti i diritti regali e con tutte le insegne della regalità. In compenso, Martino s'assumeva il carico d'aiutarlo, con cinquecento uomini, a riconquistare il trono di Costantinopoli. Questo Zaccaria con imperterrito zelo proseguì l'alleanza disegnata contro i Turchi da Marin Sanudo nel 1329. Le sue spedizioni contro gli infedeli furon quasi sempre vittoriose. Sembra che, durante i quindici anni di suo governo in Chio, egli ne uccidesse più di diecimila. Come re dell'Asia Minore, aveva diritto di battere moneta. Esistono ancóra monete d'argento del suo conio, con l'imagine di Santo Isidoro patrono di Chio. Dopo avventure ammirabili, liete e tristi, nel 1343 si congiunse ai Crociati che facevano oste contro Omar principe d'Aidin per impadronirsi delle Smirne; e cadde nella sanguinosissima battaglia del 15 gennaio 1345. Egli può esser considerato come un vero eroe nazionale ligure, stupendo rampollo di quella cavalleria greco-franca che aveva già sfolgorato di gloria sul Mediterraneo. Converrebbe rinnovellare le lodi che gli inalza Uberto Foglietta nei suoi Elogia clarorum Ligurum. Erano nel XIII secolo gli Zaccaria di Castro tra le più opulenti e possenti famiglie di Genova. Traevano essi gran parte della lor ricchezza dalle miniere di allume esercitate nel territorio di Focea. Quando il capitano popolano Simon Vignoso, partitosi di Genova col naviglio nella primavera del 1346, ebbe riconquistata Scio, il Comune dovette ben tenere il patto di rifondere agli armatori e conduttori della guerra tutte le spese rilasciando alcuna parte di certe rendite dello Stato. Ma, essendo assai smunto l'erario, il Governo stipulò con i capi della spedizione, il 26 febbraio 1347, un accordo che lor conferiva per anni ventinove il dominio utile e l'amministrazione di Scio e di Focea Vecchia e Nuova, riserbando alla Republica la ragion della spada e del sangue ed il mero e misto imperio (merum et mixtum imperium). Ogni padron di nave per tale accordo aveva facoltà di partecipare al guadagno prodotto dal commercio del mastice e dell'allume e dalle gabelle nei paesi conquistati. Così fu tra i conquistatori di Scio costituita la società chiamata Maona, la cui storia gloriosissima è da ricordareagli Italiani tutta quanta, dalla romana severità di Simon Vignoso ai diciotto giovini martiri Giustiniani. Il nome di Giustiniani presero poi i Maonesi, come per congiungersi in una vasta famiglia e dinastia, rinunciando ciascuno al nome suo proprio. E la Maona fu detta allora dei Giustiniani di Scio. I primi dodici socii della corporazione, che fecero la rinunzia e assunsero il nuovo nome, furono: Nicolò Caneto, Giovanni Campi, Nicolò di San Teodoro, Gabriele Adorno, Paolo Banca, Tommaso Longo, Andriolo Campi, Raffaello di Fornetto, Luchino Negro, Pietro Oliverio e Francesco Garibaldo. Il commercio più importante e più remunerativo per la Maona era quel del mastice, prodotto nei quattro distretti meridionali di Chio e raccolto da speciali agenti «officiales super recollectionem masticis». I dinasti di Scio furono anch'essi tocchi dall'Umanesimo. Ornatissimo fra gli altri fu quell'Andriolo Banca che, in grazia al suo sapere, divenne amico di Eugenio IV. Cantò in versi italiani la guerra del 1431 contro Venezia. Le lettere di Ciriaco d'Ancona a lui dirette hanno molti curiosi particolari su le rovine del Tempio d'Apollo in Cardamyla e sul monumento d'Omero; presso il quale Andriolo aveva costrutto all'ombra dei pini e al murmure d'un fonte una casa «omerica», procul negotiis. Nella evocazione del sublime marinaio greco Costantino Canaris, si allude alla impresa da lui compiuta contro il naviglio di Kara Alì ancorato in Cesmè, la notte del 18 giugno 1822. Egli aveva per compagno Pepinos nativo di quell'ammirabile Hydra «sì nuda che in qualche luogo manca la terra per seppellire i morti», di quell'Hydra che fu diletta ad Andrea Miaulis, all'audacissimo navarca sepolto nel Pireo presso la tomba di Temistocle. I giovani palermitani dovrebbero in giorno di vittoria sospendere una corona votiva al monumento del Canaris nella loro Villa Giulia. Lazaro Mocenigo, se bene inimitabile anche nel peccare, meriterebbe d'esser canonizzato e proposto al culto di tutti i marinai italiani. Forse neppure il Miaulis può essergli paragonato in audacia. Se l'arte lunga e la vita breve concedessero all'autore di questa Canzone il poter compiere tutto quel che disegna, egli vorrebbe scrivere la biografia di tanto eroe per metterla nelle mani d'ogni guardiamarina della razza di Mario Bianco. Su la stupenda battaglia dei Dardanelli convien rileggere le pagine del cronista testimonio riferite da Gerolamo Brusoni nella sua Istoria dell'ultima guerra fra i Veneziani e i Turchi. Implacabile e infaticabile il vittorioso «volle la sera stessa fare l'ultima prova; e così, seguitato da quattro o cinque altre delle sue galere più rinforzate, intraprese di nuovo come la mattina la caccia delle nemiche; dovendo intanto gli altri due generali col resto delle galere scostarsi col favor della notte a danneggiare quelle che erano fermate in terra, e se non fosse loro riuscito di tirarle fuori, incendiarle almeno. E però stavano già formando d'una tartana un brulotto per condurvelo sopra. Ma dopo un difficoltoso proveggio, arrivato il Mocenigo sotto le batterie de' Barbieri, che non meno furiose della mattina offendevano gravemente le sue galere (avendo ammazzato sopra la Reale quindici o sedici uomini, ed altri sopra la Provveditora, atterrato l'antenna sopra alla Capitana di Golfo, e rotto il timone e parte della ruota alla Commissaria) quando già stava per abbordare i legni fuggitivi, fu da una palla fatale colpito in Santa Barbara: onde preso fuoco la munizione fece subito volare in aria la sua galera, non essendo restato intiero che l'arsile con la poppa dove stando egli a Vigilare il comando non si abbrucciò: ma cadendogli su la testa l'asta dello stendardo del calcese, lo fece cadere subito morto». Il Mocenigo aveva perduto un occhio, il destro, alla battaglia del 26 di giugno 1656 nelle acque di Scio, ove Lorenzo Marcello perse la vita. Venti navi del bassà Kenaan caddero in mano dei Veneziani, preda fra le più insigni del mare. La prima edizione delle Canzoni della Gesta d'Oltremare fu sequestrata il 24 gennaio 1912, a motivo di alcune terzine della Canzone dei Dardanelli, che, a detta dell'Autorità politica, suonavano «ingiuriose verso una potenza alleata e verso il suo Sovrano». Nella seconda edizione, che fu la prima per il pubblico, le suddette terzine furono soppresse, e surrogate da puntini con la seguente postilla: «Questa Canzone della Patria delusa fu mutilata da mano poliziesca, per ordine del cavaliere Giovanni Giolitti capo del Governo d'Italia, il dì 24 gennaio 1912. G. d'A.». La terza edizione uscita nel luglio 1915, e questa definitiva, cambiati i tempi e gli uomini, sono integrali; comprendono cioè anche le terzine che furono allora soppresse. La canzone di Umberto Cagni I tre compagni di Umberto Cagni nella spedizione polare partita con le slitte dalla baia di Teplitz la domenica 11 marzo 1900, rimasti con lui dopo il rinvio degli altri due gruppi, furono Giuseppe Petigax, Alessio Fenoillet, entrambi di Courmayeur, e il marinaio ligure Simone Canepa di Varazze. Espeditissimo fu il Cagni. Superò ogni altra conosciuta celerità sul ghiaccio dell'Oceano artico. Percorse seicento sette miglia in novanta cinque giorni. Fritjof Nansen faceva nel periodo migliore cinque miglia al giorno. Il nostro ne fece dieci. Il pensiero della celerità lo assillava di continuo. «La mancanza di luce prima, il freddo intenso poi, mi hanno impedito di oltrepassare e talvolta di raggiungere le otto ore di marcia. Vedo che i miei uomini in queste marce e nel lavoro d'accampamento, con tenacia di volontà ammirevole, dànno quanto possono dare nella massima misura. Ritengo che in queste condizioni sarebbe imprudente richiedere uno sforzo maggiore da essi. Ed ora il vento che soffia violento e la neve che ci involge ergeranno nuovi ostacoli at nostro cammino. Eppure ad ogni costo bisogna che questo sia più rapido! (domenica 18 marzo).» Il 25 marzo, costretto a far senza guanti il lavoro improbo del riattare le slitte, vide formarsi una vescica «all'estremità dell'indice della mano destra, già congelatasi due altre volte». «L'indice della mano destra mi tormenta continuamente da alcuni giorni, ma non lo scopro mai per timore d'infettarlo, e poiché a nulla ciò servirebbe, non avendo né tempo né modo di curarlo. Lo guarderò il giorno del ritorno (mercoledì 11 aprile).» Il lunedì 23 aprile egli doveva superare il termine raggiunto dallo Scandinavo. «Il ghiaccio cigolava da tutte le parti e si incavalcava, e rumoreggiando ergeva dighe: canali serpeggianti si aprivano e ove altri si richiudevano nuove dighe s'inalzavano. Mai avevo veduto il ghiaccio così vivo, così palpitante, così minaccioso. I cani intimoriti guaivano e si arrestavano; noi li spingevamo con la voce e affannosamente aiutavamo or una slitta, or l'altra.» «Nei brevi riposi ci guardavamo sorridendo, ma nessuno parlava; forse ci pareva che la nostra voce dovesse rompere l'incantesimo che ci conduceva alla vittoria...» Il dolore del dito lo tormentava sempre. Bisogna leggere nel Diario con quale atroce pazienza egli stesso operò il taglio della parte annerita. Per recidere l'ossicino sporgente, dolorosissimo, con un paio di forbici comuni, impiegò quasi due ore. «Canepa ad un certo momento non ha più resistito ed è scappato fuori della tenda nonostante il vento e la neve.» Rinunziava a lavare la piaga col sublimato «per risparmiare tempo e petrolio». Come più crescevano gli stenti e gli impedimenti, più gli cresceva l'energia. «Mi sembra di avere una nuova grande energia fisica, conseguenza forse di quella morale potentemente eccitata dal pericolo, dalla lotta per la nostra conservazione e da un desiderio infinito che supera forse quello della vita: dal desiderio che tutte le nostre fatiche ed i nostri sacrificii non vadano perduti, che l'Italia sappia che i suoi figli dalla lotta secolare, nuova per essi, escono con onore...» Con ancor più veloce energia la spada di Bu-Meliana fu stretta, sul limite del Deserto libico, dal pugno cui mancava la falange congelata nel Deserto artico. La canzone di Mario Bianco Le due prime terzine alludono alla giovanissima figlia di Bartolomeo Colleoni, a quella vergine Medea sepolta nella stupenda Cappella costrutta in Bergamo dall'arte di Giovan Antonio Amadeo, dell'architetto scultore che lavorò al fronte della Certosa di Pavia e all'interno del Duomo di Milano. Vedi nelle Città del Silenzio i tre sonetti su Bergamo. Francesco Nullo (1826-1863) bergamasco condusse nelle Cinque Giornate la sua colonna di prodi, con prodezza senza pari. Fu, poco dopo, nel Trentino alfiere potentissimo. Militò alla difesa di Roma nella legione dei lancieri. Fu in Bergamo alcun tempo prigioniero del Governo austriaco. Dal 1859 al 1862 seguitò il generale Garibaldi, dando continue prove di valore sublime. Nel 1863, con sedici bergamaschi ed altri pochi giovani d'altre province, partì per soccorrere la Polonia insorta. Il cinque maggio, nella giornata di Krzykawka, rimase ucciso sul campo da una palla che gli forò il petto generoso. Così egli è rappresentato a Palermo, nella Canzone di Garibaldi: «Il maschio Nullo a cavallo oltre la barricata con la sua rossa torma, ferino e umano eroe, gran torso inserto nella vasta groppa, centàurea possa, erto su la vampa come in un vol di criniere...». Paràlia era detta la trireme sacra che, ornata di ghirlande, trasportava la teoria a Delo. Mario Bianco nacque in terra d'Abruzzi, a Fossacesia, nell'antica regione frentana. Quivi, sopra un'altura querciosa che domina l'Adriatico, sorge la Basilica di San Giovanni in Venere, così detta dal ricordo di un tempio di Venere Conciliatrice che coronava il promontorio. Insigne d'architettura, la Badia fu ricca, potente e variamente mista alla storia religiosa e civile dell'Abruzzo chietino. Nel 1194 vide dalla sottoposta marina partire le galèe di quella Quarta Crociata che doveva rinnovare l'egemonia italica nel bacino orientale del Mediterraneo e fondare l'Impero latino. Nell'immenso spazio di mare, che la vista abbraccia dall'altura sonora di querci, appariscono in lontananza le Tremiti, le isole che gli antichi chiamarono Diomedee dal nome di Diomede figlio di Tideo, socio di Ulisse; perché la tradizione recava che quivi i compagni del guerriero si fossero trasfigurati negli uccelli marini che abitavano le rupi e accoglievano con grandi clamori di giubilo chiunque di stirpe ellenica vi approdasse. I marinai morti nello sbarco di Bengasi furono sei: Gianni Muzzo di Gallipoli, Alfieri d'Alò e Giuseppe Carlini di Taranto, Nicolò Grosso di Carloforte, Salvatore Marceddu di Cagliari, Giovanni de Filippis di Salerno. Il guardiamarina Mario Bianco comandava due cannoni sbarcati a viva forza e situati su le dune della Giuliana, a ostro della Punta. Egli fu sorpreso alle spalle da uno stuolo di Turchi e di Arabi che vennero all'assalto con grande impeto. Mentre dirigeva il fuoco de' suoi uomini e rispondeva egli medesimo scaricando la sua pistola, fu colpito da una palla all'inguine. Perdeva sangue; non volle essere sorretto; continuò ad animare i suoi marinai. A ostro della Giuliana, sotto un gruppo di palme, cadde. Il suo corpo fu veduto riverso nella sabbia, con le gambe penzoloni nella fossa d'una trincera dove un colpo d'una delle nostre mitragliatrici aveva abbattuto e ridotto in orribile carname un mucchio di venti Arabi. La terzina che reca le parole: «Ricòrdati ed aspetta» è formata con emistichii tratti dai sonetti che fanno da preludio ai Canti della morte e della gloria cominciando: «O Verità cinta di quercia, canta la tristezza del popolo latino...» «La gloria fu» sono le prime parole del terzo sonetto, che finisce con questi versi qui citati ad onore: «Alziamo gli Inni funebri, sul gregge ignaro, alla Potenza che ci lascia, alla Bellezza che da noi s'esilia. Implacabile è il Canto, e la sua legge. E però leva su, vinci l'ambascia, Anima mia. QUESTA È LA TUA VIGILIA» E così comincia l'ode piena di presagio che prelude ai Canti della ricordanza e dell'aspettazione: «Il sole declina fra i cieli e le tombe. Ovunque l'inane caligine incombe. UDREMO SU L'ALBA SQUILLARE LE TROMBE? Ricòrdati e aspetta». LIBRO QUINTO CANTI DELLA GUERRA LATINA Ode pour la résurrection latine I. Quelle horreur et quelle mort et quelles beautés nouvelles sont partout éparses dans la nuit? Quel vent prodigieux excite toutes les flammes en travail dans le firmament latin? Le jour est proche! Le jour est proche! O mes odes, filles rapides de la fureur et du feu, quel dieu, quel héros, quel homme exalterons-nous au jour certain? Je ne suis plus en terre d'exil, je ne suis plus l'étranger à la face blême, je ne suis plus le banni sans arme ni laurier. Un prodige soudain me transfigure, une vertu maternelle me soulève et me porte. Je suis une offrande d'amour, je suis un cri vers l'aurore, je suis un clairon de rescousse aux lèvres de la race élue. II. Voyez, je tremble. Voyez, je chancelle, je suis ivre d'amour et d'épouvante. Il vient, Il vient le Seigneur invoqué. Il enflamme la nuit; et l'on n'entend pas, dans le vertige du sang, le battement de sa force. Or, Il dit: «Qui donc enverrai-je, ô annonciateur de choses saintes? Qui donc ira pour nous?». Je dis: «Me voici. Envoyez-moi, Seigneur. Avec quel signe? pour quel pacte?». Je connais le signe, je sais le pacte. J'obéis à son commandement et j'accomplis le vœu de mon âme. Je n'ai plus de chair ni d'os autour de mon âme haletante pour franchir les fleuves et les monts. Déjà sur la borne milliaire, à la clarté des Pléiades, je lis le nom ineffable. Et j'entends les chevaux des Dioscures hennir. III. J'entends sur l'antique basalte, dans la mine d'Ostie, résonner le pas de Celle qui seule rompt l'incertitude du combat. Vient elle du bois de Laurente? Va-t-elle vers la route des Tombeaux? Elle marche le long des môles noyés, elle passe entre les deux pierres droites qui désignent la Porte Marine. N'écoute-t-elle pas si la Nef chargée de la fortune de Rome fend de nouveau la vase du fleuve blond? Les lauriers, autour de ses tempes, se hérissent et brillent comme les fers des javelots; car elle sait de quelle herbe, bien plus âpre que la verveine, faudra-t-il couronner la proue aiguë, et de quel sang, bien plus noir que l'égorgement de la génisse sans tache, faudra-t-il teindre la poupe carrée. IV. O Victoire, sauvage comme la cavale qui paît l'asphodèle dans le désert romain, jeune comme Rome alors que la sombre aurore fut traversée par le vol des douze vautours, toi que je vis sur l'aridité sublime bondir du roc d'Ardée et dans le bond resplendir toute au soleil blanche comme la poitrine du héron, ô Désirable, si jamais seul et anxieux j'interrogeai tes vestiges loin du peuple vêtu d'ignominie et de paix; si jamais à tes autels j'apportai mon offrande tandis que sur tes palmes, comme sur une litière pourrie, l'astuce et la peur, vaches baveuses, ruminaient le mensonge; si jamais en ton nom je reprochai son opprobre à la Reine des Royaumes corrompue et polluée par les mains des vieillards; si jamals je fus ivre de ton regard changeant, ô Vierge, accompagne mon message, affermis ma voix! V. Car, ô Mâle, tel le fécial criait les noms des villes sœurs et jurées en brandissant le javelot vermeil, tel à grande voix je crie, par-dessus les sépulcres, où les os de nos morts s'émeuvent comme les racines au printemps, je crie et j'invoque les deux noms divins, les plus hauts de la terre, jusqu'à ce que le ciel entier s'enflamme de la double ardeur et que toutes les sources taries rejaillissent et se mêlent en un seul torrent indomptable, je crie et j'invoque: «O Italie! O France!». Et j'entends, par-dessus les sépulcres fendus et par-dessus tes lauriers hérissés Victoire, le tonnerre des aigles qui se précipitent vers l'Est et de toutes leurs serres déchirent la nuit. Le jour est proche! Voici le jour! VI. Voici ton jour, voici ton heure, Italie; et, pour cette heure des années merveilleuses, la plénitude de tes allégresses! L'ai-je annoncée avec les bûchers et avec les hymnes? l'ai-je appelée dans la vigile et dans l'attente? l'ai-je hâtée par la rancune et par l'amour? Les pieds graves du Destin se transmuent en ailes soudaines; et sur son front marmoréen s'allume la flamme à deux cornes que portait le Libérateur au-devant du champ couvert de rosée. C'est le signe! c'est le signe! Choisis d'être souveraine ou serve, choisis de monter ou descendre, choisis de vivre ou périr. Je te montre le signe. Malheur à toi si tu doutes, malheur à toi si tu hésites, malheur à toi si tu n'oses jeter le dé. VII. Vae victis! Les quatre vents du monde soufflent la bataille, sur la mer où les phares s'éteignent, sur le continent qui s'éclaire au fond des villes embrasées. Vae victis! La force barbare nous appelle au combat sans merci. Comme la horde traînait dans ses chariots couverts de peaux fraiches les concubines innombrables pour les rassasier de carnage et les enivrer d'hydromel, ainsi elle amène toutes les hontes derrière ses hommes comptés en bétail à deux pieds, pour qu'ils couchent avec toutes dans leur sang épais qui est le rouge frère de la boue, tandis que le vautour à deux têtes, le maître puant au double cou dénudé, pousse son cri lugubre et rejette la charogne mal digérée. Vae victis! Souviens-toi de Mantoue. VIII. N'oublie pas les potences chargées de tes martyrs, et cette corde inusable dont le Pendeur décrépit ceignit ses reins, pieux cordelier du Gibet. N'oublie pas les mains lourdes de bagues que l'Autrichien fuyard coupait en hâte aux poignets de tes femmes hurlantes. Qu'elles giflent l'Oint du Spielberg, chaque nuit, dans ses rêves mornes, sur l'oreiller taché, jusqu'à l'heure du trépas! Qu'elles se dressent contre sa prière, chaque matin, dans la maison de Dieu, quand il fléchit ses vieux genoux, qui craquent comme le bois des fourches, pour recevoir l'hostie pure sur sa langue empâtée! Souviens-toi. Je veux peser ma haine dans ta balance. Je veux brûler ton cœur, sans trêve, avec des mots pour brandons. IX. Je te le dis, je ne te donnerai pas de trêve jusqu'à tant que mon souffle soit chaud entre mes dents. Mon dieu m'a fait un front plus dur que leurs fronts. Les strophes vengeresses, forgées pour l'infamie comme pour le fer qu'on chauffe au rouge pour flétrir la joue et l'épaule du traître et du larron tu les laissas mutiler, en silence, par la main vile du châtreur; et je bus en silence mes larmes, qui armèrent mon âme secrète d'une amertume immortelle. Or, je te jure, par tes sources et tes fleuves, par tes trois mers et tes cinq rivages, par tes enfants non conçus encore, par tes ancêtres non encore vengés, je te jure que tu sculpteras avec l'acier froid chaque syllabe dans la pierre de Pola romaine sur l'Adriatique reconquise au Lion. X. Ton jour est proche! Voici ton jour doré! Ta sœur se tient debout dans le soleil. Elle a vêtu sa robe guerrière de pourpre. Elle a mis de doubles ailes à ses pieds nus. Lavée dans ses pleurs ardents, lavée dans son sang amer, fleur sublime de la discorde, elle ne fut jamais si belle, aux jours mêmes de ses royautés. De toutes ses plaies qui gouttent elle fait une rosée merveilleuse; avec la multitude de ses maux elle rallume l'étoile de son matin! Sa volonté de vaincre, dans ses yeux clairs luit comme la hache à deux tranchants. Elle est prête à chanter, comme l'alouette, sur tous les sommets de la mort. Rassise, de ses mains infatigables, elle tissera la toile du monde nouveau. Qui est contre elle, sinon le barbare? Et qui sera près d'elle, sinon toi? XI. Nous sommes les nobles, nous sommes les élus; et nous écraserons la horde hideuse. Nous combattrons, la face à la lumière. Nous sourirons quand il faudra mourir. Car, pour les Latins, c'est l'heure sainte de la moisson et du combat. O femmes, prenez les faucilles et moissonnez! Apprêtez le pain nouveau à la faim nouvelle! Vos hommes frapperont fort, serrés comme les épis, dans la bataille, rang contre rang, comme les blés drus sous le vent d'est. O Victoire, moissonneuse farouche, je sens sur mon front, dans l'attente, la fraicheur du matin. Comme le prêtre de Mars aux enfants de Lanuve, je dis: «Vous avez entendu ce qui plait au dieu. Hâtez votre heure, obéissez, partez. Vous êtes la semence d'un nouveau monde. Et les aurores les plus belles ne sont pas encor nées». 13 août 1914. Sur une image de la France croisée peinte par Romaine Brooks I. Ont-ils haussé l'éponge âcre au fer de la lance contre sa belle bouche ivre du Corps Très-Saint? La Croix sans Christ, qui souffre au-dessus de son sein n'est que la double entaille acceptée en silence. Mais son œil est plus clair que la claire Provence, mais son cœur est plus doux que le printemps messin. Elle oint de sa douleur la force qui la ceint, elle noue à ses pieds percés la Patience. Et le vent du combat et l'or du jeune jour et les avrils non vus et l'amour de l'amour et les chants non chantés vivent dans son haleine La bandelette pure à son front est un feu blanc qui conduit les morts. Et l'on voit sur la plaine tomber de son manteau la grande ombre d'un dieu. II. O face de l'ardeur, ô pitié sans sommeil, courage qui jamais n'écarte le calice, force qui fais avec tes chairs ton sacrifice et ta libation avec ton sang vermeil! Sur quel bûcher, sous quel signe, pour quel réveil, à quel Avent ta foi chantait dans le supplice? Plus haut que l'alouette à l'aube du solstice, on vit soudain ton cœur bondir vers le soleil. Car toute entière en toi lève la bonne race. Là-bas, d'entre les neuf preux, sourit à ta grace mâle, par les barreaux de l'armet, Duguesclin. Tu as communié, dans ta sainte vêture, sous l'espèce du sol. Mais, couronné de lin, ton front semble souffrir d'une étoile future. III. France, France la douce, entre les héroïnes bénie, amour du monde, ardente sous la croix comme aux murs d'Antioche, alors que Godefroi sentait sous son camail la couronne d'épines, debout avec ton Dieu comme au pont de Bouvines, dans ta gloire à genoux comme au champ de Rocroi, neuve immortellement comme l'herbe qui croit aux bords de tes tombeaux, aux creux de tes ruines, fraiche comme le jet de ton blanc peuplier, que demain tu sauras en guirlandes plier pour les chants non chantés de ta jeune pléiade, ressuscitée en Christ, qui fait de ton linceul gonfanon de lumière et cotte de croisade, «France, France, sans toi le monde serait seul!». IV. Et voici le printemps de notre amour. Exulte dans ton sang et jubile au bout de ta douleur, quand même tu n'aurais à cueillir d'autre fleur que le héros jailli de la racine occulte. «Sonnerai l'olifant», dit l'Ancêtre. O tumulte de tes chênes! O vent de l'immense clameur! Hauts sont tes puys, tes vaux profonds. On meurt, on meurt, et chacun de tes morts dans ta beauté se sculpte. Entendez le signal, combattants, combattants, âmes prises aux corps corame aux ceps le printemps, comme aux poignets les fers, les bannières aux hampes. Roland le comte sonne; et tout en est fumant, et en saigne sa bouche, en éclatent ses tempes «Frappez, Français, frappez! C'est mon commandement!». 5 mai 1915. Tre salmi per i nostri morti I. 1. Or il braccio di Roma era inalzato, la destra di Roma era levata a percuotere, a rompere. 2. Ma più non vedevamo i nostri segni, né v'era con noi profeta, né con noi alcuno che sapesse fino a quando. 3. E s'udiva romore di moltitudine sopra l'alpe, simile ad ànsito di schiere che s'accalcano, 4. il gran fumo dell'incorrotto sangue salendo dalle vette e dalle valli su pe' cieli e su pe' secoli. 5. E, come allor che il sole balza fuori dai monti nella sua possa, una voce sonò senza carne, che diceva: 6. «Finché non sieno beati i tuoi morti, o Roma; finché non sien per te beati e santi coloro che avran parte nella prima resurrezione». 7. E, come svola il brandello del panno dal corpo dell'ucciso avvolto nella vampa dello scoppio, fuggì la mia pochezza nell'ardore. 8. E respirai il respiro dei nostri morti, oltre la vita e oltre l'orizzonte, maschia speranza alata; 9. ché la mia speranza era nell'ombra delle mie ali d'uomo, a sommo dello spazio combattuto; 10. e non la piota né il sasso era quivi, da pontarvi il calcagno, da stramazzarvi giù rovescio o prono, 11. non luogo di periglio misurato dalla statura, non fosso cupo, né abbattuta d'alberi, né sacco, né palanca, né fascina, 12. non l'acre cecità della battaglia in deserto sconvolto o su vulcano fragoroso; 13. ma tutto il firmamento m'era, come all'aquila, regno e rapina, visione e verità, ricordanza e promessa. 14. E, non più soma greve d'orgoglio ma rapida virtù senza peso, io vedeva nella battaglia immensa il figliuolo e la madre, la terra e la creatura, 15. come una sola volontà, come una sola bellezza, come una sola potenza, come un dolore solo, come una gloria sola. 16. E rinascere udii nell'aereo cuore la parola antica e santa: «Cercate la mia faccia». 17. Io cercai la tua faccia, o Patria. Con occhi mortali, con occhi immortali, con le pupille della mia fronte breve e con lo sguardo dell'infinito genere, io cercai la tua faccia, o Patria. 18. E dal ghiacciaio insino alla laguna, dalla rocca dell'alpe insino alla landa petrosa, dal pascolo ch'è presso il fiume insino alla barena su la bocca del fiume, dalla città che ingemma il monte insino alla città che addenta il mare, 19. m'apparì la tua specie, mi splendette la tua forma, mi ricorse il tuo numero. 20. E nel mio petto, più fragile che la cèntina di pioppo entro il lino della mia ala levigato, si precipitò un turbine d'amore senza schiantarlo. 21. «Il tuo testimonio è nei vertici, o Patria, il tuo testimonio è nei luoghi sovrani; il tuo testimonio è nelle pianure, il tuo testimonio è nell'umiltà. 22. Tu signoreggerai da un mare all'altro. I campi distrutti tu li seminerai di seme eterno. Le città disfatte tu le riedificherai col granito dell'alpe liberata. 23. Tu spezzi le mascelle del nemico e gli fai gittar la preda di tra i denti. Tu rompi a una a una tutte le sue chiusure, e tu metti in ruina le sue fortezze. 24. Condotte come mandre, spartite come branchi sono le sue schiere. Le tue son come sacrificii di giustizia, son come olocausti di purità, son come offerte da ardere interamente. 25. Una corona brilla sopra esse, come sopra la chioma delle vergini. Il sorriso precede la prodezza, e riappare dopo l'agonia. La morte è chiara come una vittoria. 26. O Patria, i tuoi primogeniti han segnato il tuo patto, e i tuoi ultimi nati hanno appreso il verbo che tu hai comandato. Non nascondere mai più da loro il vólto tuo.» 27. «Cercate la mia faccia vivente» comandò nel turbine il tuo verbo. «Cercate la mia faccia di sangue e di sudore, di passione e di anelito.» 28. E i geli e le acque, e le rupi e i macigni, e le sabbie e le erbe, e le selve e le mura, e tutte le cose terrestri, sotto il vento della rapidità, si trasmutavano. 29. E io vidi la tua faccia di sangue e di sudore, di passione e di anelito. Vidi te fatta carne, fatta come la carne dei tuoi figli; 30. ché intrisa t'avea da capo col sudore e col sangue la Guerra, rimenata ti avea come pasta di frumento, ricresciuta come farina lievitata. 31. Tal donna rude sopra l'asse calca il novo pane con le pugna e co' ginocchi a farlo più tegnente, tutta di vene enfiata come nell'ira; e dietro a lei rugge la fiamma chiusa. 32. Rimescolata area la tua sostanza con la sostanza de' tuoi figli la Guerra; ricacciati i tuoi figli nella tua profondità. Ecco, e i tuoi morti erano i tuoi nati! 33. Ecco, e la faccia de' tuoi morti era come la tua faccia vivente, o Patria! E quanto più si combatteva, tanto eri più bella. E quanto più si moriva, tanto eri più dritta. 34. Si combatteva anche dal cielo, sopra i luoghi eccelsi delle nuvole. Le tue stelle combattevano dai lor cerchi, o Italia? Non gli angeli versavano su la terra e sul mare le coppe ferree dell'ira di Dio, ma gli uomini armati d'ali senza penne. 35. O rombo dell'alta rapina! I fratelli di giù levavano le ciglia divampate dal fuoco e l'anima ansietata d'altezza. 36. Ma presi erano nella terra, tenuti erano dalla terra, profondati in essa, intrisi con essa, carname con zolle, ossame con selci. 37. E morivano. E come i corpi loro formavano il tuo corpo, così gli spiriti loro facevano il tuo fiato, o Patria, il tuo fiato possente. 38. E gli uomini alati, sospesi nel mezzo del cielo come in sommo d'un'anima immensa, sentirono l'ala di ferzi e di verghe vivere come se l'agitasse con l'òmero divino la datrice di quercia, la datrice di lauro. 39. E tu dicevi: «Or chi mi condurrà nella città fedele? chi mi menerà insino al mio bel colle di San Giusto? chi mi guiderà, lungo le colonne e lungo i secoli, a cogliere la palma che m'aspetta?». 40. I morti, Italia, i tuoi morti. 41. E tu dicevi: «Or chi mi reca le dolci mie città della marina come Eufrasio il martire con le mani velate offre il suo tempio di Parenzo a Dio?». 42. I morti, Italia, i tuoi morti. 43. E tu dicevi: «Con chi passerò io per la Porta Gèmina e sotto l'Arco dei Sergi e tra le sei colonne di Cesare Augusto, nella mia sacra Pola? con chi m'affaccerò sul mare, per gli ordini del bianco Anfiteatro, a noverar le navi imprigionate?». 44. Con Roma, o Italia, con Roma e con i tuoi morti. 45. E tu dicevi: «Io trionferò. Io romperò il nemico nella mia terra e io lo calcherò sopra i miei monti. Io spartirò le Giudicarie, misurerò la valle dell'Isonzo, riscolpirò le rosse Dolomiti. 46. Mia nell'alpe è la città che Dante cuopre; mia sul golfo quella dove approda, sceso dall'alpe, il giovinetto sanguinoso, vittima integra e novo pegno certo. 47. Mie tutte le città del mio linguaggio, tutte le rive delle mie vestigia. Mando segni e portenti in mezzo ad esse. 48. Ma in Zara è la forza del mio cuore; su la Porta Marina sta la mia fede, ed in Santa Anastasia arde il mio vóto. Grida, o Porta! Ruggi, o città, coi tuoi Leoni! A te darò la stella mattutina. 49. A te verrò, e di sotto alla tavola del tuo altare trarrò i tuoi stendardi. Li spiegherò nel vento di levante. O mare, non mi rendere i miei morti, né le mie navi. Rendimi la gloria». 50. E allora udita fu dall'alto una voce senza carne, che diceva: «Beati i morti». Fu intesa una voce annunziare: «Beati quelli che per te morranno». II. 1. In qual pianura, in qual chiostra di rocce, lungo quale fiumana, tra quali torrenti, sopra quale carnaio senza croci, in vista di qual città fumante, sarà oggi celebrato il sacrificio del Corpo e del Sangue di Cristo? 2. L'obice romba sul Monte Nero, il mortaio tuona sul Pedimonte. Tutto il Carso è fragore di ruina. Nella valle del Fella si combatte, ed in Plava selvosa; si combatte al traghetto di Canale, e nella conca di Plezzo dalle quattro gole. 3. Sono scrollate le guardie di Tolmino. Gradisca croscia, gialla di foglie e d'ira; rugghia l'Isonzo alle chiuse di Sagrado; e Monfalcone dall'artiglio veneto, co' suoi scafi di ferro su le travi nere, arde in vista di Duino folgorato, rogo navale. 4. O Vescovo castrense, i tuoi fanti hanno parato il legno dell'altare con le coperte brune ove giacquero a notte entro la fossa, ove all'alba taluno sanguinò. Qualche grumo è forse tra le pieghe. Ma la tovaglia è candida, come la cima della Dolomite nel cielo eterno. 5. E v'è silenzio come in quell'altezza, silenzio inviolabile. 6. O Vescovo di Dio, primate della strage, oggi la tua preghiera ha per guglie le baionette in asta, per istromenti le batterie coperte, che s'intonano in coro come il saltero e il flauto, come il cembalo e la ceteca nell'alleluia. 7. Inginocchiate sono le tue milizie, sotto l'irta selva dei ferri chine le teste floride, chine le facce imberbi. Irta ed aguzza è la preghiera, e senza canto. 8. L'Operaia terribile trascorre dal primo all'ultimo e dall'ultimo al primo. Segna gli eletti. Metà ne prende. Tutti anche li prende. La lanugine brilla su le gote come su i pioppi l'oro dell'autunno. 9. Bello è taluno, come un iddio del Fòro. E dice il sacerdote: «Dal profondo io ti chiamai». Dice l'antiste: «Giacciono nella polvere, addormentati sono nella polvere; perciocché il riposo di tutti egualmente sia nella polvere». 10. Chiamali, o Patria. Dove sono i tuoi morti? Sollevali dal profondo, a uno a uno, ciascuno pel suo nome, e i sepolti e gli insepolti, e quelli che non han più viso, e quelli che son caldi tuttavia, quelli che cadono mentre tu respiri, proni o riversi. 11. Dove sono? Nei valichi dello Stelvio, nella gola del Braulio, tra le nere vette simili ai pinnacoli dei duomi, o alla soglia dei ghiacciai raggianti. Chiama, e numera. 12. Nel Tonale giacciono, sotto la punta d'Ercavallo grigia, nella malga o sul picco, là dove tagliarono la roccia come il boscaiuolo pone il conio e la scure nella rovere. 13. Dormono tra le nevi dell'Adamello e gli ulivi del Garda melodiosi, a Storo, ad Ampola, a Condino, ossa d'eroi su ceneri d'eroi, soavemente. Chiama, e numera. 14. Chiamali da Vai Daone, chiamali dal Ponale, e dalle rive del tuo Chiese cerulo dove si bagnarono ridendo, a modo di pastori, nel caldo giugno, quando le rupi rosee stillavano e i colli erano cinti d'allegrezza. 15. Chiama quelli che stanno su l'Altissimo, nella prim'alba della guerra preso come i leoni abbrancano la preda, con un sol balzo; e la rugiada fu la prima notte ne' loro pugni, quando gli astri danzavano lungo gli orli del giorno e le radici del monte giubilavano. 16. Chiama quelli che caddero in Vallarsa scorgendo di lontano biancheggiare la dolce Rovereto tra i due scheggioni che parean vermigli del lor sangue fuggente; 17. e quelli tumulati sul Salubio, al limite del bosco, nel prato eguale ove fiorisce il colchico violetto come l'asfodelo, tra le baite esanimi; 18. e quelli fitti sotto l'Armentera travagliato di bolge qual monte di castighi, o stronchi sotto le rocche dei Titani, schiantati sotto le Pale rosseggianti, sotto i mastii di Lavaredo opachi, ai piedi delle Tofane crudeli, nelle ambagi di ghiaccio e di macigno, 19. essi gli assalitori senza grido, con le funi e coi ganci, coi raffii e coi ramponi, coi lor calzari taciti di corda, coi lor pugni più duri che manopole di piastra, coi lor cuori d'invitto diamante che brilla per gli squarci dei costati. 20. Chiama e numera. Quelli che gittarono incontro alle trincee fetide e cupe l'inno di giovinezza come fascio di raggi e caddero col canto puro nella gola aperta, sepolti nei tesori della neve, quelli udranno e verranno. 21. Chiama. Quelli che rimasero su la via di Vercoglia, in notte cauta, calzati d'astuzia, accanto ai loro carri cui aveano ben unto i mozzi e fasciato i cerchi d'umida paglia accanto ai fidi cavalli dagli zoccoli avvolti di lana, quelli udranno e verranno. 22. Chiama. Quelli che caddero in co dei ponti, su l'Isonzo selvaggio, che a mezzo lasciarono i ponti di fortuna costrutti nel buio col coraggio e col legno, che si persero fra le assi fendute, fra le barche sfasciate, fra le travi divelte, si voltolarono a valle, s'enfiarono d'acqua notturna, s'impigliaron ne' vinchi o s'arrenarono presso alle foci, quelli udranno e verranno. 23. Verranno dalle balze della Val Dogna, dalla Forcella del Cianalot, dal Quaternà ripido e foggio, da tutta l'alpe indomata, gli assodatori di vie, eredi dell'arte di Roma, che per cemento diedero un sangue romano, che con le vene cementaron le selci. 24. Chiama, e numera. I frombolieri orgolesi dalle fionde di canape attorta scagliarono il fuoco e caddero, col rombo sul capo, col dito nel cappio, più belli del figlio d'Isai. Si leveranno al tuo grido, come nell'albe del Supramonte, girando la corda. 25. E il cacciator di camosci, piombato giù dal dirupo ch'egli solo calcò, rotolato col masso nel botro, si leverà di sotto alla mora. 26. E quelli che schiantò l'ala nembosa della Vittoria crosciando su la vetta di Plava, grideranno verso te ancor ebri d'assalto. 27. E colui che portò su le spalle il cadavere conteso e le prede e i trofei per entrar col fratello nel buio, tornerà col fratello alla battaglia. 28. Chiama, e numera. Lungo i recinti di Globna, lungo le trincere di Zagora, contro gli spineti di ferro, entro i ferrei forteti squarciati, al passo di Voraia, su la cresta di Vrata, sotto il Rombon tenebroso giacciono, in Saga dormono, in Oslavia sognano i tuoi morti; 29. e taluno ha la nuvola per sua coltre e la caligine per sue fasce; e taluno è covato dalla nuvola corusca, qual semidio che si rigeneri o si trasfiguri; 30. ed altri, che il nimbo irrespirabile avvolse, sta con la maschera in vólto, qual nell'occulto sepolcro il re larvato. 31. O Aquileia, donna di tristezza, sovrana di dolore, tu serbi le primizie della forza nei tumuli di zolle, all'ombra dei cipressi pensierosi. 32. Custodisci nell'erba i morti primi, una verginità di sangue sacro, e quasi un rifiorire di martirio che rinnovella in te la melodia. 33. La Madre chiama; e in te comincia il canto. Nel profondo di te comincia il canto. L'inno comincia degli imperituri quando il divino calice s'inalza. Trema a tutti i viventi il cuore in petto. Il sacrificio arde fra l'alpe e il mare. 34. Dice l'antiste: «L'acque se ne vanno via dal mare, e i fiumi si seccano e si asciugano. Così, quando l'uom giace in terra, ei non risorge. Finché non vi sien più cieli, i morti non si risveglieranno, e non si desteran dal sonno loro». 35. Risponde il canto: «O Patria, ecco, noi siamo in piè, se tu di noi ti ricordi. Se tu ci chiami ancóra, eccoci alzati. Siamo le tue ossa e la tua carne. Conta il nostro numero nel tuo numero; e ricombatteremo». 36. Dice l'antiste: «Come un monte cade e scoscende, come una rupe è divelta dal suo luogo, e l'acque rodono le pietre, così tu fai perire la speranza dell'uomo». 37. L'inno risponde: «Noi la tua speranza l'abbiamo saziata di midolla e di sangue. Ella è tremenda come belva immane. Ponila innanzi a noi, che ci conduca dove tu vai; e ricombatteremo». 38. Dice l'antiste: «O Dio, mia Rocca, perché mi hai tu dimenticato? Or io me ne vo vestito a bruno, per l'oppression del nemico, mentre mi è detto tutta notte: "Dove è il tuo Dio?"». 39. Conclamano gli eroi: «Signore Iddio delle vendette, o Iddio delle vendette, appari in gloria! 40. Quelli che stanotte hanno recato a noi buone novelle, sono stati una grande schiera e lieta. Sopra costoro e sopra noi non ha potestà la seconda morte. O Patria, eccoci alzati. Conta il nostro numero nel tuo numero; e ricombatteremo». III. 1. Io non ti mentovai, monte dell'ira, nominato dal nome dell'Arcangelo folgorante; non gridai verso te, monte di quattro gioghi, monte di quattro teschi, calvario della nostra passione. 2. Ma sì ti tacqui sopra gli altri luoghi, sopra gli altri carnai della salvezza, perché più mi cocessi nel mio petto, perché più mi grondassi e mi crosciassi nel mio profondo. 3. Quando la Patria segni nel suo numero invincibile il numero dei morti e il suo soffio moltiplichi con l'ansia degli insepolti, quale tra le schiere più disperate varrà mai quest'una che ancor si scaglia? 4. Quando nel giorno di giustizia, contro le nazioni immonde, i liberatori s'aduneranno a giudicare l'opra d'ognuno innanzi di partire e terra e mare, quali ossa avranno un tanto peso? qual misura di sangue sarà più colma? 5. Quando sopra il tumulto e sopra il crollo, sopra i regni dirotti e sopra le stirpi sradicate, sopra i naufragi e sopra i salvamenti, apparirà di sùbito la Musa ineffabile, chi le parrà più bello? 6. «Ecco, dunque, le armi son cadute dai pugni esangui. Dinanzi alla bellezza riaccesa, ora conviene rassegnare i morti. Guarda questi, contemplali in silenzio, alta eroina. 7. Non altrimenti nella greca selva giacevano i giovinetti uccisi dalla fiera o dal dardo, prima di trasmutarsi in fiore o in astro. Si compiace pur sempre l'artefice divino in questa creta. Guarda, o Novella.» 8. Io ti guardai, chinato sopra te, o figlio mio supino nella petraia fumigante, mentre tutti i gironi del monte atroce urlavano a furore. E l'immortalità ebbe il tuo vólto. 9. E la battaglia ebbe la tua bellezza. E il furore degli uomini ebbe da un dio un culmine silente. E la polla del sangue che colava calda dal tuo costato era bevuta dal duro scoglio. 10. O monte della sete, rocca di siccità, quanto bevevi! O Carso dalle bocche insaziabili, o squallido sepolcro sitibondo, un rosso fiume ai tuoi fiumi di sotterra aggiungi, se notte e dì t'abbeveri di strage? 11. Non si mescolano i due sangui avversi; ma ristagna l'impuro nelle schegge e pei botri, s'accaglia, e solo il puro corre profondamente rifiammeggiando pei meandri cavi. 12. Lo sanno i prodi: versano il sangue a gara. Lo sanno i prodi, e vuotano le vene. L'anima invitta spreme la ferita e smunge il cuore. L'ultima goccia è quella che più splende. 13. Nel bel Timavo dalle sette fonti scese a lavare il suo cavallo bianco un de' gèmini eroi; né l'acqua oblia. Ma quest'emulo suo sanguigno è tutto gloria che ferve, gloria impetuosa. 14. È una piena di gloria senza foce. È una piena di gloria che ti cerca per isboccare in te, mare dei figli, nel tuo silenzio, gorgo del futuro. 15. Allora i morti avranno un nuovo cantico, e il deserto sarà santificato. 2 novembre 1915. Ode alla nazione Serba Qual è questo grido iterato che lacera il grembo dei monti? Qual è questo anelito grande che scrolla le selve selvagge, affanna la lena dei freddi fiumi, gonfia l'ansia dei fonti? O Serbia di Stefano sire, o regno di Lazaro santo, cruore dei nove figliuoli di Giugo, di Mìliza pianto, lo sai: hanno ricrocifisso il Cristo dell'imperatore Dusciano ad ogni albero ignudo delle tue selve, ad ogni sasso ignudo dell'alpe tua fosca, gli han franto i piedi e i ginocchi a colpi di calcio, trafitto con la baionetta il costato, rempiuto non d'acida posca la sacra bocca ma di bile rappresa e di sangue accagliato. II. Il boia d'Asburgo, l'antico uccisor d'infermi e d'inermi, il mutilator di fanciulli e di femmine, l'impudico vecchiardo cui pascono i vermi già entro le nari e già cola dal ciglio e dal mento la marcia anima in cispa ed in bava, il traballante fuggiasco che s'ebbe nel dosso il tuo ferro a Pròstruga, a Vàlievo, a Guco, e l'acqua ingozzò della Drina fangosa cercando il suo guado e forte spingò nella Sava, mentre l'ardir dell'aiduco Vèlico rideva nell'aspro vento come contro al visire in Negòtino e le tue squille squillavano a Cristo e il tuo monte di Bànovo Berdo tonava sopra la tua bianca Belgrado; III. O Serbia, lo squallido boia per far di vergogna vendetta e per boccheggiare nel sangue prima che la lingua s'annodi, per comunicare nel sangue prima che la lingua s'annodi, per anco leccar salso sangue prima dell'eterno digiuno, per compiere senza rimorso la lunga sua vita terrena, imperator di pie frodi e re di fedele catena, con alfine un'ultima stretta di laccio, con una suprema strangolazione, al soccorso chiama i manigoldi bracati contro te, cinquanta contr'uno che in gola ti caccino il cappio corsoio. «O Serbia di Marco, dove son dunque i tuoi pennati busdòvani? Non t'ode alcuno?» IV. Sì, gente di Marco, fa cuore! Fa cuore di ferro, fa cuore d'acciaro alla sorte! Spezzata in due tu sei; sei tagliata pel mezzo, partita in due tronchi cruenti, come l'aiduco Vèlico su la sua torre percossa. Di lui ti sovviene? Rotto fu pel mezzo del ventre, e cadde. Il grande torace dall'anguinaia diviso cadde, palpitò nella pozza fumante. Giacquero le cosce erculee del cavaliere a tanaglia; giacquero in terra, si votarono. E nel fragore della gorga grido si ruppe: «Tieni duro!». Fiele dal fesso fegato grondò. «Tieni duro, Serbo!» Dalle viscere calde tal rugghio scoppiò: «Tieni duro!». V. Tal rugghio la Vila raccolse. Tutte le tue Vile di monte, tutte le tue Vile di ripa raccolsero il ferreo comando; e tu 'l riudisti pur ieri. L'ode la terra tegnente: non verdeggerà per tre anni. L'ode su la nuvola il cielo: non stillerà per tre anni rugiada. Che monta, o guerrieri? Il capo del Santo di Serbia, il teschio di Lazaro splende non nella Sìniza sola ma in ogni fiumana. Ecco, ringhia il grande pezzato cavallo di Marco, e si sveglia l'eroe squassando i capelli suoi neri. Re Stefano vien di Prisrenda; sorge dalla Màriza cupa Vucàssino; s'alzano a stormo da Còssovo i nove sparvieri. VI. E grida la candida Vila dal crine del Rùdnico monte, sopra la Iacèniza lene; grida e chiama in Tòpola Giorgio che ristà poggiato all'aratro. «Or dove sei, Pètrovic Giorgio? Qual fumido vino ti tiene? Qual t'occupa sogno? Non m'odi? Dove sei, buio bifolco? Dove sono i tuoi voivodi? Dov'è il voivoda Milosio? Giàcopo e il calogero Luca? e Zìngiaco? e Chiurchia? e Milenco della Morava? A simposio seggono? Ucciso hanno il giovenco e trinciano, e cantano lodi? Beono alla gloria di Cristo che li aiuti? beono in giro? E sul buccellato di farro scritto è tuttavia: Cristo vince. Ma non v'è quartiere pei prodi. VII. Bulica il sangue dei prodi al cavallo insino alla staffa, insino alla staffa e allo sprone. Diguazza il fante nel sangue insino all'inguine e all'anca; v'affoga, se v'entra carpone. Le donne rivoltano i morti pel bulicame, né sanno figlio ravvisare o germano. Son tutti un rossore, una piaga tutti, come al campo del conte i maschi di Giugo Bogdano. Più corpi enfii che scerpate radiche porta il Danubio né sa a qual riva deporre; rigurgita il Vàrdari ai groppi; la Sava è una vena svenata che gorgoglia giù per le forre; è schiuma del Tìmaco a sera canizie che galla; e la Drina veloce è un carnaio che corre. VIII. Su, Giorgio di Pietro, bovaro di Tòpola, su, guardiano di porci, riscuotiti e chiama! Prenditi al tuo fianco i tuoi fidi; Ianco il savio e Vasso il furente. Prenditi con teco gli aiduchi che danzano sopra le vette degli aceri. Vèlico, or ecco, all'anguinaia il torace rappicca come prima era, e dentrovi il fegato ardente. Su, su, porcaro di Dio! Il turbo di Mìsara, or ecco, pei gioghi della Sumàdia raggira l'antica vittoria, sparpaglia la nova semente. Altre mandrie tu caccerai dinanzi a te, altri branchi più irti, altro bestiame più tetro, altro sagginato coiame, altra sordida gente. IX. Sovvienti? Diceano i padri un tempo, sedendo a convito: "Ve' porco di Bulgaro nero che tutt'oggi dietro ci tenne pel tozzo e 'l bicchiere di vino e per un lacchezzo d'agnello!". Non per tozzo il Bulgaro nero e né per gocciol di vino e né per minuzzo di carne, ma per tutto prendere alfine, per tutto a te prendere alfine, per tutto a te togliere alfine, la terra il nome il soffio il bianco degli occhi lo stampo dell'uomo, per questo il Bulgaro nero dietro ti venne, alle spalle ti dà, alle reni t'agghiada. Tre n'hai, e col Bulgaro nero: fanno tre viltà una forza. Ma guarditi il fegato secco Dio, o macellatore di porci. X. Pigliaron Semendria la regia, pigliarono, ed anche la bianca città, Belgrado la regia, in una geenna di fiamme: dal Lìparo al Vràciaro grande, fornace fu ogni collina. Pigliarono Lùciza, ed anche Sclèvene pigliarono, e l'una e l'altra colmaron di mosto, di lúgubre mosto, due tina. Iplana rempieron di vegli senz'occhi, di femmine senza mammelle, di monchi fanciulli carponi a leccar la farina. E di Sòpota la meschina ei fecero lor beccheria trinciandovi la battezzata carne (o Battista!), e l'altare lor tavola fu sanguinente: strapparono al prete la lingua con sópravi l'ostia vivente. XI. Ma ben di Verciòrova scorse il Rùmio dagli occhi di druda, dal viso di cera dipinto, gallare nel freddo Danubio i Lurchi enfii, rivoltolarsi a mille pel grigio Danubio fra Rame Dubràviza i morti, fra Sip e Tèchia gli uccisi sotto la montagna di Tèchia crosciante qual torcia di ragia, a grappoli i corpi dei Lurchi. Non Lipa è villata che mangi: è mucchio che pute. Non colle che frutti è Trivùnovo: è mucchio che vèrmina. Vrànovo è mensa di corbi e Vuiàn d'avvoltoi. O razza di Cràlievic Marco, l'usura tu fai con la strage! Sotto Orsova, dove il mal fiume s'insacca, ora Bulgari e Lurchi si giungono, stèrcora e fecce. XII. Sì, presero i valichi e i passi, li presero; e noi i nostri guati tegnamo. Sì, Uzice e Ràlia, presero, e Strùmiza e Vrània, e Cràlievo presero, e Lacle, villate e città, mura e ripe; ma dove più ossa che selci, più teschi che ciottoli dove lasciarono? Presero e Nissa l'antica, vestita a gramaglia, oité, santa Serbia, di neri drappi vestita le case dolenti ove suda il contagio e l'odore vieta la porta. Presero e Scòplia l'antica (oité, santa Serbia, fa pianto), la casa che in prima all'Iddio tuo edificasti con pietre, e quivi la rocca, la guardia dell'imperatore Dusciano. O Serbia, in ginocchio fa pianto. XIII. Poi rìzzati e balza e riprendi la chiesa e la rocca, l'altare e il mastio, l'impero e la sorte. Il verde Vàrdari tingi come la Nìssava a Vlasca, colora il Vàrdari come lo stagno di Vlàsina fatto già bulgaro brago di morte. Ma il Tìmaco, o gente di Giorgio che scannò il suo padre con sacra mano perché servo non fosse, il Tìmaco tingi in eterno, in eternità dell'infamia, dalla sorgente alla foce e insino alla melma profonda, per le tue donne calcate dallo stupro contro la sponda, pei pargoli tuoi palleggiati e scagliati come da fionda, per chi teda fu, per chi arso fu fiaccola furibonda. XIV. Tronco s'ebbe Lazaro il capo nel piano di Còssovo, e perso fu il regno, fu spenta la gloria. Da Scòplia il Bulgaro nero al piano di Còssovo sfanga fiutando l'ontosa vittoria. Tieni duro, Serbo! Odi il rugghio di Vèlico che si rappicca e possa rifà. Tieni duro! Se pane non hai, odio mangia; se vino non hai, odio bevi; se odio sol hai, va sicuro. Non erbe coglie nel monte la Vila, non radiche pesta, per le piaghe a te medicare. Non a ferita combatti, a morte sì, per l'altare combatti e pel focolare. Se caschi in ginocchio, ti levi; se piombi riverso, e ti levi; se prono, e ti levi a lottare.» XV. Così parla al sangue la Vila dal crine del monte, la Vila così stride e chiama a battaglia. O Serbia, fa cuore! T'è l'odio osso del dosso, armamento t'è l'odio e t'è vittuaglia. A Còciana ancor si combatte e si combatte a Piròte; a Tètovo è lungo macello, e a Babuna tra le due vette. A Ràzana i tuoi cavalieri, al passo d'Isvòre i tuoi fanti, a Glava le donne tue scarne con le coltella e le accette. Le madri combattono in frotta col pargolo al seno e lo schioppo alla gota, o dritte su i carri tirati dai bufali torvi le gravide, o in sella con due pistole come la grande Ljùbiza, ghiottume di corvi. XVI. Qual è questo riso che scoppia come manrovescio potente? È il riso di Vèlico aiduco dalla dentatura d'alano. Che vede egli? un Bulgaro nero perdere i suoi trenta dinari? un Lurco basire, calando le brache e levando la mano? il pennacchin tirolese del boia longevo che crocchia e affoga nel flusso senile? o il tronfio Amuratte alemanno, soldano d'eunuchi cinghiati, trar la scimitarra scurrile? Che vede di turpe e di vile lo schernitore, che vede? Ve' ve' bagascion di corona, ve' bardassa in Cesare vòlto, di unguenti asiatici liscio che piglia da Cesare Giulio il letto di re Nicomede! XVII. Tastalo con le tue dure mani, questo sacco di dolo e di adipe, o Vèlico, questo sacco di lardo e di fardo. Cesare dei Bulgari neri, come Simeone, è costui, come Caloiàn di Preslavia, è questo Coburgo bastardo? Tu che metter suoli la lama tra i denti, aiduco, se vuoi aver la pistola nel pugno, tu tagliami questo codardo con la squarcina del fiso, tagliuzzalo come lombata, condiscilo poi con zibetto, con cinnamo e con spicanardo. Lo manderai così concio alle meretrici di Scòplia. E che il tuo scherno s'appigli, che il tuo riso crepiti e scrosci ai tuoi come un fuoco gagliardo! XVIII. O Serbia, che avesti regina di grazia Anna Dandolo e desti del ceppo regale di Orosia a un Buondelmonte la sposa, odi: la Vittoria è latina, ed ella è promessa al domani. è una pura vergine bianca (non è la tua Vila a lei pari) più lieve della tua Vila selvaggia che col piè nudo, in vista dell'oste schierata, danzò su le lance dei bani. Diceano intanto gli araldi in Prìlipa a Marco: «O signore, contendono i re, dell'impero. A chi sia l'impero e' non sanno. Ti chiaman di Còssovo al piano che tu dica a chi sia l'impero». Un grida: «Al Latino è l'impero. Per forza a lui viene l'impero. Roma a lui commise l'impero». XIX. Lode all'uno, grazie al verace! In Còssovo teco i Latini combatteranno domani sotto il gonfalone crociato, mentre il Lurco «A me è l'impero» grugna «ché la forza s'alterna». Sarà coi Latini domani la grande lor vergine bianca. Già misto il lor sangue col tuo ebbero a Valàndovo, sacre primizie. Ora Vèlese è rossa di quelle, e vermiglia è la Cerna. Tra le corna sta di Babuna la pertinacia non rotta e in Prilipa avvampa la fede. O Rumio dagli occhi di druda, a che musi verso la steppa, bilenco tra rischio e mercede? E tu, vil Grecastro inlurchito che palpi le sucide dramme, non odi il cannone di Dede? XX. O falso Dace, che vanti la gloria del nome latino e non pur sei degno del nome barbarico ch'era tremendo né mondo pur sei della lebbra d'Asia che tuttora ti squamma, or quando entrerai nella lite? Quando la Colonna traiana, di pietra fattasi fiamma, t'andrà camminando dinanzi come la Colonna divina in Etam dinanzi ai figliuoli d'Israele verso il deserto lenito e per l'acque spartite? Ma tu, o Greculo, merca. Da tempo son morti i tuoi clefti. Si leva di giù Bucovalla e sputa su te dal carnaio. Venditi. Non già ti compriamo, non per una sucida dramma. Ma ti pagheremo d'acciaio. XXI. È tempo, è tempo. La notte precipita. Sta sopra tutti la legge di ferro e di fuoco; e questo è il supremo cimento. Prudenza è vergogna, disfatta il dubbio, delitto il riposo, viltà ogni vana parola, e l'indugio è già perdimento. Popolo d'Italia, sii schiera appuntata a guisa di conio, schiera di tre canti romana, che cozza scinde e s'incugna. Popolo d'Italia, sii chiusa falange, con fronte ristretta, fasciata d'ardore, scagliata come un sol vivo alla pugna. Popolo d'Italia, sii come la forza dell'aquila regia che batte con l'ala, col rostro dilania, ghermisce con l'ugna. E v'è uno Iddio: l'Iddio nostro. 16 novembre 1915. Preghiere dell'Avvento I. PER I MORTI DEL MARE Mare di Dio, che sceveri le sorti dei combattenti nella sacra guerra, io ti prego: non rendere i tuoi morti, Mare, alla terra; non rendere i cadaveri che il sale macera, né l'ossame che tra flutto e flutto imbianca, al lido, o Sepolcrale, e al nostro lutto; ma sì, nel gorgo acerbo come il pianto fùnebre, tieni le profonde some perché noi più t'amiamo e a noi più santo duri il tuo nome; ma sì tieni le spoglie nell'intorto abisso pari al nostro amor rapace, perché non sia rifugio in te né porto in te né pace in te né tregua né salute a noi alcuna se la servitù non cessi e in te Roma non chiami i glauchi eroi al Resurressi. Miseri eroi, non caddero sul ponte della nave, gioiosi di battaglia, in un sangue perenne come fonte che non s'accaglia; non udirono, sotto la bufera del fuoco, nel rossore che non stagna, stridere contro l'asta la bandiera quasi grifagna, non lassù, dalla ferrea rembata che folgora, la scorsero con gli arsi cigli come Vittoria catenata lassù squassarsi; né s'accosciaron presso i tubi, quando nel capo chiuso dentro la sonora cuffia d'un tratto rombano comando e morte, a prora; né, travaglio dell'orrido beccaio che pesta e insacca, furon carne trita da rempiere la gola del mortaio ammutolita; né, dato in brocca il fulmine coperto contro il nemico enorme, solitaria vider l'elice folle in cima all'erto scafo nell'aria e irsuta l'onda, delle mille braccia invan tese da un sol terrore urlante, prima d'inabissarsi senza traccia presso il gigante. Ma l'insidia li colse, ma l'agguato li pigliò, nell'immensa albàsia eguale: ruppe il fianco, la piaga nel costato aprì, mortale; di sùbito colcò pel sonno eterno la bella nave, dandole carena come a racconcio, sotto il lungo scherno della sirena; e l'acciaio temprato a gran martello fu cosa ignuda come vil tritume, sopra l'acque di Dio men che fuscello, men che le spume. Or repente un miracolo divino percote l'acque. Il sol rompe la nube? fa d'ogni flutto un branco leonino di rosse giube? Chi squarcia la foschìa dell'imminente morte? Si leva un giorno di beata porpora? Esulta tutto l'oriente, e un'ora è nata? Né fulvo branco di leoni balza, né s'inarca fulgore di sovrana porpora. Sola su la morte s'alza l'anima umana. Sola alla morte l'anima sovrasta congiunta ancóra al carcere dell'ossa come fuoco si radica in catasta a prender possa. Uomini vivi, saldi sul tallone, non in coperta ma lungh'esso il bordo dileguante con l'ultimo cannone nel succhio sordo, diritti come se facesser ala ad ammiraglio in nave pavesata, diritti come sotto la gran gala schiera ordinata, gittano al cielo un grido così forte che ferisce le cime dell'ardore, e sforzano a sorridere la Morte che mai non muore. O Vittoria, alta vergine severa, or quando vinci se non vinci in questa fine? Dove più sfolgori, o guerriera? in quale gesta? E qual madre, qual dolce madre o suora, che tu le renda le profonde salme osa pregarti, o Mare dell'aurora, giunte le palme? Chi lungo i lidi tuoi, Mare dei prodi, erra con entro il cor l'esangue vólto, sperando che nel cor l'ombra gli approdi dell'insepolto? Mare di Dio, le vittime che celi tu non rendi, né odi le querele dei sùpplici; ma duri ai tuoi fedeli tomba fedele, ma conservi le spoglie nell'intorto abisso pari al nostro amor rapace, perché non sia rifugio in te né porto in te né pace in te né tregua né salute a noi alcuna se la servitù non cessi e in te Roma non chiami i glauchi eroi al Resurressi. 11 decembre 1915. II. PER LA GLORIA Dio d'Italia, cui Dante il duro viso incotto dalla vampa dell'Inferno tende e, non vinto dal fulgore eterno, guata con occhi di rapina fiso; Dio d'Italia, che gli uomini di parte cementarono vivo in pietre conce, il sangue cittadin con le bigonce mischiando nella calce a far lor arte; Dio d'Italia, bellezza che il titano Michelangelo in cupola ed in volta girò, tagliò nel sasso, amò raccolta nell'ossatura del dolore umano; Dio di gloria, tu fa questo giudicio della gloria, tu giudica di noi per la palma, considera gli eroi, guarda alla fede e pesa il sacrificio. Dicean eglino: «Dove sono i vostri morti? Quante migliaia di migliaia falciò ne' vostri solchi l'operaia assidua? Dove l'ugne e dove i rostri? Dove i combattimenti disperati a corpo a corpo, lama contro lama? Chi vi devasta i campi? chi v'affama? chi vi rempie le vie di mutilati? Avete appreso a vivere sotterra, fitti nel fango sino alla cintura? Dentro il fetore della sepoltura avete appreso a prolungar la guerra? Avete appreso a mordere la mota? avete appreso a mordere la neve? e quando non si mangia né si beve? quando il calcio s'incrosta nella gota? e quando non si veglia né si dorme? quando mastichi il sangue del compagno e non sai, o t'impigli nell'entragno caldo, o ti volti su qualcosa informe? Avete appreso a riconoscer l'ombre della follia, che genera il fragore, quando si cala, giù per le gran more dei morti occhiuti, alle trincere sgombre? Avete appreso, posti in una croce di fuoco, a mascherarvi come i mimi? a brancolar, nelle agonie sublimi, ciechi d'un pianto stupido ed atroce? Avete appreso che la guerra è bassa bisogna, frode lùgubre, immondizia dolosa? e ch'è sigillo di giustizia lo stival lordo quando schiaccia e passa? Dove sono le donne con nel seno due rosse piaghe, Amàzoni dell'onta? dove i validi figli con l'impronta di poltronìa, col pollice di meno? Quante delle città vostre ridenti son arse e diroccate? quanti altari disfatti? quanti senza focolari popoli in lacrime e in stridor di denti? Contiamo. Avete appreso ben quest'arte? Quegli che più patisce e che più dura diritto avrà di primogenitura sul gran retaggio, avrà la miglior parte». E si divincolavano ruggendo sotto le suola del nemico. I loro campi erano pantani roggi. L'oro colava come il sangue, ed era orrendo. Le donne non avevano più mani da giugnere, ma moncherini oranti. Le cattedrali non avean più santi che pregassero in sommo agli archi vani. Il fanciullo copriva il limitare, supino. La canizie pia del vecchio era dispersa là come pennecchio arido non finito di filare. Tutte le dolci cose erano spente senza pietà. Tutte le cose sacre non erano più sacre. Il fumo acre del sangue soffocava il Dio vivente. Rase città lungo putride gore, borghi in cenere sopra nere pozze guardava solo, irto di membra mozze e d'occhi fissi, il dementato Orrore. L'Italia era in disparte. Taciturna volgeva la sua faccia verso il mare sùpero. Udiva il rombo aquilonare percuotere la grande Alpe notturna. L'ombra mordeva il suo bel capo stretto fra i rostri della sua naval corona. Come chi forte nel pensier tenzona, ella anelava dal quadrato petto. Di sé nutriva il suo divino male. Come l'eroe delle speranze inulto, parea patire un avvoltoio occulto che le rodesse il fegato immortale. Basso intorno al suo cruccio solitario era il susurro d'un mercato immondo. Non vedea, non udia, nel suo profondo travaglio, ella. Guatava l'avversario. E diceano i suoi blandi parasiti, diceano i delicati proci: «O fiore della terra, o benigna Italia, amore degli uomini, ubertà degli iddii miti, o nostra grazia, o nostro eterno aroma, o nomata qual miele nella bocca, o più dolce dell'aria che ti tocca, o più bella del nome che ti noma, qual è mai questo cupo fuoco ond'ardi negli occhi tuoi d'aquila giovinetta? Ti proteggan gli iddii, o prediletta degli iddii tutti! L'Iddio tuo ti guardi! Cesare è cenere, e smarrito è il dado. Or sei tu osa ritentar le sorti? Né dietro a te fremono le coorti come al grifagno sul fatale guado. Duro nemico: in vento di Croazia è polvere di guasto, afa d'incendio. Ogni bellezza ei tiene in vilipendio. Mal ti difenderebbe la tua grazia. O nostra grazia, o balsamo giocondo per ogni cura, unguento dell'esiglio, tra tutte le contrade quale il giglio è tra le spine, voluttà del mondo, o di noi vecchi bruna Sunamita, tu sei pur sempre tutta quanta bella, Italia! Ogni tua pietra t'ingioiella, ogni tua gleba è un ùbero di vita. Ti spiamo di sopra alle rovine, o di noi vecchi bianca Bersabea. Chi s'ardirà con l'ispida trincea turbar l'azzurro delle tue colline? Sèrbati a noi, sèrbati a noi perfetta pe' lunghi ozii che a noi farà la pace candida. Non ti giova il dado audace trarre. Ma dormi su' tuoi lauri e aspetta». Ella balzò con fremito selvaggio squassando la corona e la criniera, ebra di forza, ebra di primavera, ebra di morte, ebra di te, o Maggio. O maschio Maggio, turbine solare, inno vasto di giubilo, o torrenti di giovinezza, o sùbiti torrenti di sangue, verso l'Alpe e verso il mare! Diceva il Patto: «Dove sono i tuoi morti?». Dal Chiese gelido all'Isonzo precipitoso, nel romano bronzo ella eternava il gaudio degli eroi. Eccoli, Dio d'Italia, i nostri morti. Li raccogliamo su le grandi cime, dove l'anima e l'aere sublime sono la solitudine dei forti. Dio di gloria, tu fa questo giudicio della gloria, tu giudica di noi per la palma, considera gli eroi, guarda alla fede e pesa il sacrificio. Di poi verranno i savii partitori e distribuitori della terra; sicché ciascuno, giusta la sua guerra, godrà la parte e succerà gli onori. Ma tu fa, Dio d'Italia, che al tuo cenno gittiam nelle bilance lor cortesi un ferro ancor temibile, che pesi più della spada barbara di Brenno. 12 decembre 1915. III. PER IL RE Salva il Re che, dimesso l'ermellino e la porpora, come il fantaccino renduto in panni bigi, sfanga nel fosso o va calzato d'uosa cercando nella cruda alpe nevosa, Dio vero, i tuoi prodigi. Salva il Re che partisce il pane scuro col combattente e non isdegna il duro macigno alla sua sosta né pe' suoi brevi sonni strame o paglia sospesi ai rossi orli della battaglia che sotterra è nascosta. Proteggi il Re del sollecito amore, che in casta forza il tremante dolore cangia con l'occhio fermo, il Re che in fronte ha la ruvida ruga e pur sì dolce esser può quando asciuga la tempia dell'infermo. Proteggi il Re della semplice vita chinato verso ogni bella ferita che è rosa del suo regno, chinato verso il sorriso dei morti, verso il sorriso immortale dei morti, che è l'alba del suo regno. 19 decembre 1915. IV. PER LA REGINA E questa che la Vila con un canto incoronò del crine di viola folto come la treccia che di schianto lasciò la pia Gevròsima alla trave chiamando il fratel Mòncilo fra il pianto, questa guarda, Signore. Volarono laggiù sul Monte Nero dodici aquile bianche con gran strido. Ed una a lei volò sul suo pensiero, e la coprì con velo insanguinato. Il vecchio padre, il candido guerriero, le piange in mezzo al cuore. S'alzano dal confin serbico in frotte i corvi lordi. A valle la Boiana róssica, Scodra fumiga. La notte, ahi, stelle più non ha sul Nero Monte. «Miei falchi, in piè!» Chiama all'estreme lotte il veglio, e conta l'ore. «In piè, falchi miei!» grida il Re canuto. Senza pane, senz'acqua, senza sonno negli occhi, giorno e notte han combattuto. Sinché nevichi al monte, è grassa guerra. Mangiato han neve e neve hanno bevuto, e munto hanno il dolore. Prega pel Re la figlia sua Regina che in sogno sta tra due fiumane calde. Or quale d'esse fa più gran rapina, o nell'aspra Cemàgora o nel Carso brollo? A quest'una la pregante inclina l'ombra del tuo pallore. Prega per due Re prodi, e figlia e sposa. Veglia e s'affanna per due mute piaghe. Non su l'un fianco né su l'altro posa. Elena, Nostra Donna di due Spade! Ella è per noi due volte gloriosa. Tu guardala, Signore. 19 decembre 1915. V. PEL GENERALISSIMO Questi, che vedi curvo su le carte, nel più duro granito del Verbano tagliato e scarpellato fu, di mano di maestro; e il vigor soverchiò l'arte. La sua chiusa virtù, che par novella, nella tenacia dell'antica schiatta usa a fare e patire, assuefatta ad attendere in fede la sua stella, si foggiò per i secoli, celato diamante che incudine non doma. V'incise il segno mistico di Roma, Dio d'Italia, l'acume del tuo fato. Guarda il suo maschio vólto dove l'orma del tempo e il solco dello studio scava nella tristezza della carne ignava e trova l'osso che non si difforma. Conta le sue fatiche a ruga a ruga, novera gli anni suoi, segno per segno: giovine il teschio vige, quasi ordegno di quella volontà che il cor gli fruga. Non meno adunco vomere mordea la fronte di quel giusto che l'obbrobrio cinse; ma v'era incancellato il sobrio eroe di Maratona e di Platea. Guarda la sua mascella che tien fermo, guarda severità della sua bocca onde il comando ed il castigo scocca, e il lampo a cui la pàlpebra fa schermo gravata sopra il chiaro occhio che scaglia l'anima al segno e il tratto non misura. Sempre in tutt'arme egli è senza armatura. Tutta nel pugno nudo ha la battaglia. Quel condottiere che dal piedestallo la morta riva domina in Vinegia minacciata dal barbaro e dispregia la minaccia del ciel, solo, a cavallo, Bartolomeo grifagno come Dante che converso abbia in elmo il suo cappuccio a gote, chiuso in piastra il suo corruccio, preso a trattar cavalleggiere e fante, tu lo vedi al segnale delle trombe sollevare e sferrare i battaglioni come balestra lancia i suoi bolzoni, come mortaio lancia le sue bombe. Tal questi, senz'arcione ma più grande, senza gesto né grido, solo armato del suo tacito genio e del suo fato, amplia la forza che quel bronzo spande. Egli ha mura da prendere, fiumane da valicare e gioghi e vette e gole, ghiacciai deserti, valli senza sole, fosche petraie, squallide biancane. Vigila ai ponti dell'Isonzo; a Plezzo tuona; a Tolmino folgora; tien Plava e la vetta, Voraia e il passo; scava la trincea nella neve ed issa il pezzo. Gorizia in cor gli crolla. Il Carso gronda sangue inesausto nel suo petto. Tutta la terra combattuta, arsa e distrutta, dentro gli sorge, dentro gli sprofonda. La malga e il picco, il botro e la laguna, la roccia e il muro, l'argine e la fossa vivono in lui come le vene e l'ossa, come i disegni della sua fortuna. Egli è la terra ed è l'assalitore. E la forza degli uomini respira in lui, palpita in lui, freme e s'adira, giubila e canta in lui, combatte e muore. Verso tutte le cime della gloria egli la incalza. Ecco, subitamente il suo pensiero si fa carne ardente, grido e strage si fa, morte e vittoria. Tutte le notti dallo Stelvio al Carso la gran barra di fuoco arde e risuona. Egli la sua certezza ne incorona, la sua certezza in te, Dio ricomparso. O Dio d'Italia, tieni la tua mano su questa fronte che facesti dura più delle fronti loro. Egli ti giura che tanto sangue non t'è dato invano. Egli si prostra come il donatore che giugnea le manopole di maglia in atto pio, nel cuor della battaglia avendo colto un portentoso fiore. La sua casa egli pensa sul suo lago quieta, dove per la porta adorna d'una ghirlanda il terzo dei Cadorna rientrerà, sol di silenzii pago, e innanzi alle due mute Ombre severe scioglierà gli alti vóti, i grandi fati adempirà, l'isole dei beati quivi splendendo nell'albor leggiere. O Dio, per questo duce che ci spezza il tuo pane, io ti prego che tu m'oda. Acùmina la sua certezza, e inchioda nei nostri petti, o Dio, la sua certezza. 19 decembre 1915. Il Rinato Non videro la stella d'oriente i magi, non andava innanzi a loro ella per scorta su le nevi ardente; non improvviso udiron elli il coro dei Messaggeri in Betleem di Giuda prostrandosi; non mirra incenso ed oro offersero alla creatura ignuda sopra la paglia della mangiatoia calda di fiati nella notte cruda; né, curvi in calca sotto la tettoia radiosa, i pastori di Giudea intonarono cantico di gioia. S'ebbe natività nella trincea cava il Figliuol dell'uomo; e solo quivi, messo in fasce da piaghe, si giacea. Fasciato di tristezza era tra i vivi e i morti, solo; e il ferro e il sangue e il loto erano innanzi a lui doni votivi. E non piangea, ma intento era ed immoto. Laude gli era il rimbombo senza fine per il silenzio delle nevi ignoto; cantico gli era il croscio delle mine occulto; gli era aròmato il fetore ventato su dalle carneficine. E sanguinava in fasce; ed il rossore si dilatava come immenso raggio, sicché tutti i ghiacciai parvero aurore, tutte le nevi parvero il messaggio dei dì prossimi, l'ombra fu promessa di luce, il buio fu di luce ostaggio. Ed intendemmo la parola stessa del suo profeta: «Un grido è stato udito in Rama, un mugolìo di leonessa, un lamento, un rammarico infinito: Rachele piange i suoi figliuoli, e guata l'ultimo suo non anche seppellito. Non è voluta esser racconsolata de' suoi figliuoli che non sono più. Una cosa novella, ecco, è creata. Il Signore ha creata una virtù nella carne. Quel ch'apre la matrice Ei farà santo. Ei semina quaggiù una semenza d'uomini». Ora dice una voce: «Io farò rigermogliare in carne i tuoi germogli, o genitrice. Ritieni gli occhi tuoi di lacrimare, ritieni la tua gola dal lamento; perché come la rena del tuo mare t'accrescerò, come la rena al vento ti spanderò. Eccoti i tuoi figliuoli moltiplicati dal combattimento. Senza sudarii tu, senza lenzuoli, li seppellisci ed io li dissotterro. Rifioriranno ai tuoi novelli soli, alla nova stagione ch'io disserro». E quivi il Figliuol d'uomo era, il Rinato; e quivi erano il loto e il sangue e il ferro. E con fasce da piaghe era fasciato; e sanguinava senza croce, come per il colpo di lancia nel costato. Ma «Colui ch'è il più forte» era il suo nome. 1 gennaio 1916. Per i combattenti I. Signor di sangue, Dio dei combattenti, non a te supplichiamo con la faccia alzata, non leviamo noi le braccia verso te, non gli altari tuoi cruenti serviamo con le man protese o giunte né ti cerchiamo noi con la preghiera nostra nei luoghi altissimi, di sfera in sfera, tra le tue falangi assunte; ma ci prostriamo con la fronte bassa, ma contro il suolo noi poniam la fronte nuda, poniamo il viso nelle impronte umili, il fiato dove il piede passa, c'inginocchiamo, o Dio della battaglia. dove la Patria è nostra, nella mota, nell'erba, nella strada che la ruota solca, nel campo che l'aratro taglia, dove la zolla è come nostra polpa, dove il fiore è un pensiero di mill'anni intimo e fresco in noi come gli affanni segreti dell'infanzia senza colpa, dove la foglia è un cuore che si frange, dove il sasso è la vertebra scolpita d'una potenza che in un'altra vita fu nostra, dove tutto parla e piange, dove tutto per noi ricorda e spera, dove a noi l'acqua è lacrime e rugiade, dov'è l'autunno tutto quel che cade di noi tristi, dov'è la primavera tutto quel che di noi si rinnovella e gemma e fa di noi virgulto e ramo; quivi, Signore Iddio, c'inginocchiamo quivi chiniam la fronte, ch'è più bella; perché, Nostro Signore, non nei cieli sei ma sotterra sei, ma sei profondo nel nero suolo, occulto sei nel mondo di giù, Dio che col fuoco ti riveli; e non hai cura delle tue felici selve, non nutri il seme, non concedi al germe il fimo fendere, ma i piedi dei combattenti sono le radici della tua primavera annunziata dall'Arcangelo, i piedi dolorosi dei combattenti, i piedi sanguinosi dei figli nella terra insanguinata, Signor di sangue, e tutto il lor dolore e nella terra una fecondità per sempre, nella terra una bontà per sempre, un spino, un eternale ardore. II. Udimmo i loro gridi nella notte, udimmo i loro canti nel mattino pieni del grande zefiro latino come vele tesate dalle scotte. Ascoltammo nell'alba dell'insonne urbe, nell'ora della tua rugiada, crescere l'inno e rimbombar la strada sotto lo scalpitìio delle colonne. Il cuore delle madri coraggiose rosso balzava innanzi al lor coraggio, ed era un sole più che il sol di maggio fervido; e il nido al chiaro inno rispose. S'oscuraron nell'ombra tutti i marmi, risplendettero tutte le fucine. Le città ridivennero eroine fumide, ansarono: Armi! Armi! Armi! Le città ebber l'anima d'acciaio sfavillanti d'acerrimo travaglio. Taluna fu dismisurato maglio; taluna, innumerevole telaio. Ed eglino passavano cantando per le diritte vie, verso le porte: prima la Gloria ed ultima la Morte, duce e seguace. Ed era il primo bando. Erano i primigeniti del sole, erano le primizie, eran le offerte virginee, le vittime più certe, Signor di sangue, la più maschia prole. Erano l'ostie ai sacrifici tuoi su gli altari terribili dei monti, grandeggiando da tutti gli orizzonti la madre delle messi e degli eroi; ché, ubertà di Dio, lungo le strade degli eserciti già spigava il grano alto e vedeasi contra il flutto umano ripalpitare l'onda delle biade, e la madre era bella come i figli, era la prole come le colline e le ripe, era bella come il crine dell'alpe, come il grano e come i gigli. Ed era il sogno simile alla vita com'è simile al mosto il sangue ardente, quando il genio di tutta la tua gente raggiò dalla primissima ferita. Il valor rise come il fiore sboccia. Ala, una città presa per amore! E l'eroe d'Ala avea nome Cantore! E il suo canto è scolpito nella roccia. III. Ma dall'immondo Barbaro la viva guerra sepolta fu come carogna truce, posta a marcire nella fogna buia, stivata nell'orrenda stiva, soffocata nel tossico fumante e rituffata nella lorda pozza come quell'ira che del fango ingozza nello Stige implacabile di Dante. E i figli dell'ulivo e della spica, i chiari primigeniti del sole, scesero giù nelle maligne gole a consumar la lùgubre fatica. Quegli che avea sospeso le ghirlande dei pampini all'amico olmo soavi, assi aguzzò, ficcò pali, ugnò travi, costrusse il suo sepolcro ognor più grande. Quegli che a' poggi avea falciato il caldo fieno e negli orti munto l'alveare, sacchi empié, more alzò, cementò ghiare, costrusse il suo sepolcro ognor più saldo. E la divinità era presente. Ogni moggio di fresca terra offerto era al genio di Roma, al giorno certo. E seco ebbe i penati il combattente. Il ciel del Palatino ebber gli eroi su l'ira, il tempio aereo che il vate segnava con la verga adunca (alate armi parvero stormi d'avvoltoi), quando giù nelle fosse un furibondo grido fendé le tuniche di loto intorno ai petti; e l'impeto devoto balzò, irto di cuori, dal profondo. Impeto, primogenito del fuoco, spirito dell'incendio e della piena, più celere del grido che ti sfrena subitamente al dubitoso giuoco; Impeto, condottiere dell'assalto disperato, che cozzi con la fronte e tanto hai più di lena quanto il monte è più nudo, più ripido e più alto; Impeto, ghermitor della fortuna improvviso, che sì l'insegui e serti con la punta alle reni e sì l'afferri a' capegli e non hai pietà veruna, demone della nostra lotta, gloria a te che su la guerra seppellita sol per noi rilampeggi e con l'ignita bocca avvampi le penne alla Vittoria! 21 gennaio 1916. Per i cittadini I. Quando la notte cade su la città che strascica l'arsura della fatica pei labirinti delle sue contrade, e nella casa amica è la lampada accesa da man pura, e tra le quattro mura il silenzio si fa ne' cuori attenti, e l'imagine cara della Patria viene e trema nel cerchio del chiarore, e tu senti sgorgare il sangue suo presso e lontano ed una santità gli occhi ti vela che non è pianto ed è più che dolore, e nell'anima tua stilla quel sangue, gronda quel sangue sopra la tua mano: quivi è l'Iddio verace, e sia lodato. II. Quando si leva l'alba dei guerrieri su la città di cenere ove il passo dei primi artieri è come d'avanguardia scalpitare, e tu ansi nel mare dei sogni con un'ansia in cuor confusa, e all'anima socchiusa ecco t'appare più vicina dei sogni la trincea tetra, la penosa bolgia, tra maceria e steccaia il fango imputridito le piaghe non fasciate i morti non sepolti gli smorti vólti dei vivi senza sonno fitti nel limo sino all'anguinaia, e il cuor ti morde l'onta, e balzi in piedi, e l'anima t'è pronta ad ogni evento ad ogni prova ad ogni dono, e tutto armato di dolor t'avanzi ed imprendi, nel giorno che t'è innanzi, il taciturno tuo combattimento: quivi è l'Iddio verace, e sia lodato. III. Quando la donna veglia senza velo, bontà senza figura, le piaghe in carne viva, ardendo come lampada votiva sotto la bianca volta; quand'ella ascolta l'agonia che sorride favellando a un'imagine futura immortalmente; quando al ferro che incide e che recide ella in silenzio il dolce paziente porge con cuor che trema e man sicura, senza battere gli occhi; quando i ginocchi ella piega e le tempie alate abbassa, sostenenendo il bacino che del sangue fraterno e del muto supplizio si riempie, ma nell'ombra del suo carnal pallore il confino dell'anima trapassa per amor dell'amore sempiterno: quivi è l'Iddio verace, e sia lodato. IV. Quando ella fila la bianca lana e col fil bigio agucchia, e non canta ma pensa al combattente che nell'alpe immensa è bianco su la neve ch'egli ammucchia dinanzi alla sua fossa, o prega per colui che nella tana cupa ha il colore della terra smossa, il color che le scorre tra le dita leni di maglia in maglia; e nel rombo del cuore ascolta ella il fragor della battaglia cieca e lontana, su la malga lontana vede ella d'improvviso la ferita schiudersi nella neve che s'arrossa o mescolarsi al fango scalpitato che la corrompe, e il filo bianco torce col suo cuore palpitante ella e il bigio conduce col suo cuore vigilante ella, e un prodigio di carità trasfonde nella lana il calor del focolare, nella lana la tempra dell'usbergo: quivi è l'Iddio verace, e sia lodato. V. Quando colui che perse il figliuol primo bevuto sino all'ultima sua stilla dal sitibondo Carso che mai non si disseta, e il suo secondo ne' ghiacciai scomparso di là da quella mèta che si trapassa per non ritornare, e il terzo sul calcàre candido come ossame al gelo della luna, riverso, incoronato con le spine di ferro ch'ei tagliò tra legno e legno confitti come croce al sacrificio dell'eroe sovrumano; quando colui non piange né dà segno di lacrime ma pone la sua mano su la spalla dell'ultimo suo nato, su l'omero del fresco adolescente fulgido di bellissimo dolore, che ricevuto ha in sé la grazia e il sangue dei suoi fratelli e il fiato come se dentro il calice d'un fiore si celebrasse nova eucaristia; quando colui non piange ma per via con la man dolcemente sospinge il giovinetto e l'accompagna e l'offre e lo sacrifica e lo dona e dice all'Indicibile «Perdona se più non ho che questo, ma questo prendi e me con lui se valgo»: quivi è l'Iddio verace, e sia lodato. VI. Quando il ricco ha rossore degli agi suoi, e non s'indugia a mensa né poltrisce, se pensa che alcun del sangue suo ha per tovaglia il sacco o la fascina, ha per coltre la melma febbricosa nella fossa che pute; né si riscalda al ceppo sfavillante che croscia su gli alari, perché sogna le bianche sentinelle perdute nei deserti di neve, nella cerchia dei picchi invitti come il diamante, ai limitari della bàite irsute che la sizza scoperchia, al sommo della rupe onde non più discende chi vi sale; ma rinunzia egli i beni ed è l'eguale del povero che offre tutto che strappa alla fatica dura e il ben senza figura riceve in abondanza per solo amore dell'amor che soffre: quivi è l'Iddio verace, e sia lodato. VII. Quando la vecchia inferma e triste e sola, che logora con gli ossi delle dita le lente avemarie senza parola tra morte e vita nella sua stanza fredda come la soglia del sepolcro, pensa che le rimane un'ultima reliquia d'oro consunto, forse nel mondo l'ultimo suo pane, e si leva e s'affanna e la ritrova, ed oblia la dimane poi che il suo vespro è giunto; ed esce, quasi cieca, per l'incerta via seguitando il suon delle campane, la melodia di Cristo antica e nova; ed in silenzio reca quell'offerta all'urna che non parla; e poi torna nell'ombra per morire, e l'angelo è nell'ombra ad aspettarla; ed un alito fresco come canto novello allevia la parete, che dispare; e nella povertà di san Francesco, nella felicità del Poverello, ella non ha più fame né più sete; e l'angelo sommesso le ripete il canto del Beato «Ma chi è dato più non si può dare. Vivi morendo in pace»: quivi è l'Iddio verace, e sia lodato 22 gennaio 1916. La preghiera di Doberdò 1. San Francesco lacero e logoro piange silenziosamente in ginocchio sul gradino spezzato dell'altare maggiore. 2. Per lo squarcio del tetto il mattino di settembre gli illumina le piante dei piedi piagate; ed è come un lume che raggi dalle sue stìmate di amore. 3. In questo lume soffrono i feriti della notte colcati su la paglia lungo il muro superstite della povera casa di Dio. 4. Non ha più tovaglia la tavola dell'altare, né candellieri, né palme, né ciborio, né turribolo, né ampolle, né messale, né leggìo. 5. A mucchio su la tavola dell'altare stanno gli elmetti dei morti, le scarpe terrose dei morti. Per ciò il Poverello qui piange. 6. Gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l'un su l'altro, grigi come la cenere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso di sangue. 7. Gli elmetti ch'eran tenuti dalla soga sotto il mento dei morti, e per torli fu fatto un poco di forza alla mascella dura. 8. Le scarpe ch'eran rimaste ai piedi per giorni e per giorni e per giorni in fango in polvere in sasso, e furono rotti i legàccioli per tirarle dai piedi freddi allineati su l'orlo della sepoltura. 9. Le spoglie del capo e dei piedi, serbate pei vivi che nella battaglia morranno, gravano l'altare del sacrificio incruento. 10. Solo v'è con le spoglie il Cristo che porta la croce, la sesta Stazione, un'imagine di purità e di patimento. 11. Il medico, tra fiaschi fasce garza e cotone, curvo su la cimasa della balaustrata di legno malferma scrive le sue tristi tabelle. 12. Da presso, ripiegate, contro il muro cadente, simili a vecchie bandiere chiuse nelle custodie di tela, maculate di rosso e di bruno, poggiano le bianche barelle. 13. I feriti dell'assalto notturno, discesi dalle trincee scavate nelle petraie del colle, simili a un armento sublime giacciono sopra la paglia. 14. Bocconi giacciono a covare il dolore, o supini a fisarlo, o sul fianco e sul gomito, o rattratti, o col braccio dietro il capo, o col capo tra i ginocchi, o con un sorriso d'infante nella bocca assetata, o con nelle occhiaie torbide la vertigine della battaglia. 15. Non si lagnano, non chiamano, non dimandano, non fanno parola. Taciturni, aspettano che di strame in strame li trasmuti la Patria, con le tabelle quadre legate al collo da un filo, ov'è scritta la piaga e la sorte. 16. Stanno tra paglia e macerie, sotto travi stroncate, lungo un muro fenduto, nella chiesa senza preghiere. E guatano per lo squarcio del tetto se non si curvi sul loro patire l'angelo col dìttamo bianco o col papavero nero la morte. 17. Sanguinano gli adulti, robusti e irsuti, con vólti intagliati dall'ascia latina. Domina taluno il dolore, con cipiglio selvaggio, masticando la gialla festuca. 18. Sanguinano i giovinetti: e le stille si rappigliano giù per la lanugine prima. Socchiude taluno le ciglia, e sente la mano materna sotto la nuca. 19. Biondi e foschi, pallidi come l'abete della gabbia che chiude la granata dall'ogiva d'acciaio, fuligginosi come se escissero fabbri lesi dalla fucina tremenda. 20. Sembrano corpi formati di terra con in sommo un viso di carne che duole. Ai ginocchi delle brache consunte è rimasto il sigillo rossastro del Carso. Ma una rosa verace fiorisce a fior d'ogni benda. 21. Pochi su poca paglia, tra macerie e rottami, in una miseranda ruina, dove tutte le imagini della Passione furono abbattute o distrutte, tranne una: la sesta. 22. E, com'essi respirano ed ansano, il luogo si riempie d'una santità vivente come quella che precede il Signore quando si manifesta. 23. Costui dal capo bendato, dalla barba crespa che imbiutano i grumi, con negli occhi di fiera l'ardore intento della fede novella, non è simile ai giovani discepoli in Cristo, a Filippo di Betsaida, ad Andrea fratel di Simone, quando il Figliuolo dell'uomo non avea pur dove posare la guancia? 24. E questo imberbe dallo sguardo cilestro, dal virgineo vólto inclinato, ove un fuoco chiuso traspare pel teschio che solo è coperto di carne quanto basta a significare il dolore, non somiglia Giovanni il diletto quando si piega verso il costato che sarà trafitto dal colpo di lancia? 25. Pochi su poca paglia, tra un muro fenduto e un muro crollato. E dietro hanno i loro monti, le loro valli, le loro fiumane, le lor dolci contrade, le lor città di grazia in ginocchio davanti ai lor duomi costrutti con la pietra natale. 26. E qui sanguina l'Umbria, e sanguina qui Lombardia, e sanguina Venezia la bella, sanguina la Campania felice, sanguina Sicilia l'aurata, e Puglia la piana, e Calabria la cruda, e Sardegna in disparte, e meco la terra mia pretta, e tutta la Patria riscossa con Roma la donna immortale. 27. Or chi mai su la povera casa di Dio, a raccogliere tanta offerta di porpora, gira su lo squarcio del tetto, con arte titanica, una si vasta cupola in gloria? 28. È l'artefice dei templi novelli, simile a un Buonarroto ventenne, pari al Genio vittorioso che calca il barbaro schiavo e guata di là dalla vittoria? 29. Silenzio, umiltà, pazienza. Stagna la vena. La rosa è colma. Taluno s'addorme, col braccio sotto la gota. Lo vegliano i fratelli che non hanno tregua al penare. 30. Entra una barella carica d'altre spoglie di morti, carica di scarpe terrose e d'elmetti forati. Si ferma davanti all'altare. 31. Gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l'un su l'altro, grigi come la cenere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso di sangue. 32. Le scarpe lorde di terra rossigna, con qualche scheggia di sasso, con qualche fil d'erba calcata, con qualche foglia di quercia confitta dal chiodo che lustra. Per ciò il Poverello qui piange. 33. Piange inginocchiato su la sua tonaca logora ai ginocchi, lacera agli orli che scoprono i piedi suoi scalzi. Lacrima, e non s'ode. Tanto ama, e rompersi non s'ode il suo petto. 34. Entra una barella che porta un soldato con la benda su gli occhi, con una gamba prigione tra due assi grezze. Ed è come il mendico di Gerico, Bartimeo. È come l'infermo della piscina, l'uomo di Betesda, sul letto. 35. Forse non sa ch'egli è cieco. E dice anch'egli forse nel cuore: «Figliuolo dell'uomo, abbi misericordia di me». Ed ecco appesa gli è al collo, con un frusto di corda, la tabella ov'è scritto il male e il destino. 36. Ma d'improvviso entra per lo squarcio irto di travi tronche una rondine spersa, l'ultima rondine; e nel silenzio getta un grido, due gridi. Sorvola l'altare. Sorvola le macerie, lo strame, le piaghe, l'ambascia, l'attesa. Getta un grido, due gridi. Dà un guizzo di luce. Ha seco il mattino. 37. E il Santo rapito si volge alla creatura di Dio, con ferme su la faccia le lacrime come la rugiada su la foglia è prima del sole. E tutte si volgono rapite alla messaggera d'una stagione sublime le facce del glorioso dolore. 38. E tutti sono fanciulli, tutti nel sangue innocenti. E il cieco si leva sul gomito, con l'anima trapassa le fasce, si tende verso l'ala invisibile che muove l'aura del miracolo intorn. E ode ridiscendere nella casa disfatta il Signore. Novena di San Francesco d'Assisi. Settembre 1916. A Luigi Cadorna Questo che in te si compie anno di sorte l'Italia l'alza in cima della spada, trionfal segno; e la sua rossa strada ne brilla insino alle fraterne porte. Tu tendi la potenza della morte come un arco tra il Vòdice e l'Ermada; torci l'Isonzo indomito, ove guada la tua vittoria, col tuo pugno forte. Giovine sei, rinato dalla terra sitibonda, balzato su dal duro Carso col fiore dei tuoi fanti imberbi. Questo che in te si compie anno di guerra scrolli da te, avido del futuro; e al domani terribile ti serbi. 4 settembre 1917. La canzone del Quarnaro Tibi cornua nigrescunt Nobis arma dum clarescunt. Siamo trenta d'una sorte, e trentuno con la morte. EIA, l'ultima! Alalà! Siamo trenta su tre gusci, su tre tavole di ponte: secco fegato, cuor duro, cuoia dure, dura fronte, mani macchine armi pronte, e la morte a paro a paro. EIA, carne del Carnaro! Alalà! Con un' ostia tricolore ognun s'è comunicato. Come piaga incrudelita coce il rosso nel costato, ed il verde disperato rinforzisce il fiele amaro. EIA, sale del Quarnaro! Alalà! Tutti tornano, o nessuno. Se non torna uno dei trenta torna quella del trentuno, quella che non ci spaventa, con in pugno la sementa da gittar nel solco avaro. EIA, fondo del Quarnaro! Alalà! Quella torna, con in pugno il buon seme della schiatta, la fedel seminatrice, dov'è merce la disfatta, dove un Zanche la baratta e la dà per un denaro. EIA, pianto del Quarnaro! Alalà! Il profumo dell'Italia è tra Unie e Promontore. Da Lussin, da Val d'Augusto vien l'odor di Roma al cuore. Improvviso nasce un fiore su dal bronzo e dall'acciaro. EIA, patria del Quarnaro.~ Alalà! Ecco l'isole di sasso che l'ulivo fa d'argento. Ecco l'irte groppe, gli ossi delle schiene, sottovento. Dolce è ogni albero stento, ogni sasso arido è caro. EIA, patria del Quarnaro! Alalà! Il lentisco il lauro il mirto fanno incenso alla Levrera. Monta su per i valloni la fumea di primavera, copre tutta la costiera, senza luna e senza faro. EIA, patria del Quarnaro! Alalà! Dentro i covi degli Uscocchi sta la bora e ci dà posa. Abbiam Cherso per mezzana, abbiam Veglia per isposa, e la parentela ossosa tutta a nozze di corsaro. EIA, mirto del Quarnaro! Alalà! Festa grande. Albona rugge ritta in piè su la collina. Il ruggito della belva scrolla tutta Farasina. Contro sfida leonina ecco ragghio di somaro. EIA, guardie del Quarnaro! Alalà! Fiume fa le luminarie nuziali. In tutto l'arco della notte fuochi e stelle. Sul suo scoglio erto è San Marco. E da ostro segna il varco alla prua che vede chiaro. EIA, sbarre del Quarnaro! Alalà! Dove son gli impiccatori degli eroi? Tra le lenzuola? Dove sono i portuali che millantano da Pola? A covar la gloriola cinquantenne entro il riparo? EIA, chiocce del Quarnaro! Alalà! Dove sono gli ammiragli d'arzanà? Su la ciambella? Santabarbara è sapone, è capestro ogni cordella nella ex voto navicella dedicata a san Nazaro. EIA, schiuma del Quamaro! Alalà! Da Lussin alla Merlera, da Calluda ad Abazia, per il largo e per il lungo siam signori in signoria. Padre Dante, e con la scia facciam «tutto il loco varo». EIA, mastro del Quarnaro! Alalà! Siamo trenta su tre gusci, su tre tavole di ponte: secco fegato, cuor duro, cuoia dure, dura fronte, mani macchine armi pronte, e la morte a paro a paro. EIA, carne dal Carnaro! Alalà! 11 febbraio 1918. All'America in armi While we are marching on! LA CANZONE DI JOHN BROWN I. 1. Mattino oceanico della Libertà alzata sul fondamento di sangue e d'anima dalle spalle dei suoi tredici artieri, 2. giorno della giovine Republica che delle tredici colonie fece il fascio consolare di tredici verghe intorno alla scure dei pionieri, 3. gli Italiani lodano l'Iddio che lor concesse di salutarti oggi in piedi sotto il croscio della vittoria romana, 4. essi che oggi ti danno, o Libertà, per tuo diadema il sasso scolpito del Grappa e ti danno il Piave flessibile per tua collana. 5. O Terrestre, lasciato hai il tuo piedestallo solitario e non voli, ma cammini stampando la terra co' tuoi calcagni senza calzati. 6. Guardaci. Siamo il tuo amore. Amiamo il lampo de' tuoi occhi più che il guizzo dei nostri focolari. 7. Guardaci. Riconosci il tuo amore. Abbiamo combattuto per te divinamente come la giovinezza del mondo pugnava a Maratona. 8. Per questo tuo giorno, con la mano della vita e con la mano della morte, liberali entrambe, abbiamo tessuto la tua corona. 9. La corona di spighe alla Fertile! L'ora del combattimento fu l'ora della messe per la Madre degli eroi e delle biade. 10. Per mietere, la sua gente ha impugnato le falci; e per uccidere ha brandito le spade. 11. S'inchinarono le messi e brillarono nel vento come le schiere nella battaglia. 12. Rinasce a noi un pane vittorioso, e ai nostri dolci feriti si rinnova il letto di paglia. 13. Abbiamo mietuto e abbiamo combattuto, con la faccia sempre volta a oriente. 14. Riarsi, abbiamo bevuto alla più profonda delle nostre piaghe come alla sorgente. 15. O Libertà, ma la collina tumida tra Nervesa e Biàdene ci nutriva come la tua mammella. 16. Per sette dì e per sette notti i petti eroici ne trassero una forza sempre novella. 17. Per sette mattini gli eroi videro te levarti dall'Adriatico prima del sole e aprire al giorno la porta. 18. Gridarono: «Benché tu ci uccida, lèvati. Lèvati, e che tutti moriamo per te, non importa». 19. È questo il grido di questo giorno, più alto che i gridi delle aquile d'Eschilo, più selvaggio che i gridi delle Erine di Dante. 20. È il grido che comanda alla battaglia di riaccendersi e al tempo di sostare e ai morti di risorgere e ai vivi di moltiplicarsi nel sangue. II. 21. Come i vasti cavalli criniti di spuma nell'oceano che uguagli, come le miriadi dei corsieri spumanti nell'Atlantico indomo, 22. i flutti del tuo vigore, o Republica, accorrono verso le rosse rive dove grandeggia quanto più sanguina la speranza dell'uomo. 23. Gli eroi morienti con occhi pio che umani guardano levarsi la tua luce dove il loro sole si colca. 24. E pensano: «O eternità del mare, non sapesti mai forza più bella di questo spirito che ti solca». 25. Non ti fa bella, o Republica, l'immenso tuo cumulo d'oro, non la copia inesausta che ti versano dal buio i tuoi genii senz'ali, 26. non l'ascia tua celere che ti muta in chiare città le tue selve, non l'impeto delle aeree tue case che ti sono le tue cattedrali, 27. non il numero delle tue macchine schiave che servono i tuoi lucri e i tuoi agi, non l'orgoglio che le tue stirpi arroventa e martella, 28. ma una parola che in te parlò una voce republicana, una parola ti fa la più bella. 29. E di sùbito il tuo oro e tutti i tuoi metalli e tutte le tue fucine e tutte le tue genti non sono se non luce operante. 30. Tutta sei luce. E fin l'oscurità delle tue miniere s'irraggia, così che il tuo nero carbone t'è diamante. 31. Teco sono le sorgenti solari, negli occhi tuoi fissi. Dalla fronte al calcagno, tutta quanta sei luce. 32. Sopra l'oceano che è la tua anima vera, l'ora prima, l'ora bianca dell'Alba a noi ti conduce. 33. Innanzi che le mille e mille tue prore fendano il cielo e il mare, la tua parola risana il cuore profondo della terra gonfio di doglia. 34. Rescissa dal ferro, incesa dal fuoco, intrisa di sangue, la divina radice per te rigermoglia. 35. T'avevam conosciuta e disconosciuta, t'avevamo amata e poi rinnegata prima che il gallo cantasse. 36. Troppo aspettammo che i colpi del tuo vecchio tamburo riscotessero le tarde tue masse. 37. Dato avevi due volte il tuo messaggio col sigillo purpureo, due volte vestita di porpora; e il tuo terzo era atteso dai vivi e dai morti nella notte feroce. 38. Gloria! Agitasti alfine la tua bandiera seminando dalle sue pieghe le stelle; e nella notte sfolgorò la tua voce. 39. «Vivete, perché la verità è vivente. Morite, perché la morte è immortale. Riordinate la battaglia. Noi siamo gli eguali del Tempo. Incomincia la guerra. 40. Se questa è l'ora del combattimento e della messe, ecco le armi, ecco le falci. Si combatta e si mieta. Si muoia e si raccolga. Non più partiremo col bruto il pane della terra.» III. 41. In marcia! La vecchia canzone di John Brown, radicata nella memore gleba, riscoppia come il fiore dell'agave ardente. 42. Dal fondo degli anni ritorna e si spande il rombo dei bronzi che sonarono il transito del martire nell'Occidente. 43. In marcia! la semenza è fervida. Gli uomini nuovi bàlzano in armi dai tuoi solchi fulvi e dalle tue bianche strade. 44. Recando nel pugno il tuo gruppo di stelle, cacciano in fuga la pace ignobile da tutte le tue contrade. 45. In marcia! Come nella valle dello Shenandoah, c'è il ferro e c'è il fuoco, c'è il sangue e c'è il sudore, c'è il fiele e c'è il pianto, l'urlo e il lagno, la sete e la fame, la falange spedita e il branco immondo. 46. In marcia! Come allora, nella selva, nell'alpe, nel piano, sul fiume, sul lago, sul mare, l'uomo inventi la sua vita e la sua morte ogni giorno. Non v'è più sonno. Non v'è più tregua. Non v'è più respiro. In marcia verso la battaglia del mondo! 47. Si sveglia, laggiù, nella dolce valle virginiana ove geme l'uccello notturno, si sveglia Stonewall Jackson e sente il suo sangue che tuttavia cola, e ordina: «Avanti!». 48. Si poggia sul gomito sano, solleva con l'anima il suo braccio stroncato, lascia pendere i suoi rossi brandelli, e ordina con la voce d'allora: «Portate innanzi i miei fanti!». 49. Balza di nuovo in sella Philip Sheridan fiutando la disfatta lontana, mette il suo cuore in bocca al suo baio; e galoppa le sue venti miglia. 50. Non ha in bocca né cuore né freno il cavallo. Il cuore fu più veloce dei quattro suoi zoccoli. E, quando arriva, la vittoria gli prende la briglia. 51. «Navi! Navi! Navi!» grida David Farragut, l'affondatore di arieti, l'incendiatore di zattere, lo spezzator di catene, a cui furono armi fedeli lo sperone diritto e l'anima ignuda. 52. Qual passo è da forzare? qual porto da violare? qual corazza da fendere? È pallido. Gli ruppe nel sepolcro i sonni e le glorie l'eroe di Premuda. 53. «Ali! Ali! Ali!» grida non il vittorioso che balza dalla tomba all'appello, né la giovine cerna anelante, né la folla dal piè di tempesta; 54. ma la stessa vittoria che, come quella d'Atene, non ha negli òmeri penne e non migra, sì arma la sua specie nei cieli a miriadi e con noi resta. 55. Resta con noi sul Piave, resta con noi su la Marna, con noi su i santissimi fiumi, con noi sopra i monti sublimi, con noi dove le è suora corporale la morte. 56. O Liberatrice, il tuono è incessante. Il fragore lacera il cielo come un velario che si ritessa. La nube infame acceca e soffoca la battaglia. Il coraggio ansa e soffre. Tutto è martirio celato. Ma la tua statura è più alta, ma la tua voce è più forte. 57. «Vivete, perché la verità è vivente. Morite, perché la morte è immortale. Riordinate la battaglia. Noi siamo gli eguali del Tempo. Incomincia la guerra. 58. Se questa è l'ora del combattimento e della messe, ecco le armi, ecco le falci. Si combatta e si mieta. Si muoia e si raccolga. Non più partiremo col bruto il pane della terra. 59. Siamo in marcia, non truppe noverate e marchiate come le greggi, non eserciti cacciati col pungolo come le mandre. Un popolo armato s'avanza. Consacra le sue stelle al Futuro. 60. In marcia! Fino a quando? Fino a che la via d'oriente, fino a che la via d'occidente non sia libera. Fino a che tra i quattro vènti del mondo la Libertà non sia sola con l'uomo. Fino a che non si compia il cammino del tempo, se non bastino al cómpito gli anni. Una fede armata s'avanza. Consacra i suoi segni al Futuro.» IV luglio 1918. La preghiera di Sernaglia I. 1. Chi risponde? La bocca d'un uomo può dunque portare una parola che pesa come il sangue di tutti? 2. Chi risponde? È la voce d'un uomo questa che varca l'oceano inespiato e gonfia i suoi flutti? 3. Chi giudica? Lo spirito solo d'un uomo si fa spada infallibile e taglia il groppo di tutte le sorti? 4. Chi giudica? Chi è che non teme di parlare là dove sol regna il silenzio di Dio e dei morti? 5. Ha egli imposto l'alterno suo polso a quel mare implacato che non ebbe mai rive a serrar le procelle? 6. Ha egli come il re tebano sposato la novella Armonia, e alla città spirtale cantato le leggi novelle? 7. Chi s'alza oggi arbitro di tutta la vita futura, sopra la terra ululante e fumante? 8. Donde è venuto? dalle profondità della pena o dalle sommità della luce, come l'esule Dante? 9. O solo è un savio seduto nella sua catedra immota, ignaro di gironi e di bolge? 10. O solo è un interprete assiso dinanzi al polito suo libro, che nessun vento ignoto sconvolge? 11. Non so, né m'inclino al responso lontano, né indago i legami tra sillaba e sillaba accorti. 12. Serro l'animo spietato nel cuore, l'arma provata nel pugno; e ascolto il silenzio di Dio e dei morti. II. 13. Chi risponde? Chi giudica? Non l'uomo seduto, né l'uomo diritto, né il codice né la bilancia. 14. Risponde chi per parlare sputa il fango ch'ei morse cadendo o si netta dalle lacrime di sangue la guancia. 15. Risponde chi per parlare rompe lo stridore dei denti e l'ambascia, col giogo bestiale sul collo. 16. Risponde chi col moncherino grondante scrisse l'abominio e il taglione sul muro superstite al crollo. 17. Risponde chi nel patire eccedette i limiti del patimento posti al misero dalla pietà del Signore. 18. Risponde l'umana e divina agonia cui fu Ghetsèmani tutta la terra cospersa di atroce sudore. 19. E alcuno invocò sul misfatto la clemenza del Figliuol d'uomo? Ecco. Mano per mano, dente per dente, occhio per occhio. 20. Non il sermone laborioso ma il doppio taglio della spada forbita fa la luce al nemico in ginocchio. 21. Il Figliuol d'uomo essi tolsero di croce non per comporlo nella pietra col panno lino e l'unguento, 22. ma per riflagellarlo e ricoronarlo di spine e risaziarlo d'ingiurie e partirsi il suo vestimento. 23. Ti sovvenga, o Clemenza. Del suo lenzuolo e del suo sudario e delle sue bende fecero vincoli e corde: 24. vincoli per legare le mani e i piedi forati delle nazioni, corde per strangolarle a stràscino, o Misericorde. III. 25. Non sono un rammemoratore d'immemori e un riscotitore d'ignavi. Ma, se nessuno grida, io grido. Oserò se altri non osa. 26. O pace inviata alla tristezza degli uomini non come nivea colomba ma come serpe viscosa! 27. Che mai resta nel mondo, ch'essi non abbiano guasto e corrotto? Più pestilente è il lor fiato che il vomito dell'avvoltoio. 28. Partire voleano col ferro la somma dei secoli, tra dominio e servaggio. Ogni stirpe era morchia di macine, e la terra il lor grande frantoio. 29. Hanno arsi i duomi di Dio dove battezzammo i nostri nati, portammo le nostre bare, prostrammo il nostro cuor tristo. 30. Hanno abbattuto i nostri altari, fonduto le nostre campane, contaminato le nostre reliquie, maculato le specie di Cristo. 31. Lordato hanno le nostre case, scoperchiato i nostri sepolcri, sterilito ogni solco, divelto ogni erba e ogni fusto, 32. disperso i semi, corrotto le fonti, percosso i vecchi, forzato le donne, fatto monco ogni fanciullo robusto. 33. Il lagno d'Isaia si rinnova: «Tutte le tavole son piene di vomito e di lordure; luogo non v'è più, che sia mondo». 34. Ma Colui che già pianse per Lazaro, Colui che sopra Gerusalemme già pianse, Colui che già pianse nell'Orto, oggi piangere non può sopra il mondo. IV. 35. Non piange più; combatte. Non ha il capo chino su l'omero scarno, né inchiodate le palme all'infamia, né i piedi trafitti. 36. Né sfolgora come quando l'angelo rotolò dal sepolcro la pietra ed Egli sorse, ed apparve agli Undici afflitti. 37. Ma lo vede ogni fante, simile a sé, con l'elmetto del fante, con le uose del fante, col sudore e col sangue del fante, allato allato. 38. Cade anch'Egli, come quando portava la croce; cade e si rialza. E, come quando riprendeva la croce, riprende la sua arme e il suo fiato. 39. Resiste, perdura, persevera, a fianco dell'uomo. All'uomo dona il suo cuore divino e la sua lena immortale. 40. Si volge l'ispirato sentendo crescere nel suo petto la forza; e vede al suo fianco penare e lottare un eguale. 41. Lotta Egli e pena con noi. La sua arsura, che lambì la spugna intrisa nell'aceto e nel fiele, si disseta alla nostra borraccia. 42. Suda e ansa con noi. L'offerta rinnova del suo sacrifizio ogni giorno spezzando con le mani piagate il pane della nostra bisaccia. 43. Egli che all'ora di nona gridò: «Dio mio, perché m'hai lasciato?», Egli ben sa quanto costi l'intera vittoria agli eroi. 44. Non ha Egli pur riudito lo scherno? «Se tu sei l'eletto di Dio, salva te stesso. Se il Cristo tu sei, salva te stesso, e noi.» 45. Or Egli vince. Con noi vince. Chi credette nell'anima, ora vince per l'anima. Chi accettò la morte, ecco vince per la vita immortale. 46. La forza dell'anima pura precipita le nostre legioni fangose, e in carne tanta non sente il suo male. 47. Chi l'arresta? Dove sono i valli insuperabili? dove gli impenetrabili petti? Dov'è mai la lor ferrata muraglia? 48. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Son fuggiti dinanzi alle spade, dinanzi alla spada tratta, dinanzi all'arco teso, e dinanzi allo sforzo della battaglia». 49. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Guai a te che predi e non fosti predato. Quando finito avrai di predare, predato sarai tu senza mora». 50. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Guardia, che hai tu veduto dopo la notte? Guardia, che hai tu veduto dopo la notte?». L'aurora! L'aurora! V. 51. O stagione di rapimento improvvisa, che la primavera non sei e non l'autunno ma quella dove il lauro eternale allega i suoi frutti! 52. O spirito rapido che rifecondi le piaghe della terra e susciti il fremito della messe futura dallo strazio dei campi distrutti! 53. O fiumi rivalicati, gonfii di giubilo, come le vene che portano l'orgoglio al cuor della Patria e sino alla sua fronte il vermiglio! 54. O valli disgombre dove torna una così pura dolcezza che i morti sembran quivi dormire nel grembo di Maria come il Figlio! 55. O canti sovrani, santissimi tra gli inni più santi, alzati dall'agonia degli oppressi che sentono i liberatori alle porte! 56. O vincoli, o spine, o flagelli, rinnegamento e vergogna, soma e ambascia, sete e fame, sanie e sangue, o passione di Cristo e del mondo, o vittoria di là dalla morte! 57. Chi muterà questa grandezza e questa bellezza impetuose in disputa lunga di vecchi, in concilio senile d'inganni? 58. Inchiostro di scribi per sangue di martiri? A peso di carte dedotte ricomperato il martirio degli anni? 59. Se il mutilatore è in ginocchio, se leva le sudice mani, se abbassa il ceffo compunto, troncategli i pollici e i polsi, rompetegli zanne e ganasce. 60. Stampategli il marchio rovente fra ciglio e ciglio, fra spalla e spalla. Né basti. Tal specie, se in paura si scioglie, poi dalle sue fecce rinasce. 61. E passate oltre. Vi precedono i morti. Rimasto ai morti, ai sepolti e agli insepolti rimasto è l'osso del tallone integro per calcare la terra straniera. 62. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Per l'anima delle creature che hanno spasimato di fame a ogni capo di strada; e mani non avean da giugnere nella preghiera». 63. Vittoria nostra, non sarai mutilata. Nessuno può frangerti i ginocchi né tarparti le penne. Dove corti? dove sali? 64. La tua corsa è di là dalla notte. Il tuo volo è di là dall'aurora. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «I cieli sono men vasti delle tue ali». Novena di tutti i Santi. Ottobre 1918. Cantico per l'ottava della vittoria Balza su dal nero fango, lava il sangue e il sudore. E vendica la potenza del canto sul clamore, o Verità cinta di quercia. Come la spada a due tagli leva il tuo canto puro che la nostra anima nuda fenda, mentre Bonturo mal mondato nel trivio bercia. Verità cinta di lauro, ben tu oggi mi scegli come quando su lo strame d'Italia i tristi vegli rumavan la menzogna stracchi e tu mi cantavi il canto solitario alla Terra al Cielo al Mare agli Eroi, meco armata alla guerra contro il sogghigno dei vigliacchi. O domatrice di fuochi, foggiami tu quest'ode e scagliala verso Roma; ché la mia mano prode mi trema e condurla non posso. Patria! Patria! Questa sola parola mi trasporta. E rimbombare odo dentro di me, come alla porta del tempio, uno scudo percosso. Patria! Il terribile e dolce nome chiamare voglio. Sono ebro. Odo il tuono e il rombo. Chi mai sul Campidoglio percote lo scudo raggiante? Il giubilo è una rapina bella, un ratto felice. E il cielo è tanto a noi chiaro, sol perché Beatrice rivede sorridere Dante. Come chi chiama la luce pel suo nome divino, come chi chiama la luce pel suo nome e al mattino comanda che nasca dal mare, o Patria, così ti chiama colui che trascolora di dolcezza e di spavento. Non tu sembri un'aurora che abbia volontà di cantare? Palpiti come un' aurora colma di melodia, come un'aurora chiomata d'astri ignoti, che sia apparsa alla soglia del mondo. Dalle calcagna possenti fino alle rosee dita non sei se non il preludio della novella vita, una nell'alto e nel profondo. E nel profondo e nell'alto sei tu stessa l'aurora a cui ti facemmo sacra con l'aratro e la prora quando la notte era su noi. La notte pallida s'apre come si squarcia un velo. Sei tutta la luce; e nella luce cantano il cielo il mare la terra e gli eroi. Sei un infinito canto. Muta sembri rimasta da secoli per cantare quest'inno che sovrasta la speranza e supera il fato. Sembri rimasta in silenzio da che la terza rima ti rapì nel Paradiso dov'arde su la cima dell'amore il verso stellato. Tutto è voce numerosa, tutto è numero e modo in te nova. Sei la grande Carmenta. Ecco che t'odo fra il Tevere e il Capitolino. Ecco che t'odo fra l'Alpe Giulia e l'Alpe Apuana. T'odo fra le Dolomiti rosse e la Puglia piana. E l'Istria è un sol coro latino. E il leone di Parenzo rugge col miele in gola. E la vittoria cilestra nel colossèo di Pola si prodiga all'arcato abbraccio. E le città di Dalmazia si scingono sul mare cantando dai bei veroni veneti, bionde e chiare nell'ambra di Vettor Carpaccio. E Zara è la prima, Zara nostra, rocca di fede, ch'è scolpita nel mio petto com'è scolpita appiede di Santa Maria Zobenigo, tutta bella al davanzale della sua Riva Vecchia, ridorata come quando Venezia si rispecchia nell'oro sciolta dal caligo. E la seconda non fulge sopra il riposto mare dalla gran nave di sasso, tra battistero e altare, ma per gli occhi del suo veggente, ma per gli occhi del suo cieco, pei fisi occhi riarsi dall'ardore del futuro ch'egli vede levarsi oggi dal sangue immortalmente. O Sebenico beata, che hai gli occhi più profondi, la cecità del profeta reduce dai tre mondi anch'egli ma senza corona! O Spàlato imperiale, Spàlato piena d'arche sante, ove cantano alterne le Marie e le Parche sopra le tombe di Salona! O Traù, mia dolce donna, tu che sei tra le donne dàlmate la più dorata! Sei nelle tue colonne come il fuoco nell'alabastro. La tua gioia è come l'oro fulva. Sotto l'artiglio il tuo libro si riapre. Fiorisce come un giglio il tuo cipresso nell'incastro. La sùbita primavera si crinisce di pioggia. La rondine d'oriente torna nella tua loggia ad annunciar la Santa Entrata. Disseppellisci di sotto l'altare i tuoi stendardi e li spieghi. Ardono al vento salso come tu ardi, o tu che sei la più dorata. E danzano la tua gioia lungh'essa la tua costa le isole nutrici di api, da Zirona a Lagosta, e coi cembali e col saltero. O Solta ricca di miele che sa di rosmarino! O sasso della Donzella dove l'amor latino rinnovellò la morte d'Ero! E s'inghirlanda di mirto Lissa vittoriosa. E la vittoria navale coglie il lauro e la rosa nell'oleandro di Lacroma. E la Libertà dal vasto petto, l'unica Musa, canta con dodici bocche nel tuo fonte, o Ragusa; e tu bevi il carme di Roma. Patria! Patria! Tutto è canto, tutto è canto infinito, canto nato col mattino. Tocca il cuore ferito degli eroi nella terra nera. Schiude fin le tristi labbra dei giovinetti muti nelle ripe nelle malghe nelle velme, caduti quando la grande alba non era. Si levano gli insepolti, si levano i sepolti: al sommo del loro ossame portano i loro volti trasfigurati, l'ebre gole. Son tutti luce e canto, gaudio e canto gli uccisi come se in tutti e in ciascuno san Francesco d'Assisi spirasse il cantico del sole. Nei valichi dello Stelvio, nei passi del Tonale, nella roccia d'Ercavallo che l'ascia trionfale tagliò come ceppo d'abeto, nel lene argento del Garda, nel rame della Zugna, nella Vallarsa ricinta d'arci che il sole espugna per baciar laggiù Rovereto; e tra l'Astico e il Rio Freddo, di girone in girone, negli inferni statuarii del Cengio e del Cimone, che sono i fratelli del Grappa, essi cantano con calde bocche, riavvampati da un sangue repente; e vanno, s'accrescono, soldati della luce, di tappa in tappa. Chi è con loro? Chi viene, riavvampato anch'esso di gioventù sovrumana, come aveva promesso? «Ch'io venga anche all'ultima guerra! Legatemi al mio cavallo. Ma ch'io veda la stella d'Italia su la Verruca! Cinghiatemi alla sella. Ma ch'io venga all'ultima guerra!» Giovine, giovine come nell'estancia, a Maromba, alla Barra, al Cerro, al Salto, come quando la tromba dal Vascello e dalla Corsina sonò su Roma serva slargando col selvaggio squillo gli archi di trionfo troppo angusti al passaggio della nova gloria latina, giovine e con la criniera fulva come l'estate, sul gran stallone di neve dalle froge rosate, che per ala ha il candido manto, cavalca Egli nel delirio come in un nembo ardente, fiso alla morte, e l'amore della sua morta gente l'inalza alla vita del canto. O vita! O morte! Il mio canto vien di sotterra o spira dal mio petto? Son io servo dell'inno senza lira o son io signore del fato? Tutte le vie della notte furon da me percorse per amor del tuo mattino, Patria. Ma so io forse come questo giorno m'è nato? Non ho perduto il mio giorno? non ho perduto i doni della trasfiguratrice? Che val se m'incoroni? O fine delle cose impure! Son nel carcere dell'ossa, nei lacci delle vene, e non diffuso nei vènti, nelle acque, nelle arene, in tutte le tue creature. Con una meravigliosa gioia tesi le mani a rapir la morte. E sempre diceva ella: «Domani». Sempre diceva ella: «Più alto!». La inseguii di là da ogni mèta al mio cor promessa. Ed ella diceva sempre: «Più oltre!». Era ella stessa il volo la schiuma l'assalto. O mio compagno sublime, perché t'ho io deluso? e perché fu ingannata l'anima? Avevo chiuso te nell'arca e la mia speranza, tra i cipressi di Aquileia. Silenziosamente avevo teco bevuto l'acqua senza sorgente e celebrato l'alleanza. Risorto sei tu dall'arca, fra il croscio dei cipressi. L'arcangelo del mio nome, nel dì del Resurressi, ha scoperchiato il sasso cavo. E tu, Dioscuro, franco del cavallo e dell'asta, sei ridisceso a lavare dal lutto la tua casta forza nel lustrale Timavo. Ma dov'era il tuo fratello? la sua forza dov'era? Non l'avevano raccolto dentro la tua bandiera stessa i compagni di ardore. Non il suo corpo abbronzato sul rottame fumante dell'ala avevan disteso, né con le foglie sante coperto il nudato suo cuore; né veduto di tra le foglie dell'alloro pugnace ardere subitamente nel profondo torace un fiore perfetto di fuoco. Eroe, tu m'attendi invano sul tuo fiume lustrale. Ma, se la vita è mortale, se la morte è immortale, in te vita e morte oggi invoco. Nella mia bocca ho il tuo soffio, tra i miei denti il tuo fiato. Si fa mattutino canto lo spirito esalato. L'agonia si fa melodia. Patria! Patria! Questa sola parola è tutto il cielo. La notte pallida s'apre come si squarcia un velo. Regna «colui che più s'indìa». Come chi chiama la luce pel suo nome divino, come chi chiama la luce pel suo nome e al mattino comanda che nasca dall'acque, o Patria, così ti chiamo. Sono il tuo gridatore e sono il tuo testimonio. Se m'odi, il mio amore sa come questo giorno nacque. Sto tra la vita e la morte, vate senza corona. Da oriente a ponente l'inno prima s'intona: «La vita riculmina in gloria!». Sto tra la morte e la vita, sopra il crollo del mondo. Da ostro a settentrione scroscia l'inno secondo: «La morte s'abissa in vittoria!». 3-11 novembre 1918. NOTE AI CANTI DELLA GUERRA LATINA Sur une image de la France croisée Une lettre adressée à M. Alfred Campus, directeur du Figaro, accompagnait l'envoit de ces poèmes: «Mon cher ami, je pars pour Gênes. On va jeter le dé. Ce qui n'est pas arrivé sous le signe du Bélier, va arriver sous le signe du Taureau. Cette bte zodiacale a un front encore plus dur, frontem duriorem frontibus eorum. De Gênes vous recevrez, de grandes nouvelles. J'ai composé quatre sonnets d'amour pour la France, et je les publie au profit de la Croix-Rouge de France, du Vestiaire des Blessés et de l'Hôpital auxiliaire du Val-de-Grâce n. II.(institution italienne). Ils sont inédits. J'aimerais les donner eu public français en guise d'adieu, Voutez-vous les publier dans le Figaro, le matin du 5 mai? A la même heure nous serons des alliés. Au revoir, cher ami. Je vous serre le main bien affectueusement. En hâte, votre G. D'A. Ce 3 mai 1915. Ode alla nazione Serba Stefano soprannominato Dusciano dalle molte pie elemosine che fece (nell'anno 1346 pur al nostro santuario di San Nicola di Bari donò una rendita di dugento perperi in continuo per la cera) fu della stirpe nemànide quegli «che coronò la grandezza del nome serbico e forse ne preparò la ruina». Silni fu chiamato dal popol suo, cioè il Possente; e nella ragunata dell'anno 1340, in Scoplia, gridato cesare dei Serbi, dei Bulgari, dei Greci, e «primogenito di Cristo». Lazaro Greblanovic, conte, creduto figliuolo naturale di Stefano, fu l'ultimo re grande di Serbia. Ebba Mìliza per donna, d'insigne sangue, d'animo insigne. Nell'anno 1389 sul piano di Cossovo fu dal Turco reciso a un tratto il vigore della nazione e a Lazaro il capo; che poi, gettato nella corrente, raggiò a miracolo. Venne il re misero dalla pietà della sua gente posto tra i santi, come confessore e martire della patria, in Ravàniza sepolto, nella chiesa da lui costrutta «del proprio pane e della propria ricchezza, e senza le lacrime dei poveretti». Perirono in Cossovo, col sire, i nove prodi Giugovic, i nove figliuoli del vecchio Giugo Bogdano, fratelli di Mìliza infelice. «Ecco muore Bogdano il vecchio, e periscono i nove Giugovic, al par di nove candidi falchi, e tutta perisce l'oste loro» si narra nel carme eroico. Vàlico fu, nel duro tempo di Giorgio il Nero (Kara-George), il più terribile degli aiduchi. La guerra egli amava per la guerra, sicché sempre pregava Dio che la Serbia non venisse in pace se non dopo la sua morte. Avendogli Giorgio assegnato la difesa della rocca di Negòtino e della terra circostante, egli con qualche migliaio d'uomini sostenne maravigliosamente, l'assedio. Senza più vettovaglia, senza munizione, senza speranza di soccorsi, in un mucchio di rovine fumanti, sotto la minaccia d'un nemico venti volte più numeroso, non cedette; anzi di giorno e di notte moltiplicò le sortite temerarie, sempre valido, ardente, fidente, gaio. Avendo avvistato in lontananza una compagnia di Serbi e volendo abboccarsi col capitano, monta a cavallo, salta il fosso; con la sciabola tra i denti, con la pistola nel pugno, seguito da un solo de' suoi, traversa il campo ottomano a furia. Si toglie di bocca la lama per gridare, a squarciagola: «O cani, ecco l'aiduco Vàlico!» Nessuno osa contrastargli il passo. Compie egli il suo disegno e rivolge la briglia a gran galoppo. Fende di nuovo la ressa ostile gridando: «O cani, ecco l'aiduco Vàlico che torna!». Gli è libero il passo. Egli rientra in Negòtino fra le sue torri mezzo diroccate. Ma fu, una mattina, nel fare la ronda, riconosciuto da un cannoniere turco e preso di mira. La palla lo colse, e in due lo spezzò. Ai suoi che accorrevano egli ebbe il fegato di gridare quella parola che oggi è la legge dei Serbi, la nostra, quella dei nostri alleati. Vucàssino ammazzato il pio imperatore Urosio figliuolo del grande Stefano, usurpò il regno; ed ebbe titolo di despota in prima, poi di re di Serbia e di Romania. Guerreggiò sempre, in vicenda di vittorie e di sconfitte; e trovò morte alfine in battaglia campale, affogato nella Màriza sanguinosa (1372) Celeberrimo dei suoi eredi il primogenito, Marco, detto Cralievic, cioè figliuolo del re, lo stupendo eroe cantato nel poemi epici della nazione serba. Quando Marco ebbe trecent'anni, trecent'anni di giustizia e di guerra, la Vila gli annunziò la morte prossima e Dio lo addormentò in un sonno che non si romperà se non quando gli si sguainerà da sé la lunga spada. Ecco, s'ode il suo grande cavallo macchiato nitrire, e la spada è già nuda... Uno dei canti epici più belli racconta come Marco di Prìlipa giovinetto sia chiamato ad aggiudicare l'impero fra i contendenti. «Re Vucàssino dice: "è mio". Uliesa despoto: "no, gli è mio". Il voivoda Goico: "no, ch'è mio".» Il giustissimo eroe lo aggiudica a quello che è da lui reputato legittimo erede. «Il libro dice: "ad Urosio l'impero".» Le Vile sono una sorta di deità che abitano i gioghi, i boschi, le fiumane. Vengono a soccorrere, a incitare, a consolare, a medicare i combattenti. Cavalcano sopra le nubi, sul crine dei monti, danzano sopra lance rizzate; annunziano, predicono, ammoniscono. Sempre ebbero grande animo le donne serbe. Anche oggi combattono a piedi e a cavallo, come combatteva Ljùbiza, la moglie di Milosio Obrenovic; la quale rincuorò il marito che per lei «dalla fuga volò sùbito alla vittoria»; e sempre di poi ella «col vigore proprio accendeva lo spento coraggio de' suoi». Le patrizie veneziane Anna Dandolo (1217-1221) e Costanza Morosini (1321)furono regine di Serbia: e il patrizio fiorentino Esaù de' Buondelmonti (1386-1403) sposò una donzella della Stirpe regia di Orosia. FINE